In cammino insieme allo Spirito Santo la via che conduce a Dio

Pentecoste: I doni dello Spirito Santo

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    MARIOCAPALBO
    00 15/12/2011 08:04

    I SETTE DONI DELLO SPIRITO SANTO

     

     

    Pentecoste: I doni dello Spirito Santo

     

     


     

     

     

     

     

    L’INSEGNAMENTO BIBLICO

     

          A partire dal nostro battesimo, lo Spirito Santo è venuto ad abitare nel nostro corpo come in un Tempio. Questa inabitazione dello Spirito non ha un carattere passivo ma dinamico; in altre parole: lo Spirito dimora in noi non come se fosse depositato, ma come nel centro direttivo di tutta la nostra personalità: “Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,14). Lo Spirito prende dimora in noi per guidarci nelle varie circostanze della vita. Lo Spirito ci guida mediante le virtù teologali, mediante i doni e i carismi. Parlando in particolare dei doni, la Scrittura ne enumera sette che rappresentano le operazioni più basilari dello Spirito nell’interiorità umana. Il profeta Isaia si esprime infatti così: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, Spirito di sapienza e di intelligenza, Spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore” (Is 11,2). Lo Spirito che si posa sul Messia si manifesterà con queste fondamentali operazioni; secondo il testo ebraico sono sei, mentre la traduzione greca dei LXX spiega che il “timore del Signore” contiene anche il dono della “pietà”. Si completa così il sacro settenario, riaffermato dall’Apocalisse giovannea: “I sette spiriti che stanno davanti al trono di Dio” (Ap 1,4); e ancora: “Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio” (Ap 3,1). Il quadro delle operazioni dello Spirito si completerà con Is 61,1-3, mediante i doni carismatici che abilitano il Messia (e i suoi Apostoli) non solo ad annunciare autorevolmente il regno di Dio, ma anche a leggere nei cuori, a compiere esorcismi e guarigioni. I doni carismatici, però, non sono dati a tutti; i sette doni di cui parliamo sono infusi in tutti i battezzati. Cercheremo di capire, alla luce dell’insegnamento biblico, cosa sono e come agiscono nella nostra interiorità.

    Doni ordinari dello Spirito

     

    I doni dello Spirito Santo
    Il dono del Timor di Dio
    Il l dono della Pietà
    Il dono della Scienza
    Il dono della Fortezza
    Il dono del Consiglio
    Il dono dell'Intelletto
    Il dono della Sapienza

    Maria nel cenacolo

     

     

     

     

    "I sette doni dello Spirito Santo sono sette fonti di energia che egli degna deporre nelle nostre anime, quando vi penetra con la grazia santificante. Le grazie attuali mettono in movimento, simultaneamente o separatamente, quelle potenze divinamente infuse in noi, ed il bene soprannaturale e meritorio per la vita eterna si produce col consenso della nostra volontà
    dagli scritti di Dom Prosper Guérager O.S.B, Abate di Solesmes (1805-1875)

     

    A partire dal nostro battesimo, lo Spirito Santo è venuto ad abitare nel nostro corpo come in un Tempio. Questa inabitazione dello Spirito non ha un carattere passivo ma dinamico; in altre parole: lo Spirito dimora in noi non come se fosse depositato, ma come nel centro direttivo di tutta la nostra personalità: "Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio" (Rm 8,14). Lo Spirito prende dimora in noi per guidarci nelle varie circostanze della vita. Lo Spirito ci guida mediante le virtù teologali, mediante i doni e i carismi. Parlando in particolare dei doni, la Scrittura ne enumera sette che rappresentano le operazioni più basilari dello Spirito nell'interiorità umana. Il profeta Isaia si esprime infatti così: "Su di lui si poserà lo Spirito del Signore, Spirito di sapienza e di intelligenza, Spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore" (Is 11,2). Lo Spirito che si posa sul Messia si manifesterà con queste fondamentali operazioni; secondo il testo ebraico sono sei, mentre la traduzione greca dei LXX spiega che il "timore del Signore" contiene anche il dono della "pietà". Si completa così il sacro settenario, riaffermato dall'Apocalisse giovannea: "I sette spiriti che stanno davanti al trono di Dio" (Ap 1,4); e ancora: "Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio" (Ap 3,1). Il quadro delle operazioni dello Spirito si completerà con Is 61,1-3, mediante i doni carismatici che abilitano il Messia (e i suoi Apostoli) non solo ad annunciare autorevolmente il regno di Dio, ma anche a leggere nei cuori, a compiere esorcismi e guarigioni. I doni carismatici, però, non sono dati a tutti; i sette doni di cui parliamo sono infusi in tutti i battezzati. Cercheremo di capire, alla luce dell'insegnamento biblico, cosa sono e come agiscono nella nostra interiorità.La vita interiore del battezzato è toccata da questi sette doni in due principali facoltà: la mente e la volontà. Quattro di essi agiscono sulla mente: sapienza, intelletto, consiglio e scienza (o conoscenza); tre invece influiscono sulla volontà: fortezza, timore di Dio e pietà.

     

    ·         I SETTE DONI

     dello Spirito Santo sono un potenziamento del nostro intelletto e della nostra volontà, perché essi possano più facilmente e più intensamente compiere gli impegni della vita spirituale, in vista di una pienezza di vita che si chiama santità.

    Per cominciare: visualizziamo il giorno del nostro Battesimo e della nostra Cresima in cui lo Spirito Santo ha preso possesso della nostra persona. Lo ringraziamo.

    Ascoltiamo e assaporiamo la preghiera che nel rito della Confermazione  il ministro, imponendo le sue mani su di noi, ha pronunciato

    Dio Onnipotente, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che hai rigenerato questi tuoi figli dall’acqua e dallo Spirito Santo liberandoli dal peccato, infondi in loro il tuo santo Spirito Paraclito: spirito di sapienza e di intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e riempili dello Spirito del tuo santo timore …”

    ·         LA SAPIENZA: è chiamata da S Bernardosaporosa conoscenza delle cose divine” Ha dunque in sé un duplice elemento: la luce che illumina l’intelletto e il gusto spirituale che opera sulla volontà.

     Questo dono permette di scrutare le realtà di Dio riuscendo a vedere in tutti gli accadimenti quotidiani (buoni e non) la sua presenza e la sua volontà. In virtù di questo dono anche i fatti più drammatici (lutti, guerre, sciagure, ecc.) vengono vissuti nella fede riuscendo a vederne il disegno e la mano di Dio. E' una vera e propria conoscenza infusa di come opera Dio.

     

    ·         L’INTELLETTO: dà una penetrante intuizione delle verità rivelate, senza naturalmente poterne svelare il mistero. È il dono della comprensione.

     Questo dono concede vere e proprie illuminazioni inerenti le realtà della fede cristiana e dei relativi dogmi dandone un'assoluta certezza e senso di gaudio su chi le sperimenta.
    Ecco che una semplice parola sentita, un'esperienza vissuta o un passo del Vangelo ci forniscono un'illuminazione che sentiamo per certo proveniente da Dio. Molti santi hanno basato e improntato la loro intera esistenza sull'illuminazione ricevuta riguardo qualche singola realtà inerente Dio.

     

    ·         IL CONSIGLIO: è un rafforzamento e un perfezionamento della virtù della prudenza, che ci fa giudicare con prontezza e sicurezza, per una specie di intuizione soprannaturale.

     Questo dono permette di discernere la strada giusta da seguire in condizioni di dubbio riguardo alle scelte morali. La coscienza personale risulta guidata e consigliata riguardo a ciò che è bene fare e a ciò che non lo è. Particolarmente utile nei momenti della vita in cui è necessario prendere scelte importanti.

     

    ·         LA FORTEZZA: è un supplemento della virtù morale della fortezza. Per questo dono la volontà riceve una forza che la rende capace di agire con serenità anche nelle difficoltà.

    Questo dono concede forza nel promuovere ed attuare i principi della fede anche nelle avversità e nelle persecuzioni. Senza cedere a compromessi mondani questo dono di Dio da al cristiano la marcia in più che consente di affermare le realtà di Dio in ogni circostanza e senza timori di sorta.

     

    ·         LA SCIENZA: è un dono collaterale alla virtù della fede, che ci fa conoscere le cose create nella loro relazione con Dio.

    Similmente alla scienza umana che cerca di spiegare i principi che gravitano intorno ad un fenomeno, il dono della scienza rende partecipe il cristiano della presenza creatrice e vivificante di Dio su ogni cosa esistente, vedendone solo in Lui il vero artista. La contemplazione di un fiore, di un cielo, di un paesaggio, di un fenomeno, fanno sperimentare un esaltante senso di gioia per la certezza che dietro a tutto ciò sta il Creatore di tutte le cose che è Dio. Si sperimenta in maniera naturale la subordinazione di ogni cosa al suo Creatore (allo stesso modo in cui San Francesco chiamava naturalmente fratelli e sorelle tutti gli elementi del creato).

     

    ·         LA PIETÀ: dono annesso alla virtù della religione, produce nel cuore un amore filiale per Dio e tutto ciò che  fa riferimento a Dio. Chi ha questo dono vede in Dio un Padre e non un padrone.

    Questo dono orienta ed alimenta l'esigenza di ricorrere a Dio perché sentito come vero ed unico Padre buono e provvido. Credere realmente che Dio ci ama in modo paterno non può che trasmettere forza, pace e gioia. Dio sviluppa per riflesso in noi la capacità di vedere negli altri la sua immagine infondendo una nuova capacità di amore verso i fratelli sentiti realmente come figli dello stesso Padre.

     

    ·         IL TIMORE DI DIO: non è la paura o il terrore di Dio, ma l’atteggiamento riverenziale e filiale che ci fa temere ogni offesa di Dio, allontanandoci per questo dal peccato e  da tutto ciò che a Lui dispiace.

    Non si tratta di paura e tremore nei confronti di Dio ma di un senso di reale nudità e piccolezza rispetto a Colui che è immenso ed onnipotente. Ciò spinge ad avere un rapporto di amoroso rispetto e subordinazione nei confronti di colui che ci è Padre ma che alla fine ci giudicherà anche in base alle azioni compiute. Dio è buono ma è anche forte e potente perciò il nostro rapporto con Lui deve necessariamente essere sincero e contrito qualora si dovessero manifestare delle mancanze nei suoi confronti.

    La coabitazione dello Spirito Santo in noi sviluppa gradualmente le tre virtù teologali: fede, speranza, carità (cfr. 1Cor 13,1-13) ed i frutti dello Spirito che sono: amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di se (cfr. Gal 5,22).

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    MARIOCAPALBO
    00 15/12/2011 08:04
    la sapienza


    Il secondo favore che lo Spirito Santo ha destinato all'anima che gli è fedele nell'azione, è il dono della Sapienza, superiore anche a quello dell'intelletto. Tuttavia è legato a quest'ultimo, nel senso che l'oggetto mostrato nell'intelletto viene gustato e posseduto nel dono della Sapienza. Il Salmista, invitando l'uomo ad avvicinarsi a Dio, gli raccomanda di assaporare il Sommo Bene: "Gustate e vedete come è buono il Signore" (Sal 33, 9). La Santa Chiesa, nel giorno della Pentecoste, domanda per noi a Dio il favore di gustare il bene, recta sapere, perché l'unione dell'anima con Dio è piuttosto l'esperimento fatto per mezzo dei gusto che per mezzo della vista, ciò che sarebbe incompatibile col nostro stato presente. La luce data col dono dell'intelletto non è immediata, rallegra vivamente l'anima e dirige il suo senso verso la verità; ma tende a completarsi col dono della sapienza che ne è, il fine.
    L'intelletto è dunque illuminazione, e la sapienza è unione. Ora, l'unione col Sommo Bene si compie per mezzo della volontà, ossia per l'amore che risiede in essa. Noi rimarchiamo questa progressione nelle gerarchie angeliche. Il Cherubino scintilla d'intelligenza, ma al di sopra di lui vi è ancora il Serafino fiammante. L'amore - ardente nei Cherubini, nello stesso modo che l'intelligenza rischiara con la sua viva luce il Serafino; ma l'uno si differenzia dall'altro per la qualità predominante, ed il più elevato è quello che raggiunge più intimamente la Divinità per mezzo dell'amore, quello che gusta il Sommo Bene.
    Il settimo dono è decorato del bel nome di Sapienza, ed esso gli viene dalla Sapienza eterna alla quale tende di assomigliarsi con l'ardore dell'affetto. Questa Sapienza increata, che si degna di lasciarsi gustare dall'uomo in questa valle di lacrime, è il Verbo divino, quello stesso che l'Apostolo chiama "lo splendore della gloria dei Padre e la forma della sua sostanza" (Eb 1, 3). È lui che ci ha mandato lo Spirito per santificarci e ricondurci ad esso, di modo che l'operazione più elevata di questo divino Spirito è di procurare la nostra unione con chi, essendo Dio, si è fatto carne e si è reso per noi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (Filipp 2, 8). Per mezzo dei misteri compiuti nella sua umanità, Gesù ci ha fatto penetrare fino alla sua Divinità con la fede rischiarata dall'intelletto soprannaturale: "Noi fummo spettatori della sua gloria, gloria quale l'Unigenito ha dal Padre, pieno di grazie e di verità" (Gv 1, 14); e nello stesso modo che si è fatto partecipe della nostra umile natura umana, si dona fin da questo mondo per essere gustato, Lui, Sapienza increata, a questa sapienza creata che lo Spirito Santo forma in noi come il più sublime dei suoi doni.
    Felice dunque colui nel quale regna questa preziosa Sapienza che rivela all'anima il gusto di Dio e di ciò che è di Dio! "L'uomo animale non gusta le cose dello Spirito di Dio" ci dice l'Apostolo (1 Cor 2, 14); per godere di questo dono bisogna che divenga spirituale, si presti docilmente al desiderio dello Spirito, e allora vi arriverà, come hanno fatto altri che, dopo aver vissuto schiavi della vita sensuale, sono stati affrancati con la docilità verso lo Spirito divino che li ha cercati e ritrovati. Anche l'uomo meno rozzo, ma abbandonato allo spirito dei mondo, è ugualmente impotente a comprendere ciò che forma l'oggetto del dono della Sapienza e ciò che rivela quello dell'intelletto. Egli giudica coloro che hanno ricevuto questi doni e li critica; ed è una fortuna se non mette loro degli impedimenti, se non li perseguita! Gesù ce lo dice espressamente: "Il mondo non può ricevere lo Spirito di verità, perché non lo vede, né lo conosce" (Gv 14, 17)- Che quelli, dunque, che hanno la felicità di desiderare il Sommo Bene, sappiano che è necessario essere completamente staccati dallo spirito profano, che è il nemico personale dello Spirito di Dio. Affrancati dalle sue catene, potranno elevarsi sino alla Sapienza.
    È proprio di questo dono procurare un grande vigore all'anima e di fortificare le sue potenze. Tutta la vita ne viene risanata, come accade a coloro che fanno uso di alimenti adatti. Non vi è più contraddizione tra Dio e l'anima ed è questa la ragione per la quale l'unione si rende facile. "Dove è lo Spirito del Signore, ivi è libertà", dice l'Apostolo (2 Cor 3, 17)- Sotto l'azione dello Spirito di Sapienza, tutto diviene facile all'anima. Le cose che sembrano dure alla natura, ben lungi dallo stupire, sono rese dolci, ed il cuore non si spaventa più tanto della sofferenza. Non solamente si può dire che Dio non è lontano da un'anima che lo Spirito Santo ha messo in questa disposizione; ma è evidente che gli è unita. Che vegli tuttavia sull'umiltà; poiché l'orgoglio può ancora riaffacciarsi in lei, e allora la caduta sarebbe tanto più profonda, quanto più la sua elevatezza era stata grande.
    Insistiamo presso il divino Spirito e preghiamolo di non rifiutarci questa preziosa sapienza che ci condurrà a Gesù, Sapienza infinita. Un savio dell'antica legge aspirava già a questo favore, quando scriveva le seguenti parole, di cui solo il cristiano può avere la perfetta intelligenza: "Ho pregato, e mi fu dato il senno, ho supplicato, e venne a me lo Spirito di Sapienza" (Sap 7, 7). Bisogna dunque domandare con insistenza questo dono. Nella nuova Alleanza, l'Apostolo S. Giacomo ci sollecita con le sue esortazioni più fervorose: "Se poi tra voi vi è qualcuno che ha bisogno di Sapienza, la chieda a Dio che dà a tutti abbondantemente e non rimprovera; e gli sarà data. Chieda però con fede, senza per nulla esitare" (Gc 1, 5).

    Osiamo prendere per noi questo invito dell'Apostolo, o divino Spirito, e ti diciamo: «O Tu che procedi dalla Potenza e dalla Sapienza, concedici la Sapienza. Colui che è Sapienza ti ha inviato a noi per riunirci a Lui. Toglici a noi stessi, e ci unisci a Colui che si è unito alla nostra debole natura. Sacro mezzo dell'unità, sii il vincolo che ci legherà per sempre a Gesù, e Colui che è Potenza e Padre ci adotterà quali "eredi di Dio, coeredi di Cristo"» (Rm 8, 17)

     

    ·         Il dono della sapienza

    Il settenario isaiano si apre con la menzione di questo dono. La Scrittura si riferisce ripetutamente a questo dono dello Spirito, considerandolo come necessario per conoscere Dio e il suo volere. I passi biblici relativi a questo tema sono abbastanza numerosi, e questo fatto già dimostra di suo quale importanza rivesta il dono della sapienza nel quadro della rivelazione. Iniziamo col dire che, per la Bibbia, l'uomo non è sapiente né sono sapienti gli angeli; mano che mai sono sapienti i demoni. Infatti, "uno solo è sapiente, molto terribile, seduto sul trono" (Sir 1,6); "A Dio appartengono la sapienza e la potenza" (Dn 2,20); e Paolo dice ai Romani: "a Dio, che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo la gloria nei secoli" (Rm 16,27). Con questo si intende escludere che la sapienza possa essere prerogativa di qualcuno che non sia Dio stesso. Se una creatura può dirsi sapiente, ciò è perché ha ricevuto da Dio questo dono: "Dammi la sapienza che siede accanto a te in trono" (Sap 9,4); "Dio concede a chi gli è gradito la sapienza" (Qo 2,26). Oppure perché ha ascoltato con attenzione l'insegnamento dei sapienti: "Il tuo piede logori i gradini della porta del saggio" (Sir 6,36); "Piega l'orecchio ai discorsi sapienti" (Prv 23,12). La sapienza è quindi un dono di Dio, e come tale va anche desiderata e cercata. L'uomo privo della divina sapienza, anche se completo nelle sue doti naturali, può considerarsi un nulla (cfr. Sap 9,6). Dall'altro lato, coloro che hanno ricevuto da Dio la sapienza, non sanno di averla, e soltanto la convinzione di essere sapienti è un segno certo di stupidità: "Guai a coloro che si credono sapienti" (Is 5,21); "c'è chi si atteggia a saggio nei discorsi, ed è odioso" (Sir 37,20). "E' meglio sperare in uno stolto che in uno che sio crede saggio" (Prv 26,12). L'Apostolo Paolo racchiude sotto lo stesso rimprovero tutta la grecità pagana: "Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti" (Rm 1,22). Insomma, la caratteristica più evidente dello stolto è quella di compiacersi delle proprie parole e di appoggiarsi con ostentata ed esagerata sicurezza alle proprie idee.La sapienza non è dunque prerogativa dell'uomo e tuttavia senza di essa l'uomo è un nulla (cfr. Sap 9,6). La ricerca della sapienza è allora un atteggiamento imprescindibile. Il presupposto perché questa ricerca possa iniziare è la consapevolezza di non possederla. Dal canto suo, la sapienza è desiderosa di donarsi e ha preparato un banchetto per nutrire coloro che la desiderano (cfr. Prv 9,5-6). A questo banchetto sono invitati tutti senza distinzione, perché l'invito risuona nei punti più alti della città (cfr. Prv 9,3), ma risponderanno solo coloro che pensano di non avere ancora trovato la sapienza e sono perciò perennemente tesi nell'ascolto e nell'apprendimento (cfr. Prv 9,4). Coloro che si credono già sapienti ascoltano ma non apprendono, mangiano ma non assimilano. Rimangono perciò sempre fermi al medesimo punto e non progrediscono oltre.
    Dio si compiace di chi si decide a chiedergli la sapienza come prima e più importante ricchezza; chi cerca la sapienza dimostra già con questo di essere un saggio, anche se soggettivamente non ritiene affatto di esserlo (cfr. Sir 39,1-11). Al contrario: "Il beffardo ricerca la sapienza, ma invano" (Prv 14,6); "E' troppo alta la sapienza per lo stolto" (Prv 24,7); "Gli stolti disprezzano la sapienza" (Prv 1,7). Nell'AT la figura del saggio per antonomasia è quella di Salomone, figlio di Davide. Prima di ascendere al trono, egli si ritira in preghiera nel tempio di Gabaon e si rivolge al Signore con queste parole: "Concedi al tuo servo un cuore docile che sappia rendere giustizia al tuo popolo" (1 Re 3,9). La narrazione continua dicendo che al Signore piacque che Salomone avesse chiesto la saggezza nel governare e non avesse chiesto gloria, ricchezza e potenza o la morte dei nemici. Però, dal momento che Salomone ha chiesto la chiesto la cosa più importante, Dio gli garantisce anche le cose che lui non aveva chiesto: gloria, ricchezza e potenza. Gesù riaffermerà ancora una volta questa verità per tutti i suoi discepoli, dicendo: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in aggiunta" (Mt 6,33). Si tratta perciò di saper colpire il bersaglio più importante. Nella stessa preghiera con cui Salomone chiede la saggezza, dimostra già di essere saggio, perché capace di distinguere il meglio dal bene. Tra i doni di Dio, la sapienza è il più prezioso: "Vale più scoprire la sapienza che le gemme" (Gb 28,18); "Meglio possedere la sapienza che l'oro" (Prv 16,16); "Preferii la sapienza a scettri e a troni… preferii il suo possesso alla stessa luce, perché non tramonta il suo splendore. Insieme con essa mi sono venuti tutti i beni" (Sap 7,8.10-11). Il dono della sapienza procura tutti i beni, ossia il bene per eccellenza che è l'amicizia di Dio: "Sebbene unica la sapienza può tutto, attraverso le età entrando nelle anime sante forma amici di Dio e profeti. Nulla infatti Dio ama se non chi vive con la sapienza" (Sap 7,27-28). Stando così le cose, la sapienza va cercata al di sopra di tutto, e la prima via di ricerca è LA PREGHIERA: "Ricercai assiduamente la sapienza nella preghiera" (Sir 51,13; cfr. anche Sap 9,1-18, dove è riportata la preghiera di Salomone). La seconda via di ricerca è L'ASCOLTO DELL'INSEGNAMENTO BIBLICO: "Ascolta, figlio mio, e sii saggio" (Prv 23,19); "L'insegnamento dei saggi è fonte di vita" (Prv 13,14); "I più saggi tra il popolo ammaestreranno molti" (Dn 11,33); "Tendi l'orecchio e ascolta le parole dei sapienti" (Prv 22,17). E si potrebbe continuare ancora indefinitamente. La terza via di ricerca è LA MEDITAZIONE: la Scrittura è piena di esortazioni a leggere la Parola di Dio con attenzione e a riflettere su di essa assiduamente; tale esortazione è rivolta a tutti senza eccezione, ricchi e poveri, re, grandi della terra, o cittadini comuni. L'insistenza su questo tema è molto frequente, come si evince da alcune citazioni tra le molte possibili: "Medita giorno e notte il libro di questa legge" (Gs 1,8); "Tutto il giorno vado meditando la tua legge" (Sal 119,97); "Medita sempre sui comandamenti del Signore" (Sir 6,37); "Il saggio mediterà sui comandamenti di Dio" (Sir 39,7); "Il re leggerà tutti i giorni la copia di questa legge" (Dt 17,19); "Maria meditava tutte queste cose nel suo cuore" (Lc 2,19). Non occorre aggiungere altre citazioni, che peraltro potrebbero ancora moltiplicarsi. Il senso è chiaro: Dio vuole che l'uomo legga e mediti la Scrittura assiduamente, di giorno e di notte. Si vede che la presenza della Parola di Dio nella mente umana è una luce: "I comandi del Signore danno luce agli occhi" (Sal 19,9), ma è anche una potenza di guarigione: "Non li guarì né un'erba né un emolliente, ma la tua Parola, Signore, che tutto risana" (Sap 16,12).Ci possiamo chiedere adesso quali sono gli effetti che la sapienza produce in colui che la riceve da Dio. L'AT presenta delle figure di uomini che hanno ricevuto il dono della sapienza in misura eminente; si tratta di Giuseppe, figlio di Giacobbe, di Daniele, il veggente, e di Salomone, figlio di Davide. L'esame della loro personalità, attraverso le narrazioni bibliche, può in buona parte rispondere al nostro interrogativo di partenza. Giuseppe, figlio di Giacobbe, è il protagonista di una storia drammatica e meravigliosa insieme. Il libro della Sapienza parla di Giuseppe in questi termini: "La Sapienza non abbandonò il giusto venduto, ma lo preservò dal peccato. Scese con lui nella prigione, non lo abbandonò mentre era in catene, finché gli procurò uno scettro regale… e gli diede una gloria eterna" (Sap 10,14). In poche battute è così sintetizzata la sua storia: venduto dai fratelli, accusato ingiustamente imprigionato essendo innocente, innalzato nella gloria come viceré di Egitto. Giuseppe, dal canto suo, aveva avuto una precognizione del suo futuro in due sogni fatti da bambino (cfr. Gen 37,5-11). In questa storia dobbiamo cogliere i segni dell'opera del dono della sapienza concesso a Giuseppe. Il primo elemento che va notato è la precognizione del proprio futuro, ossia della propria posizione nel disegno di Dio. Possiamo scorgere questa luce sapienziale nella vita di un altro Giuseppe, lo sposo della Vergine Maria, che riceve nella notte una cognizione sapienziale della volontà di Dio, fino a quel momento sconosciuta per lui. Senza questa luce soprannaturale, Giuseppe avrebbe agito da uomo giusto, ma sarebbe uscito dal disegno di Dio, rimandando in segreto la sua fidanzata. In questo senso dobbiamo parlare del dono della sapienza, come quella luce che ci porta a conoscere la nostra posizione nel disegno di Dio, vale a dire: LA NOSTRA VOCAZIONE SPECIFICA. La scoperta della propria vocazione e del posto che Dio ci ha assegnato nella vita della Chiesa è segno certo che il dono della sapienza ha operato in noi. Un'altra manifestazione dell'atteggiamento sapiente di Giuseppe consiste nel fatto che tutte le sue opere sono compiute con grande perfezione. Egli non è mai svogliato o superficiale nel compimento dei suoi doveri. L'uomo saggio è sempre così. Affidare all'uomo saggio un servizio è lo stesso che mettere un tesoro in cassaforte. La sua credibilità e la sua affidabilità sono assolute. Quando Giuseppe arriva in Egitto con la carovana di ismaeliti, viene venduto di nuovo a un ricco signore di nome Potifar. Giuseppe si dimostra così preciso e perfetto nei suoi lavori, che da schiavo diventa amministratore dei beni di Potifar (cfr. Gen 39,3-4). La moglie di Potifar aveva messo gli occhi su Giuseppe, ma senza nessun risultato. E qui si vede un'ulteriore caratteristica dell'uomo saggio: è un uomo casto, non soggetto alle passioni dell'io inferiore. La sapienza infatti sta lontana dai disordini passionali (cfr. Sap 1,4). Proprio per le accuse ingiuste della moglie di Potifar, che così si vendica del fatto di essere stata respinta, Giuseppe finisce in carcere. Lì si svela presto la sua statura morale, "così il comandante della prigione affidò a Giuseppe tutti i carcerati, e quanto c'era da fare là dentro, lo faceva lui" (Gen 39,22). Ancora una volta, l'assoluta affidabilità dell'uomo saggio non può restare nascosta. Dio viene in aiuto a Giuseppe, dandogli anche una sapienza di ordine carismatico. Egli interpreta il significato dei sogni di due compagni di prigione e, successivamente, verrà chiamato a svolgere lo stesso compito per il Faraone, turbato da due sogni strani, che i suoi maghi non riescono a comprendere. Giuseppe scioglie l'enigma e viene costituito amministratore di tutto l'Egitto dal Faraone: "Poiché Dio ti ha svelato tutto questo, nessuno è più saggio di te. Tu stesso sarai il mio maggiordomo e ai tuoi ordini si schiererà tutto l'Egitto: solo per il trono io sarò più grande di te. … senza il tuo permesso nessuno potrà alzare la mano o il piede in tutto l'Egitto" (Gen 41,39-44).La saggezza di Giuseppe si manifesta però in tutta la sua grandezza, quando i suoi fratelli si recano in Egitto per acquistare il grano e si prostrano davanti a lui senza riconoscerlo, peraltro Giuseppe parla loro in lingua egiziana mediante un interprete, ma li capisce quando parlano in ebraico tra loro. Si realizza così il sogno della sua infanzia: i covoni dei fratelli si prostrano davanti al suo. Giuseppe si mostra duro con loro e li accusa di essere spie incaricate di scoprire i punti deboli del paese, mentre i fratelli interpretano questa durezza come un castigo di Dio per il loro antico peccato: "Si dissero l'un l'altro: certo su di noi grava la colpa nei riguardi di nostro fratello… per questo ci è venuta addosso questa angoscia" (Gen 42,21). Non sapevano che Giuseppe li capiva. Allora egli si allontanò da loro e scoppiò in pianto (cfr. Gen 42,24).

    Alla fine Giuseppe si fa riconoscere e la famiglia si riunisce presso di lui. L'ultimo atto della sapienza di Giuseppe è la rilettura della sua vita tormentata in chiave di salvezza. Specialmente dopo la morte del padre Giacobbe, i fratelli di Giuseppe cominciano a temere la sua vendetta, credendo che era per rispetto al padre che lui si era trattenuto. Perciò, gli mandano a dire: "Tuo padre, prima di morire ha dato quest'ordine: perdona il delitto dei tuoi fratelli. Ma Giuseppe disse loro: Non temete. Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso" (Gen 50,15-20).Le parole di Giuseppe contengono qui una profonda teologia. La sua sapienza lo porta a rifiutare l'atteggiamento infantile di chi si piange addosso. E lo conduce a cogliere la difficile verità della pedagogia di Dio, che lo ha guidato per vie incomprensibili e aspre. Ma per un fine alto e buono. Si ha qui anche il primo barlume della sapienza della croce: Dio non affligge mai per il gusto di affliggere; certamente non lo farebbe, se la gioia e il frutto di bene che ne derivano non fossero sensibilmente maggiori. Giuseppe, negli anni della sua maturità, è in grado di rileggere la propria esperienza di dolore e di rifiuto, la propria vita di uomo respinto e perseguitato, senza sentire più alcuna ferita, e ciò perché la luce sapienziale che invade la sua mente, gli dà di comprendere che i dolori della vita, vissuti nel e col Signore, distruggono nell'uomo solo ciò che deve essere distrutto, in modo tale che ciò che sopravvive è sempre la parte migliore e più eletta della personalità. Così nascono i santi: fioriscono sulle ceneri del proprio uomo vecchio, distrutto dai dolori della vita, accettati con amore, senza mai pensare che Dio ci abbia colpiti per capriccio o per arbitrio. Dopo molti decenni di paziente attesa, però, splende la verità della divina pedagogia, troppo alta per essere compresa da noi prima che tutto si compia. Sono i giudizi rapidi che ci portano fuori strada. Giuseppe ha valutato il senso globale della sua vita, ma solo alla fine, quando il disegno di Dio a suo riguardo si era ormai quasi del tutto compiuto. Tocchiamo qui un'altra caratteristica dell'uomo saggio: la lentezza nel pronunciare giudizi definitivi sull'opera di Dio e l'attesa di ciò che Dio farà domani. Altri aspetti dell'agire del saggio provengono dalla figura del veggente Daniele. Osserviamo intanto il distacco dagli onori e da ciò che umanamente procura la stima del prossimo. Daniele viene chiamato a corte per interpretare una misteriosa scrittura comparsa sulla parete; il re Baldassar chiama tutti i maghi del suo regno ma nessuno riesce a leggere e decifrare quella scritta. Infine si rivolge a Daniele: "Mi è stato detto che tu sei esperto nel dare spiegazioni e sciogliere enigmi. Se quindi potrai leggermi questa scrittura sarai vestito di porpora, porterai al collo una collana d'oro e sarai il terzo signore del regno. Daniele rispose al re: tieni pure i tuoi doni per te, tuttavia io leggerò questa scrittura al re e gliene darò la spiegazione" (Dn 7,16-17). Il saggio non è quindi sedotto dalla gloria umana, perché la sapienza è già un abito regale che lo riveste in modo più prezioso di quanto non possano le umane onorificenze. L'uomo saggio è abbellito in modo soprannaturale dalla sua stessa dignità e statura morale, perciò non è bisognoso di altri riconoscimenti, da lui considerati tutti inferiori alla ricchezza spirituale già posseduta.Nella figura di Daniele il saggio si presenta anche come un uomo di preghiera. Daniele prega molto. Soprattutto nei momenti difficili. Quando, ad esempio, Nabucodonosor, adirato coi maghi del suo regno colpevoli di non avergli fornito la spiegazione autentica di un suo sogno, decide di metterli a morte, Daniele interviene per evitare lo sterminio e prega tutta la notte. Così, in una visione notturna Dio gli svela sia il sogno del re sia la sua spiegazione autentica. Questo fatto placa l'ira del re (cfr. Dn 2). Al cap. 6 si dice inoltre che Daniele era solito pregare tre volte al giorno rivolto verso Gerusalemme, lodando Dio (cfr. v. 11). La luce sapienziale si ottiene in sostanza nel contesto della preghiera. La sapienza è data a chi prega. Un'altra caratteristica del saggio, molto evidente in Daniele, è il rifiuto del servilismo verso i potenti. Daniele si dimostra perfino disposto a morire, pur di non adorare il potere umano come se fosse una divinità. A Nabucodonosor, che gli impone l'adorazione di una statua, dice insieme ai suoi compagni: "sappi che il nostro Dio può liberarci dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi che noi non serviremo mai i tuoi dèi" (Dn 3,17-18). La dirittura di coscienza è assoluta, inflessibile dinanzi all'autorità umana. Per il saggio, l'autorità umana perde ogni valore, quando è esercitata contro la verità e contro il bene.La terza grande figura di uomo sapiente, nell'AT, è il re Salomone. Anche in lui possiamo notare taluni aspetti della sapienza che vanno senz'altro sottolineati. Ritorna a questo proposito il tema della preghiera: Salomone è un uomo di preghiera, anzi, è colui che edifica e consacra il luogo di preghiera per Israele, costituendo il centro ideale della spiritualità del popolo eletto. Salomone, così come farà anche Gesù nel suo ministero pubblico, affronta tutte le circostanze più cruciali della sua vita con la preghiera. Dopo la morte di Davide, il suo governo ha inizio con una notte di preghiera nel tempio di Gabaon (cfr. 1 Re 3,4ss) e più avanti è descritto mentre prega (cfr. 1 Re 8,22ss); e poi compare anche nell'atto di intercedere in favore del popolo (cfr. 1 Re 8,30ss). Il libro della Sapienza riporta pure una preghiera attribuita a Salomone, per ottenere da Dio la luce del discernimento (cfr. cap. 9). Nella visita della regina di Saba viene fortemente sottolineata questa caratteristica di Salomone, possessore di un acuto discernimento: "La regina di Saba si presentò a Salomone e gli disse quanto aveva pensato. Salomone rispose a tutte le sue domande, nessuna ve ne fu che non avesse risposta o che restasse insolubile per Salomone" (1 Re 10,1-3). Dopo che lo ebbe ascoltato, la regna concluse: "Beati i tuoi uomini, beati questi tuoi ministri che stanno sempre davanti a te e ti ascoltano" (1 Re 10,8). E possiamo anche comprendere, a questo punto, la profondità del rimprovero di Gesù ai suoi contemporanei: "La regina del Mezzogiorno si alzerà, nel giorno del giudizio, a condannare questa gente: essa infatti venne dalle più lontane regioni della terra per ascoltare la sapienza di Salomone. Eppure, di fronte a voi sta uno che è più grande di Salomone" (Lc 11,31). Nell'ultimo giorno non sarà dunque Dio a biasimare chi ha avuto la salvezza a portata di mano e non vi ha attinto la propria liberazione: saranno gli antichi, i quali hanno affrontato grandi sacrifici pur di avvicinarsi solo a un riflesso di quella luce che in Cristo splende in tutta la sua pienezza (cfr. Ap 1,16).

    ·         SAPIENZA

    La sapienza è un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genuino della gloria dell'Onnipotente,...è un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell'attività di Dio e un'immagine della sua bontà (Sap. 7,25-26).
    La sapienza è un lume che non può acquistarsi, ne per mezzo di umano magistero, ma che immediatamente viene infusa da Dio. (P.Pio)
    Dio la concede a quanti la chiedono nella preghiera e insieme ad essa vengono concessi tutti i beni. Questo dono, però, è concesso solo all'uomo la cui volontà è retta : "La sapienza non entra in un'anima che opera il male né abita in un corpo schiavo del peccato" (Sap.1,4)
    Il sapiente ha la sua gioia nel servire il Signore, dimenticando se stesso. Egli amerà buoni e cattivi, amici e nemici senza distinzioni umane, vedrà con gli occhi di Dio e amerà col suo Amore.
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    MARIOCAPALBO
    00 15/12/2011 08:05
    Intelletto

                                                                                                                                                           I.           

    Questo sesto dono dello Spirito Santo fa entrare l'anima in una via superiore a quella nella quale si è intrattenuta fin qui. I cinque primi doni tendono tutti all'azione. Il timor di Dio rimette l'uomo al suo posto, umiliandolo; la pietà apre il suo cuore agli affetti divini; la scienza gli fa discernere la via della salvezza dalla via della perdizione; la fortezza lo arma per la lotta; il consiglio lo dirige nei pensieri e nelle opere; egli dunque adesso può agire e proseguire nella sua strada con la speranza di arrivare al termine. Ma la bontà del divino Spirito gli riserva anche altri favori. Ha risolto di farlo godere, fin da questo mondo, di un preludio della felicità che gli riserva nell'altra vita. Sarà il mezzo per rendere sicuro il suo cammino, per animare il suo coraggio, per ricompensare i suoi sforzi. D'ora in avanti gli sarà dunque aperta la via della contemplazione, ed il divino Spirito ve lo introdurrà per mezzo dell'Intelletto.
    A questa parola di "contemplazione", forse molte persone si agiteranno, persuase, a torto, che l'elemento che significa non potrebbe incontrarsi che nelle rare condizioni di una vita passata nel ritiro e lontana dal commercio degli uomini. È un grave e pericoloso errore, che troppo spesso arresta lo slancio delle anime. La contemplazione è uno stato nel quale viene chiamata, in una certa misura, qualunque anima che cerchi Iddio. Essa non consiste nei fenomeni che lo Spirito Santo si compiace di manifestare in alcune persone privilegiate, e che destina a provare la realtà della vita soprannaturale. Essa è, semplicemente, quella relazione più intima che si stabilisce tra Dio e l'anima che gli è fedele nell'azione; a quest'anima, se non mette ostacoli, sono riservati due favori, di cui il primo è il dono dell'Intelletto, che consiste nell'illuminazione dello spirito rischiarato ormai da una luce superiore.
    Questa luce non toglie la fede, ma rischiara l'occhio dell'anima, fortificandola, dandole una più estesa visuale delle cose divine. Molte nubi svaniscono, perché provenivano dalla debolezza e dalla grossolanità dell'anima, non ancora iniziata. Si rivela la bellezza, piena d'incanto, di quei misteri che non si sentivano che vagamente; appariscono ineffabili armonie, che non si supponevano neppure esistere. Non è il vedere faccia faccia, cosa riservata per il giorno eterno; ma non è già più quel debole barlume che dirigeva i nostri passi. Un insieme di analogie, di convenienze, che successivamente si mostrano all'occhio dello spirito, vi portano una dolce certezza. L'anima si dilata a questo chiarore che arricchisce la fede, accresce la speranza e sviluppa l'amore. Tutto le sembra nuovo; e, quando essa volge in dietro lo sguardo, fa il paragone, e vede chiaramente che la verità, sempre la stessa, è adesso da lei afferrata in una maniera incomparabilmente più completa.
    La narrazione dei Vangeli l'impressiona assai più; trova un sapore per lei sconosciuto fino allora nelle parole del Salvatore. Comprende assai meglio il fine che si è proposto istituendo i suoi sacramenti. La Sacra Liturgia la commuove con le sue formule così maestose ed i suoi riti così profondi. La lettura della Vita dei Santi l'attira, niente la meraviglia nei loro sentimenti e nei loro atti. Gusta i loro scritti più che tutti gli altri, e sente un accrescimento di benessere spirituale, avvicinando questi amici di Dio. Circondata dei più disparati doveri, la fiaccola divina la guida per adempierli tutti. Le virtù così diverse che deve praticare si conciliano nella sua condotta; l'una non è mai sacrificata all'altra, perché vede l'armonia che deve regnare fra di esse. Vive lontano dallo scrupolo, come dal rilassamento, ed è sempre pronta a riparare i falli che ha potuto commettere. Qualche volta il divino Spirito l'istruisce anche con una parola interiore che la sua anima comprende e che le serve a chiarire la sua situazione con una nuova luce. D'ora in avanti il mondo e i suoi vani errori vengono apprezzati per quel che valgono, e l'anima si purifica dai resti di quell'attaccamento e di quella compiacenza che poteva ancora conservare al riguardo. Ciò che è grande e bello secondo la natura, sembra vile e misero a quest'occhio che lo Spirito Santo ha aperto agli splendori ed alle bellezze divine ed eterne. Un solo lato riscatta ai suoi occhi questo mondo esteriore, che forma l'illusione dell'uomo sensuale: è che la creatura visibile, che porta la traccia della beltà di Dio, è suscettibile di servire alla gloria del suo autore. L'anima impara ad usarne, unendovi atti di ringraziamento, rendendola soprannaturale, glorificando col Re-Profeta colui che ha lasciato l'impronta dei suoi tratti e della sua bellezza in questa moltitudine di esseri che servono così spesso alla perdita dell'uomo, mentre sono chiamati a divenire la scala che lo dovrebbero condurre a Dio.
    Il dono dell'Intelletto diffonde anche nell'anima la conoscenza della propria via. Le fa comprendere quanto sono stati saggi e misericordiosi i disegni superni che, qualche volta, l'hanno spezzata e trasportata là, ove non contava di andare. Ella vede che, se fosse stata padrona di disporre della sua esistenza, avrebbe mancato al suo fine, e che Dio ve l'ha fatta arrivare nascondendole in principio i disegni della sua paterna sapienza. Adesso è felice, poiché gode la pace, ed il suo cuore non sa come ringraziare adeguatamente Iddio che l'ha condotta al termine, senza consultarla. Se capita che sia chiamata a dare consigli, ad esercitare una direzione, per dovere o per motivi caritatevoli, possiamo affidarci a lei: il dono dell'Intelletto l'illumina per gli altri come per se stessa. Non si ingerisce, però, a dare lezioni a coloro che non gliene domandano; ma se viene interrogata, risponde, e le sue risposte sono luminose come la fiaccola che la rischiara.
    Tale è il dono dell'Intelletto, vera illuminazione dell'anima cristiana, che si fa sentire ad essa in proporzione della fedeltà che ha nel far uso degli altri doni. Questo si conserva con l'umiltà, la moderazione dei desideri ed il raccoglimento interiore. Una condotta dissipata ne arresterebbe lo sviluppo e potrebbe anche soffocarlo. Quest'anima fedele può conservarsi raccolta pure in una vita occupata e riempita da mille doveri, pure in mezzo a distrazioni obbligatorie, alle quali l'anima si presta senza abbandonarvisi. Che essa sia dunque semplice, che sia piccina ai suoi propri occhi e, quel che Dio nasconde ai superbi e rivela ai piccoli (Lc, 10, 21), le sarà manifestato e dimorerà in essa.
    Nessun dubbio che un tale dono sia un aiuto immenso per la salvezza e la santificazione dell'anima. Noi dobbiamo dunque implorarlo dal divino Spirito con tutto l'ardore del nostro desiderio, essendo ben convinti che lo raggiungeremo più sicuramente con lo slancio del nostro cuore, che con lo sforzo dei nostro spirito. È vero che la luce divina, che è l'oggetto di questo dono, si diffonde nell'intelligenza; ma la sua effusione proviene soprattutto dalla volontà, riscaldata dal fuoco della carità, secondo la parola di Isaia "Credete, e voi avrete l'intelligenza" (Is 6, 9. Citato così dai Padri Greci e Latini secondo i Settanta). Rivolgiamoci allo Spirito Santo e, servendoci delle parole di Davide, diciamogli:

    "Apri i nostri occhi, e noi contempleremo le meraviglie dei tuoi precetti; concedici l'intelligenza e avremo la Vita" (Sal 118).

    Istruiti dall'Apostolo, esporremo la nostra domanda in modo anche più insistente, facendo nostra la preghiera che egli rivolge al Padre Celeste in favore dei fedeli di Efeso, quando implora per essi lo "Spirito di Sapienza e di rivelazione col quale si conosce Iddio, mentre gli occhi del cuore, illuminati, scoprono l'oggetto della nostra speranza e le ricchezze della gloriosa eredità che Dio s'è preparata nei suoi Santi" (Ef 1, 17-18).

     

    ·         Il dono dell’intelligenza

    Il dono dell'intelletto riguarda anch'esso una illuminazione soprannaturale della mente umana, ma sotto un aspetto ancora diverso. Se il dono della sapienza è "la luce per vedere" e il dono della scienza è "l'oggetto divino da vedere", il dono dell'intelletto è "la facoltà di vedere". Anche nelle cose naturali, in fondo, la possibilità di conoscere il mondo risulta dall'incontro di tre fattori: un OGGETTO da vedere, la LUCE per poter vedere e l'OCCHIO sano. In mancanza di uno di questi tre elementi non si ha la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del disegno divino di salvezza risulta egualmente da tre doni spirituali: la scienza (l'oggetto da vedere), la sapienza (la luce per vedere), l'intelletto (l'organo della vista). Vediamo qualche riscontro biblico.In Matteo 15,16, Gesù rimprovera significativamente i suoi Apostoli: "Anche voi siete ancora senza intelletto?". Cosa era accaduto? Il Maestro aveva appena esposto un insegnamento fondamentale sul puro e sull'impuro, precisando che l'impostazione del Levitico doveva essere trasferita dal piano materiale del cibo che entra nello stomaco (e che quindi non contamina lo spirito) al piano spirituale di ciò che l'uomo elabora dentro la propria coscienza. E' questa radice interiore delle decisioni che contamina la società e il singolo. I farisei restano scandalizzati dinanzi a questo insegnamento così nuovo, mentre gli Apostoli non ne capiscono il senso. E' a questo punto che Gesù chiede: "Siete ancora senza intelletto?"
    Che cosa è allora l'intelletto? Sulla base del contesto in cui Gesù utilizza questo termine, dobbiamo dire che il dono dell'intelletto è una particolare capacità di capire la Parola di Dio. Il dono dell'intelletto entra quindi in azione nei momenti di meditazione personale, nei ritiri e negli incontri di annuncio o di formazione dottrinale. Senza "l'organo della vista", cioè senza il dono dell'intelletto soprannaturale, la nostra comprensione delle Scritture non sarebbe né profonda né salvifica. Sappiamo che la Bibbia può essere studiata anche come libro; di essa si può scandagliare tutto: le epoche di composizione, le eventuali stratificazioni e redazioni, la trasmissione del testo e i suoi codici, i suoi generi letterari, il suo rapporto con l'archeologia… ma rimane il fatto che la Bibbia diventa Parola di salvezza solo a condizione che venga letta e meditata "nello Spirito"; ossia sotto l'influsso e l'operazione dei doni che innalzano le facoltà mentali dell'uomo a un livello di conoscenza soprannaturale. Se la Bibbia viene studiata senza il dono dell'intelletto può essere compresa solo nei suoi significati umani, ma non nelle sue energie salvifiche, che si possono raggiungere e penetrare solo in una lettura nello Spirito. Su questo punto abbiamo dei riscontri molto precisi: "L'ispirazione dell'Onnipotente lo fa intelligente" (Gb 32,8); vale a dire: esiste una forma di analisi e di penetrazione mentale della realtà che è data da una ispirazione divina, la quale rende più acuta l'intelligenza naturale e la fa idonea a comprendere ciò che supera il confine della natura: il mondo del soprannaturale. Per questo il saggio avverte: "Non appoggiarti sulla tua intelligenza" (Prv 3,5), esortazione che risulterebbe senz'altro assurda, se non esistesse un'altra intelligenza sulla quale potersi appoggiare. Che l'intelligenza, come dono soprannaturale, sia distinta e ordinata alla sapienza si vede chiaramente da 1 Re 5,9: "Dio concesse a Salomone saggezza e intelligenza". Non sarebbe infatti pensabile che Dio doni all'uomo la luce per vedere (sapienza) ma non l'organo della vista (intelligenza). Anche l'Apostolo Paolo si muove nella identica prospettiva: "Egli ha riversato (la grazia) abbondantemente su di noi con ogni sapienza e intelligenza" (Ef 1,8). In sostanza, Paolo vuol dire che per metterci in grado di capire il mistero di Cristo (dono della scienza), il Padre ci ha dato la luce per vedere (dono della sapienza) e l'organo della vista (dono dell'intelligenza). Il dono dell'intelligenza, cioè la comprensione soprannaturale della realtà, non è limitato però ai soli contenuti della Rivelazione, visto che lo stesso Apostolo lo preannuncia a Timoteo come un aiuto per tutte le altre eventuali difficoltà del ministero apostolico: "Il Signore ti darà intelligenza per ogni cosa" (Tm 2,7). Infine, ai Romani, Paolo parla del dono dell'intelletto che i sapienti della Grecia pagana non hanno avuto; essi, tanto colti e raffinati da aver dato i natali alla filosofia occidentale, hanno dall'altro lato idolatrato le forze della natura, rendendo un culto a divinità inesistenti, false e bugiarde, come le chiama Agostino di Ippona, e Dante dopo di lui. In questo si sono dimostrati insipienti. Hanno guardato la natura, così bella e ricca di armonie, ma non sono riusciti a risalire dall'opera all'Artista; e ciò è strano, perché "dalla creazione del mondo in poi, le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l'intelletto" (Rm 1,20). Se l'intelletto naturale bastasse per vedere le perfezioni di Dio nella natura, anche i greci, così sapienti, se ne sarebbero accorti. Ci vuole infatti il dono dell'intelletto, di cui essi erano evidentemente privi. E poi, trattandosi di un dono, l'intelligenza infusa va anch'essa invocata e attesa: "Se invocherai l'intelligenza…" (Prv 2,3).

    Intelletto

    L'intelletto è una luce soprannaturale, che illumina l'occhio dell'anima fortificandola e donandole una più estesa vista sulle cose divine.
    L'intelligenza ci fa apparire le cose spirituali come nuda Verità (S.Tommaso).
    Si rivela la bellezza piena d'incanto dei misteri di Dio ed appaiono armonie nuove che portano ad una dolcezza infinita. Tutto sembra nuovo all'anima, la Verità è colta in maniera più completa.
    La condizione indispensabile per il dono dell'intelletto è la purezza di cuore : un cuore puro è un cuore sincero, limpido, leale, trasparente, libero da ogni male.
    "Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti ed agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli." (Mt.5,8).
    Bisogna essere piccoli, lasciarsi purificare, spogliarsi di tutto, anche delle certezze più assolute. Il dono dell'intelletto dona all'anima una conoscenza profonda della propria vita, le fa capire i disegni di Dio facendola raggiungere lo scopo della sua esistenza.
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    MARIOCAPALBO
    00 15/12/2011 08:05
    Consiglio

    Il dono della Fortezza di cui abbiamo riconosciuto la necessità nell'opera di santificazione del cristiano, non sarebbe sufficiente per assicurare questo grande risultato, se il divino Spirito non avesse preso cura di unirlo ad un altro dono, che lo segue e che previene da ogni pericolo. Questo nuovo beneficio consiste nel dono del consiglio. La Fortezza non si potrebbe lasciare abbandonata a se stessa; le è necessario un elemento che la diriga. Il dono della Scienza, non potrebbe esserlo, perché, se illumina l'anima sul suo fine e sulle regole generali della condotta che deve tenere, non porta una luce sufficiente sulle applicazioni speciali della legge di Dio e sulla direzione della vita. Nelle diverse situazioni in cui potremmo essere posti, nelle decisioni che potremmo aver bisogno di prendere, è necessario che sentiamo la voce dello Spirito Santo, ed è per mezzo del dono del Consiglio che questa voce divina arriva fino a noi. Ella ci dice, se vogliamo ascoltarla, ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare; ciò che dobbiamo dire e ciò che dobbiamo tacere; ciò che possiamo conservare e ciò cui dobbiamo rinunziare. Per mezzo del dono del Consiglio, lo Spirito Santo agisce sulla nostra intelligenza, nello stesso modo che, col dono della Fortezza, agisce sulla nostra volontà. Questo dono prezioso deve essere applicato durante tutta la nostra vita, perché continuamente ci dobbiamo decidere per un partito o per l'altro; e deve essere causa di una grande riconoscenza verso lo Spirito divino, il pensiero che Egli non ci lascia mai abbandonati a noi stessi, finché siamo disposti a seguire la direzione che ci imprime. Quanti agguati può farci evitare! quante illusioni può distruggere in noi! quante realtà ci fa scoprire! ma, per non perdere le sue ispirazioni, bisogna che ci salvaguardiamo dalle attrattive naturali che, troppo spesso, influiscono sulle nostre decisioni: dalla temerità che ci trascina secondo il piacere delle passioni; dalla precipitazione che ci rende troppo solleciti nel giudicare e nell'agire, anche quando non abbiamo ancora visto che un lato delle cose; e, finalmente, dall'indifferenza che fa sì che noi decidiamo a caso, per timore di affaticarci nella ricerca di ciò che sarebbe per il meglio.
    Lo Spirito Santo, col dono del Consiglio, strappa l'uomo a tutti questi inconvenienti. Corregge la natura così spesso eccessiva, quando non è apatica. Mantiene l'anima attenta a ciò che è il vero, a ciò che è buono, a ciò che le è veramente vantaggioso. Le insinua questa virtù, che è il complemento ed il nutrimento necessario per far sviluppare tutte le altre; intendiamo dire la discrezione, di cui ha il segreto, per mezzo della quale le virtù si conservano, si armonizzano e non degenerano in difetti. Sotto la direzione del dono del Consiglio, il cristiano non ha nulla da temere; lo Spirito Santo prende su di sé la responsabilità di tutto. Che importa, dunque, che il mondo condanni o critichi, che si stupisca o si scandalizzi? Il mondo si crede saggio; ma non ha il dono del Consiglio. Per questo accade spesso che le risoluzioni prese sotto la sua ispirazione, portano ad un fine ben diverso da quello che si era proposto. E doveva essere così; poiché è ad esso che il Signore ha detto "non quali i miei pensieri sono i pensieri vostri, né quale la vostra condotta è la mia" (Is 55, 8).
    Domandiamo, dunque, con tutto l'ardore del nostro desiderio, il dono divino che ci preserverà dal pericolo di guidarci da noi stessi. Ma comprendiamo pure che questo dono non abita che in coloro che lo stimano abbastanza, per rinunciare a se medesimi in sua presenza. Se lo Spirito Santo ci trova staccati dalle idee umane, convinti della nostra fragilità, si degnerà di essere il nostro Consiglio, mentre se ci credessimo savi di fronte ai nostri occhi, ritirerebbe la sua luce e ci lascerebbe a noi stessi.

    Non vogliamo che ci accada questo, o divino Spirito! Per esperienza sappiamo troppo che non ci è di vantaggio correre i rischi della prudenza umana, e abdichiamo sinceramente, di fronte a Te, le pretese del nostro spirito, così pronto ad abbagliarsi e a farsi delle illusioni. Conserva e degnati di sviluppare in noi, in piena libertà, questo dono ineffabile che ci hai concesso nel Battesimo: sii per sempre il nostro Consiglio: "Facci conoscere le tue vie, e insegnaci i tuoi sentieri. Dirigici nella Verità e ci istruisci; poiché è da te che ci verrà la salvezza, ed è per questo che noi ci attacchiamo alla tua condotta (Sal 118). Noi sappiamo che saremo giudicati su tutte le nostre opere e su tutte le nostre intenzioni; ma sappiamo anche che non avremo niente da temere finché saremo fedeli alla tua guida.
    Staremo, dunque, attenti "ad ascoltare ciò che dice in noi il Signore nostro Dio" (Sal 84, 9), lo Spirito del Consiglio, sia che egli ci parli direttamente sia che ci rimandi allo strumento che avrà scelto per noi.
    Sii dunque benedetto, Gesù, che ci hai inviato lo Spirito per essere la nostra guida, e benedetto sia questo divino Spirito, che si degna di darci sempre la sua assistenza, e che le nostre resistenze passate non hanno allontanato da noi!

     

    ·         Il dono del consiglio

    Questo dono dello Spirito, altrettanto necessario ai discepoli di Cristo, riguarda pure una particolare illuminazione della mente; tuttavia, a differenza dei tre doni precedenti, i quali si muovono su un terreno prevalentemente speculativo (anche se la sapienza ha innegabili aspetti pratici), il dono del consiglio opera esclusivamente in sede di ragion pratica. Questa particolare luce soprannaturale non è quindi ordinata al conoscere ma all'agire. Ma perché è necessario un dono dello Spirito per illuminare la ragion pratica? La risposta è semplice: l'ambito delle decisioni e della vita pratica è il campo su cui si combatte la battaglia del compimento della volontà di Dio. E la luce della ragione naturale, da sola, non è sufficiente a indicarmi "il meglio pratico" nel quadro della perfezione cristiana. In sostanza: se devo realizzare un bene umano (vale a dire: l'acquisto di una casa, la legalità nella professione, il metodo educativo per i figli..) può bastarmi la luce della mia ragione naturale, accompagnata dalle competenze e dall'esperienza; ma se devo realizzare un bene soprannaturale (vale a dire: realizzare le aspettative della volontà di Dio per me, qui e ora), la luce della mia ragione naturale non può più bastarmi. Ecco che il Signore mi dà ciò che manca al mio quoziente intellettivo, infondendomi il dono soprannaturale della ragion pratica: il consiglio. Si tratta di un dono che, al pari degli altri, nessuno può conseguire, se Dio non lo elargisce graziosamente: "A Dio appartiene il consiglio" (Gb 12,13). Anche questo dono è prerogativa divina, nel senso che non è in dotazione della natura umana in quanto tale. Il consiglio è un dono che si aggiunge alla ragione umana. Chi non lo possiede non può rispondere alle esigenze quotidiane della volontà di Dio, perché non è interiormente diretto da Dio. Al massimo egli potrà individuare il bene umano e regolarsi su di esso in base al loro buon volere, ma la perfezione cristiana, ovviamente, è ben altro. Chi ha il dono del consiglio è guidato da Dio nelle circostanze piccole e grandi della vita pratica, e perciò egli non agisce bene, ma agisce santamente: "Mi guiderai con il tuo consiglio" (Sal 73,24); "Benedico il Signore che mi ha dato consiglio" (Sal 16,7); "Il Signore dirigerà il consiglio del saggio" (Sal 39,7).
    Per ottenere il dono del consiglio, al pari di tutti gli altri doni soprannaturali, occorre una precisa disposizione: "L'uomo accorto acquisterà il dono del consiglio" (Prv 1,5); insomma, i doni di Dio non possono essere elargiti a chi non si dispone a riceverli.

    Consiglio

    "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto."(Rm. 12,2)
    Il dono del consiglio ci fa attuare il proposito di vivere secondo il Vangelo nelle situazioni concrete : ci ispira scelte conforme alla volontà di Dio, ci aiuta a risolvere i problemi della condotta personale.
    E' una specie d'intuizione soprannaturale che aiuta a giudicare prontamente e sicuramente ciò che conviene fare e decidere, senza esitazioni e dubbi, anche nei casi difficili.
    Lo Spirito ci mette in piena sintonia con Dio e ci fa realizzare il proposito di vivere secondo la sua volontà, e viene in aiuto della nostra debolezza perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare.
    Occorre essere docili, sottomessi alla mozione dello Spirito, cioè non ostacolarne l'azione: il dono del consiglio richiede alcune disposizioni fondamentali tra cui un profondo sentimento della nostra impotenza ed incapacità, che solo può attirare lo Spirito di Dio ad agire in noi. E' necessaria anche la semplicità e la retta intenzione che ci libera da riguardi e considerazioni umane e ci indirizza con purezza di cuore a Dio.
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    MARIOCAPALBO
    00 15/12/2011 08:06
    Fortezza

    Il dono della scienza ci ha insegnato ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare per essere conformi al disegno di Gesù Cristo, nostro divin Capo. Bisogna adesso che lo Spirito Santo stabilisca in noi il principio dal quale poter attingere l'energia che dovrà sostenerci nella via che ci ha indicato poco fa. Infatti noi sappiamo che incontreremo certamente degli ostacoli, ed il gran numero di quelli che soccombono basta a convincerci della necessità che abbiamo di essere aiutati. Questo soccorso ci viene dallo Spirito divino che ci comunica il dono della fortezza, per mezzo del quale, se noi saremo fedeli a servircene, ci sarà possibile, ed anche facile, trionfare di tutto ciò che potrebbe arrestare il nostro cammino.
    Nelle difficoltà e nelle prove della vita, l'uomo ora è portato alla debolezza e all'abbattimento, ora è spinto da un ardore naturale che ha la sua sorgente nel temperamento o nella vanità. Questa doppia disposizione porterebbe raramente la vittoria nella lotta che l'anima deve combattere per la sua salvezza. Lo Spirito Santo ci porta dunque un elemento nuovo: questa forza soprannaturale, tal
    mente propria in lui, che il Salvatore, istituendo i sacramenti, ne ha stabilito uno che ha per oggetto speciale di darci questo divino Spirito come principio di energia. L fuori dubbio che, dovendo lottare durante questa vita, contro il demonio, il mondo e noi stessi, ci occorre ben altro per resistere, che la pusillanimità o l'audacia. Abbiamo bisogno di un dono che moderi in noi la paura, e, nello stesso tempo, che temperi la fiducia che noi saremmo portati a mettere in noi stessi. L'uomo, modificato così dallo Spirito Santo, vincerà sicuramente; poiché la grazia supplirà in lui alla debolezza della natura e, nel medesimo tempo, correggerà la sua foga.
    Due necessità si incontrano nella vita del cristiano: egli deve saper resistere, e deve saper sopportare. Che potrebbe opporre alle tentazioni di Satana, se la forza dei divino Spirito non venisse a ricoprirlo di un'armatura celeste e ad agguerrire il suo braccio? Il mondo non è forse anche il suo avversario terribile, se si considera il numero delle vittime che fa ogni giorno, con la tirannia delle sue massime e delle sue pretese? Quale deve essere, dunque, l'assistenza dei divino Spirito, quando si tratta di rendere il cristiano invulnerabile ai dardi che uccidono e che fanno tante rovine intorno a lui?
    Le passioni del cuore dell'uomo non sono un ostacolo minore alla sua salvezza ed alla sua santificazione: ostacolo tanto più temibile, in quanto è più intimo. Bisogna che lo Spirito Santo trasformi il cuore, che lo trascini anche a rinunziare a se stesso, quando la luce celeste c'indicherà una via diversa da quella verso la quale ci spinge l'amore della ricerca di noi stessi. Quale forza divina ci vuole, per "odiare la propria vita", quando Gesù Cristo lo esige (Gv 12, 25), quando si tratta di fare la scelta tra due padroni il cui servizio è incompatibile? (Mt 6, 24). Lo Spirito Santo fa ogni giorno questi prodigi per mezzo del dono che ha diffuso in noi, se noi non lo disprezziamo, se non lo soffochiamo, nella nostra viltà e nella nostra imprudenza. Insegna al Cristiano a dominare le passioni, a non lasciarsi condurre da queste cieche guide, a non cedere ai suoi istinti, che quando essi sono conformi all'ordine che Dio ha stabilito. Qualche volta questo divino Spirito non domanda solamente al Cristiano di resistere interiormente ai nemici dell'anima; ma esige che protesti apertamente contro l'errore ed il male, se il dovere di stato o la sua posizione lo reclamano. È allora che bisogna affrontare quella specie d'impopolarità che spesso si riversa sul cristiano, e che non dovrà sorprenderlo, ricordandosi le parole dell'Apostolo: "Se io cercassi di piacere agli uomini, non sarei servo di Cristo" (Gal 1,10). Ma lo Spirito Santo non manca mai, e quando egli trova un'anima risoluta ad usare della forza divina di cui egli è la sorgente, non solamente le assicura il trionfo, ma ordinariamente la stabilisce in quella pace, piena di dolcezza e di coraggio, che ci porta la vittoria sulle passioni.
    Tale è la maniera con la quale lo Spirito Santo applica il dono della fortezza nel Cristiano, quando questi è obbligato alla resistenza. Abbiamo detto che questo prezioso dono ci dava nello stesso tempo l'energia necessaria per sopportare le prove che formano il prezzo della nostra salvezza. Vi sono degli spaventi che agghiacciano il coraggio e possono trascinare l'uomo alla perdizione. Il dono della fortezza li dissipa; li rimpiazza con una calma ed un senso di sicurezza, sconcertanti per la natura. Guardate i martiri, e non solamente S. Maurizio, Capo della legione Tebea, abituato alle lotte del campo di battaglia; ma una Felicita, madre di sette figli, una Perpetua, nobile dama di Cartagine, per la quale il mondo non aveva che favori; una Agnese, fanciulla di tredici anni, e tante altre migliaia, e dite se il dono della fortezza è sterile nei sacrifici. Dov'è andata la paura della morte, il cui solo pensiero qualche volta ci opprime? E quelle generose offerte di tutta una vita immolata nella rinuncia e nelle privazioni, per trovare unicamente Gesù e seguirne le tracce più da vicino! E tante esistenze nascoste agli sguardi distratti e superficiali degli uomini, esistenze in cui l'elemento principale è il sacrificio, in cui la serenità non si lascia mai vincere dalla prova, in cui la croce, che si moltiplica sempre, sempre viene accettata! Quali trofei per lo Spirito di fortezza! Quali atti di dedizione al dovere egli sa generare! E se l'uomo, per se stesso è poca cosa, come cresce in dignità sotto l'azione dello Spirito Santo!
    È ancora Lui che aiuta il cristiano a superare la brutta tentazione del rispetto umano, elevandolo al di sopra delle considerazioni mondane che gli detterebbero un'altra condotta. È Lui che spinge l'uomo a preferire la gioia di non aver violato i comandamenti del suo Dio, a quella frivola di seguire gli onori del mondo.
    Questo Spirito di fortezza che fa accettare gli infortuni, quali altrettanti disegni misericordiosi del Cielo; che sostiene il coraggio del cristiano nella perdita così dolorosa di esseri cari, nelle sofferenze fisiche che gli renderebbero la vita pesante, se non sapesse che esse sono le visite del Signore. È Lui, finalmente, come lo leggiamo nella vita dei Santi, che si serve delle stesse ripugnanze della natura, per provocare quegli atti eroici in cui la creatura umana sembra aver sorpassato il limite del suo essere per elevarsi al rango degli spiriti impassibili e glorificati.

    Spirito di fortezza, resta sempre più in noi, e salvaci dalla mollezza di questo secolo. In nessun'altra epoca, l'energia delle anime è stata più debole, lo spirito mondano ha maggiormente trionfato, il sensualismo si è fatto più insolente, l'orgoglio e l'indipendenza più pronunciati. Saper essere forti contro se stessi, è una rarità che eccita lo stupore in coloro che ne sono testimoni: tanto le massime del vangelo hanno perduto terreno! Trattienici su questo pendio che, come tanti altri, ci trascinerebbe al male, o divino Spirito! Permetti che noi ti indirizziamo, in forma di domanda, quei voti che Paolo formulava per i cristiani di Efeso, e che noi osiamo reclamare dalla tua generosità, l'armatura di Dio che ci permetterà di tener duro nel giorno cattivo e di rimanere perfetti in tutte le cose. Cingi i nostri fianchi con la verità, rivestici della corazza della giustizia, e calzaci i piedi con l'alacrità che dà il vangelo di pace. Armaci dello scudo della fede, col quale potremo estinguere i dardi infuocati del maligno; metti sul nostro capo l'elmo della speranza per la salvezza e nelle mani la spada dello Spirito, che è la parola di Dio (Ef 6, 11-17), con l'aiuto del quale, come il Signore nel deserto, noi possiamo riportare la vittoria su tutti i nostri avversari. Spirito di fortezza, fa' che così sia.

     

    ·         Il dono della fortezza

    Dicevamo all'inizio che ci sono tre doni che riguardano la sfera emozionale volitiva: la fortezza, la pietà, il timor di Dio. Cominciamo col dono della fortezza. Anche in questo caso dobbiamo distinguere una fortezza naturale da una fortezza infusa da Dio. E se c'è una fortezza naturale, come la forza del carattere, per affrontare le difficoltà normali della vita, c'è anche una fortezza carismatica per affrontare le difficoltà che sono proprie del cammino di fede. A questo è appunto orientato il dono della fortezza. Vediamo quale può essere qualche riscontro biblico pertinente.
    In più punti e in diversi modi si dice nella Scrittura che Dio è la fortezza dell'uomo. Le citazioni potrebbero essere molto numerose: "Signore, mia roccia, mia fortezza" (Sal 18,3); "Di' al Signore: mio rifugio e mia fortezza" (Sal 91,2). I sapienziali precisano che Dio è fortezza per l'uomo giusto: "Il Signore è una fortezza per l'uomo retto" (Prv 10,29). La forza è anch'essa una prerogativa di Dio, che però Egli non usa per imporsi, ma solo per sostenere la debolezza umana: "Prevalere con la forza ti è sempre possibile, tutto il mondo davanti a Te è come polvere… Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza… il tuo dominio universale ti rende indulgente con tutti" (Sap 11,21.22; 12,17.18). Piuttosto è Dio che infonde forza ed energia all'uomo: "Il Signore ti darà la forza" (Dt 8,18), e ancora: "Dammi forza, Signore, in questo momento" (Gdt 13,7); "Il Signore darà forza al suo popolo" (Sal 29,11). Naturalmente, come già dicevamo, non si tratta di una forza finalizzata a realizzazioni umane, bensì è quella forza di cui abbiamo bisogno per portare a compimento la volontà di Dio, spesso ardua e ostacolata da grandi impedimenti. Senza il dono della fortezza infusa, si cederebbe radicalmente dinanzi a ostacoli non di rado superiori alle forze umane, come si vede bene dalla vita dei santi, e in particolare quella dei martiri. Dobbiamo adesso cercare di vedere, attraverso le narrazioni bibliche, in quali casi è intervenuto il dono della fortezza infusa. Il primo riferimento potrebbe essere rappresentato dal difficile ministero di Mosè. Egli non deve soltanto tenere testa all'ostilità del Faraone, bensì anche alle mormorazioni e alla sfiducia del popolo di Israele, come quando, dopo il suo primo intervento in favore degli schiavi ebrei, per tutta risposta il Faraone aumenta la misura dell'oppressione, e gli isareliti accusano Mosè e Aronne: "Il Signore proceda contro di voi e giudichi; perché ci avete resi odiosi agli occhi del Faraone e dei suoi ministri" (Es 5,21). E questa sfiducia verso di lui si ripresenterà più e più volte lungo tutto il cammino nel deserto. Perfino sua sorella Maria, insieme ad Aronne, dubiterà di lui e sarà punita da Dio per questo (cfr. Nm 12,1-3). Insomma, Mosè è colpito dall'esterno e dall'interno, eppure non si abbatte mai, anche se attraversa momenti di grandi lotte interiori (cfr. Nm 11,15). Quale forza lo tiene a galla? Senza dubbio l'infusione della fortezza soprannaturale, che lo abilita a compiere una missione non umana, e perciò dalle difficoltà non umane. Un'altra figura che può aiutarci a cogliere l'operazione del dono della fortezza è Davide, allorché si trovò dinanzi a Golia, abile soldato filisteo. Le parole di Davide sono già l'espressione verbale del dono della fortezza soprannaturale; mentre gli israeliti fuggono dinanzi al campione Golia, Davide chiede: "Chi è mai questo filisteo incirconciso che osa insultare le schiere del Dio vivente?" (1 Sam 17,27). L'uomo giusto si sente sempre sicuro e imbattibile nei confronti di coloro che, pur arroganti o umanamente potenti, non hanno con sé la grazia di Dio. Questo stesso concetto, con implicito riferimento alla fortezza soprannaturale, è detto in Prv 28,1: "L'empio fugge anche se nessuno lo insegue; il giusto invece è sicuro come un giovane leone". Il profeta Daniele lo abbiamo già visto nella sua grande disinvoltura dinanzi ai re di Babilonia, e soprattutto viene messa in rilievo dal narratore l'inflessibilità del veggente perfino dinanzi alla minaccia della morte. Non v'è dubbio che la fortezza dei martiri sia una fortezza non umana, cioè un dono carismatico che corrobora la capacità umana di volere un bene arduo.Lo stesso può dirsi di Giuditta e di Ester, le quali, chiamate da Dio a una missione di salvezza in favore del popolo di Israele, affrontano delle prove e dei combattimenti del tutto sproporzionati alla loro femminilità. Evidentemente, lo Spirito di Dio ha aggiunto quella dose di coraggio e di inflessibilità che umanamente mancava al loro carattere.Il discorso sul dono della fortezza soprannaturale sarebbe monco se non si giungesse all'insegnamento di Gesù nel NT. Il Maestro dice ai suoi discepoli che essi nel mondo dovranno portare il peso di angustie e persecuzioni per il fatto stesso di essere cristiani; per questo Dio li soccorrerà infallibilmente nel momento della prova. Questo divino soccorso nel tempo della prova è stato identificato dalla teologia spirituale con il "dono della fortezza" di Is 11,2. Rivediamo i termini dell'insegnamento neo testamentario.

    Dopo avere scelto i Dodici e avere comunicato loro l'autorità carismatica di operare guarigioni ed esorcismi, Gesù rivolge loro un lungo insegnamento nel quale dice, tra l'altro, "sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia… E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire… non siete infatti voi a parlare, ma lo è Spirito del Padre vostro che parla in voi" (Mt 10,18-20). Ciò significa che i discepoli, nelle loro prove, non sono sorretti unicamente dalla loro fede soggettiva, o dalla capacità personale di sperare contro ogni speranza; i discepoli sono sorretti nel loro cammino e nei loro combattimenti da un intervento tempestivo e attuale dello Spirito di Dio, che sposta i limiti delle loro forze aldilà delle normali possibilità umane. Con maggiore dovizia di particolari, il vangelo di Giovanni riporta il lungo discorso pronunciato da Gesù nel contesto dell'Ultima Cena, dopo l'uscita di Giuda dal cenacolo. Qui il Maestro promette alla comunità cristiana la venuta del Paraclito, dopo la propria partenza da questo mondo. Lo Spirito di Verità riespone nel cuore dei credenti l'insegnamento di Gesù (cfr. Gv 14,26), diviene forza nuova di testimonianza nel mondo (cfr. Gv 15,26), dove i discepoli sono odiati come è stato odiato Lui (cfr. 15,18). L'opera lucana parla esplicitamente di una forza proveniente dallo Spirito: "avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni" (At 1,8); e prima di ascendere al Padre il Risorto così parla ai discepoli radunati: "Io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto" (Lc 24,49)Quanto questa promessa sia vera è ampiamente dimostrato non solo dal racconto degli Atti degli Apostoli, ma anche dalla storia della Chiesa dei primi tre secoli, secoli di sanguinose persecuzioni. E i pagani si stupivano del modo di morire dei cristiani, sereno e gioioso.

    Fortezza

    La fortezza è l'espressione della fede matura, provata da tutto quello che il maligno può scatenare dentro di noi e intorno a noi per vincere la debolezza umana.
    A sostegno della fortezza Dio ci offre se stesso e la sua parola.
    "Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui."(Gv. 14,23)
    L'impegno perseverante delle virtù morali, porta come frutto il gaudio spirituale.
    La fortezza è dono della bontà di Dio e frutto della redenzione : Maria, la Madre di Dio, è donna forte nei disagi, nei pericoli, nel silenzioso servizio quotidiano nella famiglia, più ancora ai piedi della croce, ed è oggi modello di fortezza per tutti.
    Gesù, l'Emmanuele, "Dio con noi" può trasformare la debolezza dell'uomo in fortezza, la croce nella gloria della resurrezione.

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    MARIOCAPALBO
    00 15/12/2011 08:06
    Scienza e Pieta'

    L'anima che è stata distaccata dal male mediante il timor di Dio, ed aperta ai nobili affetti dal dono della pietà, sente il bisogno di sapere con quali mezzi eviterà ciò che forma l'oggetto della sua paura, e potrà trovare ciò che deve amare. Lo Spirito Santo viene in suo aiuto; e le porta quanto desidera, diffondendo in essa il dono della scienza. Con questo dono prezioso, le appare chiaramente la verità, capisce ciò che Dio domanda e ciò che Dio riprova, ciò che deve cercare e ciò che deve fuggire. Senza la scienza divina, con la nostra vista corta, rischiamo di perderci, a causa delle tenebre che troppo spesso oscurano in tutto od in parte l'intelligenza dell'uomo. Queste tenebre, prima di tutto, provengono dal fondo di noi stessi, che portiamo ancora le tracce troppo reali della nostra decadenza. Esse hanno anche, come causa, i pregiudizi e le massime del mondo, le quali, ogni giorno, falsano spiriti, che pur si credevano fra i più retti. E finalmente l'azione di Satana, il Principe delle tenebre, esercitata in gran parte con lo scopo di circondare la nostra anima di oscurità, o di perderla con l'aiuto di falsi miraggi.
    La fede, che ci è stata infusa nel Battesimo, è la luce dell'anima nostra. Per mezzo del dono della scienza, lo Spirito Santo fa rilucere questa virtù di vividi raggi, atti a dissipare tutte le tenebre. Si schiariscono allora i dubbi, svanisce l'errore, e la verità appare in tutto il suo splendore. Si vede ogni cosa sotto la sua vera luce, che e quella della fede. Si scoprono i deplorevoli errori che si diffondono per il mondo, che seducono un sì gran numero di anime, e dei quali, forse, noi stessi siamo stati a lungo le vittime. Il dono della scienza ci rivela il fine che Dio si è proposto nella creazione, quel fine, all'infuori del quale, gli esseri non saprebbero trovare né il bene, né il riposo. C'insegna l'uso che noi dobbiamo fare delle creature, che ci sono state date, non per essere uno scoglio, ma per aiutarci nel cammino verso Dio. Manifestandoci così il segreto della vita, la nostra strada diventa sicura, non esitiamo più; e ci sentiamo disposti a ritirarci da ogni via che non ci conduce verso tale fine.
    È a questa scienza, dono dello Spirito Santo, che l'Apostolo si rivolge quando, parlando ai cristiani, dice loro: "Un tempo eravate tenebre, ora invece siete luce nel Signore: comportatevi da figli della luce" (Ef 5, 8). Da essa viene quella fermezza, quella sicurezza della condotta cristiana. L'esperienza può mancare qualche volta, e il mondo si meraviglia all'idea dei passi falsi che sono da temere; ma il mondo conta senza il dono della Scienza. "Il Signore conduce il giusto per le vie rette, e per assicurare i suoi passi gli ha dato la Scienza dei Santi" (Sap 10,10).
    Questa lezione ci viene data ogni giorno. Il cristiano, per mezzo della luce soprannaturale sfugge a tutti i pericoli, e, se non ha esperienza propria, ha quella di Dio.

    Sii benedetto, divino Spirito, per questa luce che diffondi su di noi, che ci mantieni con sì amabile perseveranza. Non permettere che ne cerchiamo mai un'altra. Ella sola ci basta; e all'infuori di essa non vi sono che tenebre. Proteggici dalle tristi inconseguenze, alle quali molti si lasciano andare imprudentemente, accettando oggi la tua guida e abbandonandosi l'indomani ai pregiudizi del mondo; camminando così in una doppia via che non soddisfa né il mondo né te. Ci occorre, quindi, l'amore di questa Scienza, che ci hai dato affinché fossimo salvi; questa scienza salutare rende geloso il nemico delle anime nostre, che vorrebbe sostituirsi le sue ombre. Non permettere, divino Spirito, che riesca nel suo perfido disegno, ed aiutaci sempre a discernere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che è giusto da ciò che è ingiusto. Che, secondo la parola di Gesù, il nostro occhio sia semplice, affinché il corpo, ossia l'insieme delle nostre azioni, dei nostri desideri e dei nostri pensieri, resti nella luce (Mt 6, 23); e salvaci da quell'occhio che Gesù chiama cattivo e che rende tenebroso l'intero corpo.

     

    ·         Il dono della scienza

    Quanto al dono della scienza, la precisazione della sua natura va certamente nella linea dei contenuti. Vale a dire: il dono della sapienza si può definire come "una luce che permette di vedere"; essa non consiste quindi in una "quantità" di cose da sapere, bensì in una particolare luce di discernimento che permette alla persona di leggere i fatti e le situazioni della vita, in certo senso, con gli occhi di Dio. Il dono della scienza non è una luce che permette di vedere, ma è l'oggetto stesso della verità di Dio (la Rivelazione). In questo senso il dono della scienza è coordinato a quello della sapienza. Se la scienza è il possesso mentale del progetto di Dio, la sapienza è quella luce intellettuale che permette di vederlo senza deformazioni o fraintendimenti. Sarà opportuno anche qui qualche riferimento scritturistico. Ai Corinzi l'Apostolo Paolo dice di essere un profano nell'eloquenza ma non nella scienza: "Se anche sono un profano nell'arte del parlare, non lo sono però nella dottrina" (2 Cor 11,6); il riferimento va alla dottrina sacra, la scienza di Dio, cioè ai contenuti del piano di salvezza conosciuti dall'Apostolo per rivelazione. Così anche agli Efesini: "Dalla lettura di ciò che ho scritto potete ben capire la mia comprensione del mistero di Cristo" (Ef 3,4).I contenuti della scienza di Dio appartengono solo a Lui e solo Lui li comunica a chi vuole: "Per rivelazione mi è stato fatto conoscere il mistero" (Ef 3,3); "C'è un Dio nel cielo che svela i misteri" (Dn 2,28); "Il Signore, cui appartiene la sacra scienza" (2 Mac 6,30); "s'insegna forse la scienza a Dio?" (Gb 21,22); e ancora: "Gli occhi del Signore proteggono la scienza" (Prv 22,12); "O profondità della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie" (Rm 11,33). L'idea è chiara: la divina rivelazione e le profondità della sua divina verità nessun uomo può raggiungerle con la sola luce della ragione naturale; Qoelet dice addirittura che neppure un saggio potrebbe trovarla (Qo 8,17). Ciò significa che è un dono di Dio non solo la conoscenza della sua verità (dono di scienza) ma perfino la luce intellettuale che permette di vederla (dono di sapienza). Che la scienza sia un dono risulta anche dalla dottrina paolina: "in Lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza" (1 Cor 1,5); e più avanti: "se io conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza… ma non avessi l'amore" (1 Cor 13,2). Qui la scienza è equiparata ai misteri, dunque si tratta di un sapere rivelato, che comunque è del tutto inutile in mancanza dell'amore teologale. La Scrittura afferma inoltre che il dono della scienza è dato da Dio, ed è un dono ben distinto, come abbiamo detto, da quello della scienza: "L'ho riempito dello Spirito di Dio, perché abbia saggezza, intelligenza e scienza" (Es 31,3); è dunque Dio che concede il dono della scienza, che rimane comunque distinto dal dono della sapienza e da quello dell'intelletto, che esamineremo più avanti. Il libro del Siracide afferma che il dono della scienza, ossia la conoscenza rivelata della verità di Dio, è uno di quei doni che l'essere umano ha ricevuto fin dall'origine della creazione: "Il Signore creò l'uomo dalla terra… pose davanti a loro la scienza e diede loro in eredità la legge della vita" (Sir 17,1.9). Si vede dal parallelismo sinonimico che il termine "scienza" corrisponde a "legge della vita", cioè la Torah, ovvero la conoscenza della volontà di Dio e la sua dottrina. Coloro che hanno ricevuto il dono della sapienza apprezzano i contenuti della scienza di Dio, perché, avendo la sapienza, li possono guardare nella luce giusta: "I saggi fanno tesoro della scienza" (Prv 10,14). Essi sono in grado anche di comunicarla nel loro insegnamento: "La lingua dei saggi fa gustare la scienza" (Prv 15,2), "Le labbra dei saggi diffondono la scienza" (Prv 15,7). In conclusione: "Ricchezze salutari sono sapienza e scienza" (Is 33,6).

     

    ·         Scienza

    "Grazie al dono della scienza ci è dato conoscere il vero valore delle creature nel loro rapporto col Creatore.
    Grazie ad essa
    - scrive S.Tommaso - l'uomo non stima le creature più di quello che valgono e non pone in esse, ma in Dio, il fine della propria vita."(Giovanni Paolo II).
    Il dono della scienza insegna a fare ringraziamento e offerta di ogni cosa creata perché ci è stata data per aiutarci nel cammino verso Dio. La scienza suggerisce un ordinato e illuminato distacco dalle creature per entrare in armonia e in profonda comunione con esse e assaporarne tutta la bellezza come riflesso della bellezza di Dio.
    Nel Siracide leggiamo :"...pose lo sguardo nel cuore degli uomini per mostrare loro la grandezza delle sue opere", "I loro occhi contemplarono la grandezza della sua gloria e i loro orecchi sentirono la magnificenza della sua voce".
    Il dono della scienza è sorgente di lode, di canto ed è fonte di libertà interiore che porta alla contemplazione di Dio.

                                                                                                                                                                             

    PIETA'   

    Il Dono del Timor di Dio è destinato a guarire in noi la piaga dell'orgoglio; il dono della Pietà viene diffuso dallo Spirito Santo nelle nostre anime per combattere l'egoismo che è una delle cattive passioni dell'uomo decaduto, ed il secondo ostacolo alla sua unione con Dio. Il cuore del cristiano non deve essere né freddo né indifferente; bisogna che sia tenero e pronto alla dedizione; altrimenti non potrebbe elevarsi nella via nella quale Dio, che è amore, si è degnato di chiamarlo.
    Lo Spirito Santo produce, dunque, nell'uomo il dono della Pietà, ispirandogli una reciprocità filiale verso il suo creatore. "Avete ricevuto lo Spirito d'adozione filiale, per il quale esclamiamo: Abba! o Padre!" (Rm 8, 15). Questa disposizione rende l'anima sensibile a tutto ciò che tocca l'onore di Dio. Fa sì che l'uomo coltivi in se stesso la compunzione dei suoi peccati, vedendo l'infinita bontà di colui che si è degnato di sopportarlo e perdonarlo, e pensando alle sofferenze ed alla morte del Redentore. L'anima iniziata al dono della Pietà desidera costantemente la gloria di Dio; vorrebbe condurre tutti gli uomini ai suoi piedi, e gli oltraggi che egli riceve sono particolarmente dolorosi per essa. La sua gioia è di vedere il progresso delle anime nell'amore, e gli atti di dedizione che esso ispira loro verso Colui che è il sommo bene. Piena di sottomissione filiale verso questo padre universale che è nei Cieli, ella si tiene pronta per fare in tutto la sua volontà, e si rassegna di cuore a tutte le disposizioni della sua provvidenza.
    La sua fede è semplice e viva. Ella resta amorosamente sottomessa alla Chiesa, sempre pronta a rinunciare anche alle sue idee più care, se dovessero scostarsi in qualche cosa dai suoi insegnamenti o dalle sue pratiche, avendo un orrore istintivo della novità e dell'indipendenza.
    Questo sentimento di dedizione a Dio che ispira il dono della Pietà, unendo l'anima al suo Creatore con affetto filiale, la unisce con affetto fraterno a tutte le creature, poiché esse sono l'opera della potenza di Dio e gli appartengono.
    In prima linea, tra le affezioni del Cristiano, animato dal dono della Pietà, si pongono quelle verso le creature glorificate, delle quali Dio gode eternamente e che, a loro volta, godono pure per sempre di Lui. Egli ama teneramente Maria, è geloso del suo onore; venera amorosamente i Santi; ammira con effusione il coraggio dei martiri, e gli atti eroici di virtù compiuti dagli amici di Dio; si diletta dei loro miracoli, e onora devotamente le loro sacre reliquie. Ma la sua affezione non si limita solamente alle creature già coronate nel cielo; quelle che sono ancora sulla terra tengono pure un gran posto nel suo cuore. Il dono della Pietà gli fa trovare in esse lo stesso Gesù. La sua benevolenza verso i fratelli è universale. Il suo cuore è disposto al perdono delle ingiurie, a sopportare le altrui imperfezioni, alla scusa verso i torti del prossimo. Egli è compassionevole verso i poveri, sollecito verso gli infermi. Una affettuosa dolcezza rivela il fondo del suo cuore; e nei rapporti con i suoi fratelli della terra lo si vede sempre disposto a piangere con quelli che piangono, a rallegrarsi con quelli che sono nella gioia.
    Tali sono, o divino Spirito, le disposizioni di coloro che coltivano il dono della Pietà, che hai riversato nelle anime loro. Per mezzo di questo ineffabile favore, neutralizza quel triste egoismo che sciuperebbe il loro cuore, li liberi da quell'odiosa aridità che rende l'uomo indifferente verso i suoi fratelli, e chiudi la sua anima all'invidia e all'odio. Per tutto ciò non è stata necessaria che questa pietà filiale verso il creatore; essa ha intenerito il suo cuore, ed il cuore si è impregnato di una viva affezione per tutto ciò che è uscito dalle mani di Dio. Fa' fruttificare in noi un sì prezioso dono; non permette che esso venga soffocato con l'amore di noi stessi. Gesù ci incoraggia dicendoci che il Padre celeste "fa sorgere il suo sole sopra cattivi e buoni" (Mt 5, 45). Non permettere, o divino Paraclito, che una tale paterna indulgenza sia un esempio perduto per noi, e degnati di sviluppare nelle anime nostre questo seme di dedizione, di benevolenza e di compassione che vi hai posto nello stesso momento in cui ne prendevi possesso per mezzo del Santo Battesimo.

     

    ·         Il dono della pietà

    Anche il dono della pietà tocca la sfera emozionale volitiva, creando delle disposizioni abituali che qualificano il rapporto del cristiano con Dio. Innanzitutto va chiarito il termine: il dono della pietà non riguarda il rapporto col prossimo, perciò con questo termine non ci si riferisce alla disposizione d'animo di chi ha compassione del prossimo o è misericordioso verso chi lo offende; col termine "pietà" qui si intende descrivere la cosiddetta virtù di religione, ossia la disposizione di filiale ubbidienza, sentita dal cristiano come una esigenza interiore, insieme al dovere di sottomettersi alla volontà di Dio non per paura ma per amore. Il dono della pietà qualifica, appunto, il rapporto con Dio. Di riflesso, però, esso qualifica anche il rapporto con tutto ciò che sulla terra ha valore di "segno" della divina Presenza. Così, se da un lato il dono della pietà dispone il cristiano a sentirsi figlio di Dio, con tutto ciò che ne consegue sul piano delle decisioni e dei sentimenti, dall'altro lato lo dispone anche a un atteggiamento di delicatezza e di rispetto verso tutto ciò che Dio ha istituito nella Chiesa e nel mondo come un riflesso della propria universale Paternità. Sarà opportuno cercare qualche riscontro biblico.L'atteggiamento della pietà religiosa è tenuto in grande considerazione nella tradizione veterotestamentaria. Esso si iscrive in un preciso orientamento della volontà di Dio: "Uomo, ti è stato insegnato ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio" (Mi 6,8). La pietà corrisponde dunque a una delle aspettative di Dio, insieme alla giustizia e alla disponibilità a lasciarsi guidare da Dio nella vita, senza ostinarsi a perseguire i propri progetti personali e le proprie personali mete.Gli atteggiamento concreti della pietà si collegano a quella che comunemente viene definita "virtù di religione", vale a dire l'insieme di disposizioni necessarie per rapportarsi a Dio. Tra i personaggi biblici dell'AT che incarnano l'ideale della pietà possiamo ricordare soprattutto Giobbe e Tobi. Giobbe rimane convinto che Dio governa il mondo con perfetta sapienza, anche quando lo affligge misteriosamente: "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto" (Gb 1,21); in sostanza, l'uomo che è illuminato dal dono della pietà religiosa sente con chiarezza che il proprietario di tutto è Dio, proprietario anche dei beni personali, che ciascun uomo ritiene di possedere a buon diritto, avendoli acquistati col proprio lavoro; ma Dio è proprietario anche delle vite umane create da Lui, e si riserva una libertà assoluta di decretare i tempi delle nascite e delle morti. Dio è il proprietario di ogni vita, anche di quella che una madre partorisce dolorosamente e che, essendo carne della sua carne, considera come qualcosa di "proprio". Anche su questa vita concepita e partorita, e su questo rapporto materno, Dio ha il primato e il diritto assoluto di proprietà: "Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani" (Is 49,15-16); "Dice il Signore Dio… Ecco, tutte le vite sono mie: la vita del padre e quella del figlio è mia" (Ez 18,4). Il NT attribuisce al Cristo risorto questo potere assoluto sui viventi: "E Gesù, avvicinatosi, disse loro: Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra" (Mt 28,18). Nell'AT anche Tobi è una figura che incarna l'ideale della pietà religiosa (cfr. Tb 1). Pur vivendo in terra straniera non perde l'antica fede e continua a vivere da israelita fedele; però, nella vita non tutto gli va bene: come accade a Giobbe, viene colpito anche lui da una malattia. Sua moglie assume allora un atteggiamento simile a quello della moglie di Giobbe, che si può sintetizzare nella frase, "Che ci hai guadagnato a essere un uomo religioso?" (cfr. Tb 2,14 e Gb 2,9). Tobi non le risponde e si raccoglie nella preghiera, riaffermando la propria sottomissione ai decreti di Dio: "Tu sei giusto, Signore, e giuste sono le tue opere… Tu sei il giudice del mondo" (Tb 3,2). L'uomo illuminato dal dono della pietà ha dunque un senso acuto della sua piccolezza di creatura davanti a Dio, che invece è padrone e giudice del mondo. Per questo si astiene dal giudicare i decreti di Dio, il suo operato e il suo modo di guidare la vita delle società come pure dei singoli esseri umani. Il Signore però risponderà alla fedeltà di Tobi con la sua solita misura traboccante: gli restituirà la salute, proteggerà suo figlio Tobia in un difficile viaggio, e libererà la fidanzata di Tobia da un maleficio che le impediva il matrimonio. L'epilogo della storia dà quindi torto alla moglie di Tobi, come anche la moglie di Giobbe viene smentita dai fatti, ma in entrambi i casi, però, la risposta di Dio arriva parecchio tempo dopo. Il giusto non è mai abbandonato al potere del male, ma è soccorso da Dio in tempi e modi che non sempre coincidono con le aspettative della logica umana. In questo senso il libro della Sapienza dice che "la pietà è più potente di tutto" (Sap 10,12): al legame religioso, che unisce l'uomo a Dio, corrisponde, da parte di Dio, una benedizione più potente di qualunque male. Una benedizione divina che comunque deve essere intesa non come uno scudo che preserva, ma come una corazza che ci permette di combattere senza che i colpi del nemico possano ucciderci. Il combattimento è infatti inevitabile. Il NT riafferma questo concetto: "La pietà è utile a tutto" (1 Tm 4,8). Essa è una caratteristica inalienabile nella personalità dell'uomo di Dio (1 Tm 6,11). Nello stesso tempo, per realizzare un rapporto pieno e integrale con Dio, "la sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la pietà" (2 Pt 1,3); qui l'Apostolo si riferisce ovviamente in modo esplicito al dono dello Spirito che viene a perfezionare la virtù di religione: il dono della pietà. Il prototipo di questo atteggiamento che definiamo "dono della pietà" è Gesù stesso nel suo modo di rapportarsi a Dio nei giorni della sua vita terrena. La nota più importante che caratterizza la pietà del Gesù storico è tutta racchiusa nel termine aramaico "Abbà", ricorrente nella sua preghiera personale. Si tratta di una parola tratta dal linguaggio dell'infanzia, che esprime l'intimità dell'ambiente domestico. In questo modo il Maestro costruisce il modello di riferimento del rapporto religioso tra i discepoli e Dio, un rapporto fatto di confidenza e di intimità come quello dei bambini verso i loro genitori, tra le mura domestiche. "Quando pregate, dite Abbà…" (Lc 11,2). Il senso della pietà cristiana è tutto qui. Il dono della pietà genera in noi gli stessi sentimenti di Cristo verso il Padre.

    ·         La Pieta’

    La pietà, come dono dello Spirito Santo, ci rende capaci di rispondere all'amore misericordioso di Dio con un attaccamento filiale fatto di vigilanza e tenerezza, che si traduce in un'obbedienza pronta e gioiosa verso Dio e un'attenta misericordia verso il prossimo. (A.Doneda)
    La consapevolezza dell'amore di Dio permette all'anima di volgere lo sguardo a Lui. Ci sentiamo figli protetti, custoditi in mani sicure, perché sappiamo che il suo perdono è amore, non giustizia.
    Consapevole della propria povertà, la creatura si abbandona al suo Creatore per riceverne consolazione.
    Dio ama e attende da ciascuno una risposta al suo amore.
    Negli avvenimenti di ogni giorno e nelle prove più difficili, questo dono ci fa essere pronti ad ogni sacrificio, per amore di un Padre così tenero che in tutti gli eventi opera solo per il bene dei suoi figli. E' il dono della pietà che trasforma il nostro cuore e vi infonde gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù.
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    MARIOCAPALBO
    00 15/12/2011 08:07
    Timor di Dio

    L'orgoglio per noi è l'ostacolo al bene. È l'orgoglio che ci porta a resistere a Dio, a mettere il nostro fine in noi stessi; in una parola, a perderci. Solo l'umiltà può salvarci da un sì grande pericolo. Chi ce la darà? Lo Spirito Santo, infondendo in noi il dono del Timor di Dio.
    Questo sentimento riposa sull'idea che la fede ci dà della maestà di Dio, in presenza del quale non siamo che un nulla; della sua Santità infinita, davanti alla quale non siamo che indegnità e sozzura; del giudizio sovranamente equo che dovrà esercitare su noi all'uscire da questa vita; e dei pericolo di una caduta, sempre possibile, se non corrispondiamo alla grazia che non ci manca mai, ma alla quale possiamo resistere.
    La salvezza dell'uomo si opera, dunque, "con timore e tremore", come c'insegna l'Apostolo (Filip 2, 12); ma questo timore, che è un dono dello Spirito Santo, non è un sentimento rudimentale che si limita a gettarci nello spavento al pensiero dei castighi eterni. Esso ci mantiene nella compunzione del cuore, anche quando i nostri peccati fossero da molto tempo perdonati; c'impedisce di dimenticare che siamo peccatori, che dobbiamo tutto alla misericordia divina, e che non siamo ancora salvi che in speranza (Rm 8, 24)
    Questo timor di Dio non è dunque un timore servile, ma diviene, al contrario, la fonte dei sentimenti più delicati: può allearsi con l'amore, non essendo più che un sentimento filiale che teme il peccato a causa dell'oltraggio che reca a Dio. Ispirato dal rispetto della maestà divina, dal sentimento della sua santità infinita, colloca la creatura nel vero suo posto, e S. Paolo c'insegna che, purificandosi così, ci aiuta, "compiendo l'opera della nostra santificazione" (2 Cor 9, 27). È per questo che il grande Apostolo, che era stato rapito fino al terzo Cielo, ci confessa che è rigoroso verso se stesso "al fine di non essere condannato" (1 Cor 9, 27)
    Lo Spirito di indipendenza e di falsa libertà che regna oggi, contribuisce a rendere più raro il timor di Dio, ed è questa una delle piaghe del nostro tempo. La familiarità con Dio tiene troppo spesso il posto di questa disposizione fondamentale della vita cristiana, ed è allora che ogni progresso si arresta, l'illusione si introduce nell'anima, ed i sacramenti, che nel momento del ritorno a Dio avevano operato con tanta forza, divengono presso a poco sterili. E ciò accade perché il dono del timore è stato soffocato sotto la vana compiacenza dell'anima in se stessa. L'umiltà si è spenta; un orgoglio, segreto e universale, è venuto a paralizzare i movimenti di quell'anima che arriva, senza accorgersene, a non conoscere più Iddio, per il fatto stesso che non trema più davanti a Lui.
    Conservaci, dunque, o divino Spirito, il dono del timor di Dio, che hai diffuso in noi nel nostro Battesimo. Questo timore salutare ci assicurerà la perseveranza nel bene, arrestando il progresso dello spirito d'orgoglio. Che esso sia, dunque, come un dardo che attraversi la nostra anima da parte a parte, restandovi fissato sempre a nostra salvaguardia. Che esso abbassi la nostra alterigia, che ci strappi alla mollezza, rivelandoci, senza tregua, lo splendore e la santità di Colui che ci ha creati e che ci deve giudicare.

    Sappiamo, o divino Spirito, che questo beato timore non soffoca l'amore; ma, ben lungi da ciò, toglie, invece, gli ostacoli che impedirebbero il suo sviluppo. Le potenze celesti vedono ed amano ardentemente il Sommo Bene, e se ne sono inebriate per l'eternità; e, nondimeno, tremano di fronte a quella temibile maestà, "tremunt Potestates". E noi, ricoperti dalle cicatrici del peccato, pieni d'imperfezione, esposti a mille insidie, obbligati a lottare. contro tanti nemici, non sentiremo, forse, che dobbiamo stimolare con un forte timore filiale, nello stesso tempo, la nostra volontà che si addormenta così facilmente, e il nostro spirito assediato da tante tenebre! Veglia sulla tua opera, o divino Spirito! Preserva in noi il dono prezioso che ti sei degnato di farci; insegnaci a conciliare la pace e la gioia del cuore con il timor di Dio, secondo questo avvertimento del Salmista: "Servite a Dio con timore e rendetegli omaggio con tremore" (Sal 2, 11)

    ·         CONCLUSIONE

    La serie dei misteri è ormai completa, ed il Calendario mobile della Liturgia è giunto al suo termine. Prima di tutto abbiamo attraversato, durante il Tempo dell'Avvento, le quattro settimane che rappresentavano le migliaia di anni impiegati dal genere umano ad implorare il Padre perché inviasse il suo Figliolo. E finalmente, disceso l'Emmanuele, noi ci associammo, di volta in volta, alle gioie della sua Nascita, ai dolori della sua Passione, alla gloria della sua Risurrezione, al trionfo della sua Ascensione. Abbiamo visto ora, discendere sopra di noi lo Spirito divino, e sappiamo che, con noi, resterà sino alla fine. La Santa Chiesa ci ha assistito durante tutto il corso di questo immenso dramma che racchiude la nostra salvezza. I suoi cantici e le sue cerimonie ci hanno ogni giorno illuminati; ed è così che abbiamo potuto tutto seguire e tutto comprendere. Benedetta sia questa Madre, per le cure della quale siamo stati iniziati a tante meraviglie che hanno aperto il nostro spirito e riscaldato i nostri cuori! Benedetta sia la sacra Liturgia, sorgente di tante consolazioni ed incoraggiamenti! Adesso non ci rimane che di colmare il corso datoci dal Calendario nella sua parte immobile. Prepariamoci, dunque, a riprendere il cammino, contando sullo Spirito Santo che dirigerà i nostri passi, e che continuerà a largirci, per mezzo della sacra Liturgia di cui è l'ispiratore, i tesori della dottrina e dell'esempio.

    ·         Il dono del timore di Dio

    Il dono del timore di Dio è strettamente connesso a quello della pietà. Infatti, questo timore di cui parliamo non è il timore dello schiavo, bensì il timore del figlio, preoccupato di non addolorare il padre con la propria disubbidienza. E' proprio questo che Giovanni intende, dicendo: "Nell'amore non c'è timore" (1 Gv 4,18): il timore di Dio scaturisce dall'amore, e per questo è un timore filiale, mentre è assente il timore dello schiavo, che non può convivere con l'amore. L'amore purifica il timore. Nell'amore non c'è il timore, ossia il timore umiliante dell'estraneo verso un potente, ma c'è certamente il timore confidente del figlio che, come tale, impone a se stesso dei limiti, nella consapevolezza di essere infinitamente amato dal Padre, ma senza mai innalzarsi sul suo stesso piano. Vediamo quali sono i riscontri biblici di questo insegnamento. Dobbiamo per prima cosa riconoscere che l'idea del timore di Dio ha subito una notevole evoluzione nel corso dello sviluppo della divina rivelazione. Il primo concetto di timore di Dio che si incontra nella Scrittura è quello rappresentato dalla fuga di Adamo dopo il peccato originale: Dio lo chiama e lui si nasconde (cfr. Gen 3,8-10). Questa forma di timore di Dio è negativa sotto tutti gli aspetti; si tratta di una conseguenza psicologica del senso di colpevolezza. All'uomo in quanto tale, tutto ciò che appartiene al mondo divino della trascendenza fa paura. Il filosofo greco Epicuro elabora un'etica partendo dal presupposto che gli uomini hanno paura degli dèi, e si propone una filosofia di liberazione. Per l'uomo non ancora illuminato dallo Spirito di Cristo, tutte le realtà invisibili, quando non le nega in nome del materialismo, gli sono in certo senso estranee, e tra esse anche Dio, percepito come il lontano ordinatore del cosmo o come il capriccioso arbitro dei destini umani. Il dono del timore viene perciò a risanare una disposizione volitiva emozionale comune a tutti gli uomini, infondendo nell'animo quella confidenza rispettosa che non ci fa sentire estranei al mondo di Dio, ma che al tempo stesso ci mantiene nella nostra realtà di creature. Il difficile equilibrio tra figliolanza e creaturalità è dato dal dono del timore.La ferita del peccato originale ha dunque creato una frattura nei rapporto tra l'uomo e Dio, creando nella sensibilità religiosa degli uomini un senso di timorosa estraneità. Nell'AT questa forma negativa del timore di Dio è comune a tutti i personaggi che sono chiamati a particolari ruoli nel disegno di Dio. Possiamo ricordare Abramo: nella notte in cui Dio stipula con lui l'Alleanza, egli viene assalito da un oscuro terrore (cfr. Gen 15,12). E' la percezione della vicinanza di Dio ciò che lo terrorizza. Giacobbe, quando si sveglia dopo il sogno della scala su cui salivano e scendevano gli angeli, "ebbe timore e disse: Quanto è terribile questo luogo" (Gen 28,17). In Esodo 3 Mosè è descritto nell'atto di velarsi il volto, perché aveva paura di guardare verso Dio (cfr. v. 6). Un atteggiamento simile si riscontra anche nel grande profeta Elia, che, sul monte Oreb, si vela il volto col mantello al passaggio del Signore (cfr. 1 Re 19,13). Isaia vede il Signore nel Tempio e si sente impuro: "Ohimè! Io sono perduto" (Is 6,5), Ezechiele rimane stordito per una settimana (cfr. Ez 3,15) e Daniele cade con la faccia a terra (cfr. Dn 8,17-18). Ecco le reazioni dei santi dell'AT dinanzi alla rivelazione del mistero di Dio.Alle soglie della Nuova Alleanza sembra che questo atteggiamento di timore del divino continui a sussistere. Ad esempio, quando Zaccaria vede l'angelo Gabriele ritto alla destra dell'altare, "si turbò e fu preso da timore" (Lc 1,12). Lo stesso angelo porta l'annuncio a Maria, ma non ci sembra che la Vergine abbia provato lo stesso tipo di paura. Lei, nella sua Immacolata Concezione, non poteva provare lo stesso genere di paura: è detto infatti che non l'apparizione celeste, ma il contenuto delle parole dell'angelo provoca in Lei un certo turbamento: "A queste parole Ella rimase turbata…" (Lc 1,29). Queste parole svelavano infatti un grande e incomprensibile privilegio di cui Maria non sapeva di essere stata destinataria. Il timore di Dio comincia ad assumere le sue giuste proporzioni quando dal timore scaturisce la lode, e ciò avviene solo dove Cristo compie i suoi gesti di liberazione: il racconto dell'episodio in cui Gesù risuscita il figlio della vedova di Nain, si conclude dicendo che "tutti furono presi da timore e glorificavano Dio" (Lc 7,16). Il termine di passaggio dal timore servile veterotestamentario al timore filiale del discepolato è lo squarcio del velo del Tempio, che ha luogo in concomitanza con il terremoto che accompagna la morte di Gesù (cfr. Mt 27,51). Il velo separava infatti il "santo dei santi", luogo sacro dove nessuno poteva entrare, se non il sommo sacerdote una volta all'anno. Squarciato questo velo, il luogo sacro dove abita Dio non è più inaccessibile: la morte di Cristo inaugura un'epoca nuova e noi siamo accolti presso Dio come figli a cui è promessa l'eredità (cfr. Rm 8,16-17). La riflessione più ampia sul timore di Dio si trova nei libri sapienziali, a cui è opportuno dedicare una riflessione accurata. Innanzitutto, nell'insegnamento sapienziale, il timore di Dio, come atteggiamento religioso, non ha nulla a che vedere con la paura istintiva che si è soliti provare dinanzi a tutto ciò che può spaventarci. Tant'è vero che il timore di Dio si apprende: "Venite, figli, ascoltatemi e vi insegnerò il timore del Signore" (Sal 34,12). Si viene dunque educati al timore religioso, e ciò presuppone un cammino di iniziazione e di conoscenza del mistero di Dio. Non a caso il timore di Dio nasce dall'ascolto. E ancora: "Figlio mio, se tu accoglierai le mie parole… allora comprenderai il timore del Signore" (Prv 2,1.5). Del re Ozia si racconta che "ricercò Dio finché visse Zaccaria, che l'aveva istruito nel timore del Signore" (2 Cr 26,5). Senza un'adeguata istruzione il timore di Dio non si comprende. Nel medesimo tempo, mentre l'uomo è istruito nei misteri di Dio, gli viene comunicato come dono l'autentico timore, che è una disposizione liberatoria: "non mi allontanerò più da loro per beneficarli; metterò nei loro cuori il mio timore, perché non si distacchino da me" (Ger 32,40). Inoltre, la mancanza di timore religioso è la caratteristica principale dell'empio: "Nel cuore dell'empio parla il peccato, davanti ai suoi occhi non c'è timor di Dio" (Sal 36,2). Al timore di Dio si è dunque educati mediante l'insegnamento sapienziale, ma questo atteggiamento religioso può prendere consistenza solo nel contesto di una vita retta e innocente. L'empio infatti può conoscerne la nozione, ma non lo può vivere, perché nel suo cuore parla il peccato. Il timore del Signore, lungi dall'essere una condizione di infelicità o di mancanza di serena disinvoltura, è al contrario una fonte di energia positiva per l'uomo retto: "Tu avrai una grande ricchezza se avrai il timore di Dio, se rifuggirai da ogni peccato e farai ciò che piace al Signore tuo Dio" (Tb 4,21); l'uomo che è rivestito di fortezza non confida nella medesima fortezza che ha ricevuto, ma nel timore di Dio: "Nel timore del Signore è la fiducia del forte" (Prv 14,26). Anzi, perfino la salute, la longevità e il prolungarsi dei propri giorni hanno causa e origine nel timore di Dio: "Il timore del Signore prolunga i giorni, ma gli anni dei malvagi sono accorciati" (Prv 10,27). Infatti: "con il timore del Signore si evita il male" (Prv 16,6). Per il libro del Siracide, il timore di Dio non solo non è un atteggiamento umiliante ma è addirittura "gloria e vanto, gioia e corona di esultanza… dà contentezza, gioia e lunga vita" (Sir 1,9-10). Prima di giungere alla sapienza occorre passare per il dono del timore, perché "principio della sapienza è temere il Signore" (Sir 1,12), "il timore di Dio è una scuola di sapienza" (Prv 15,33). Il discepolo trova rifugio nel timore del Signore quando arriva il momento della sua morte: "Per chi teme il Signore andrà bene alla fine, sarà benedetto nel giorno della sua morte" (Sir 1,11), "Vanto dei vecchi è il timore del Signore" (Sir 25,6). Che il timore servile non abbia niente a che vedere col dono del timor di Dio è riaffermato dal Siracide in questi termini: "Quanti temete il Signore, aspettate la sua misericordia; voi che temete il Signore confidate in Lui; voi che temete il Signore, sperate i suoi benefici" (Sir 2,7-9). In sostanza, il dono del timore di Dio si specifica in tre atteggiamenti particolari: l'attesa della misericordia, la confidenza in Dio e la speranza di essere da Lui beneficati. Esattamente il contrario di qualunque timore servile e oppressivo. Ma a questi atteggiamenti se ne aggiungono altri, descritti più avanti, per completare il quadro: "Coloro che temono il Signore, non disobbediscono alle sue parole, cercano di piacergli, tengono pronti i loro cuori, umiliano l'anima loro davanti a Lui" (Sir 2,15-17). In fondo, insieme ai tre precedenti, non sono altro che questi gli atteggiamenti tipici del discepolato: la venerazione della Parola e la sottomissione gioiosa al suo insegnamento; l'indifferenza per il giudizio umano, allo scopo di essere graditi e lodati solo da Dio; la prontezza e l'attenzione vigile ai segnali che Dio dissemina nella nostra vita quotidiana; l'umiltà della creatura che non presume nulla dinanzi al suo Creatore, e che, anzi, tutto attende da Lui.

    ·         TIMORE di DIO

    "Venite, figli, ascoltatemi; vi insegnerò il timore del Signore"(Sal. 34,12)
    Mentre l'amore ci fa accelerate il passo, il timore ci induce a guardare dove posiamo il passo per non cadere.
    Il timore servile induce a fuggire il peccato per evitare le pene eterne dell'inferno: è un timore buono, che per molti uomini lontani da Dio rappresenta il primo passo verso la conversione e l'inizio dell'amore, è una grande difesa contro le tentazioni e le attrattive del male.
    Il cristiano è mosso dall'amore divino ed è chiamato ad amare: quando l'amore elimina ogni timore, questo si trasforma tutto in amore.
    Il cristiano dunque deve coltivare il santo timore di Dio, per avere una percezione forte del senso del peccato, per non avere paura " di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l'anima" ma avere santo timore di "Colui che può far perire e l'anima e il corpo...".
    Il dono del timore è per eccellenza il dono della lotta contro il peccato.

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    MARIOCAPALBO
    00 15/12/2011 08:08
          Maria nel Cenacolo

    Ma non dimentichiamo in questo grande giorno, in questo primo sacrificio offerto da Pietro, assistito dai suoi colleghi di Apostolato, la partecipazione di Maria a quella carne sacrosanta, di cui il suo seno Verginale fu la sorgente. Infiammata dal fuoco dello Spirito Santo, che è venuto in Lei a confermare quella maternità verso gli uomini che Gesù le affidò quand'era sulla croce, ella si unisce nel mistero d'amore a questo amatissimo Figliolo, che se n'è andato in Cielo, e che l'ha incaricata di vegliare sulla Chiesa nascente. D'ora in avanti il Pane di Vita le renderà ogni giorno suo Figlio, finché, ella stessa sarà innalzata, a sua volta, in Cielo per godere eternamente della presenza di Lui, riceverne le carezze e prodigargli le sue.
    Quale non fu la felicità dei Neofiti, ai quali fu concesso di avvicinarsi ad una sì augusta regina, alla Vergine-Madre, alla quale era stato dato di portare nel casto suo seno Colui che era la speranza d'Israele! Essi contemplarono le sembianze della nuova Eva, udirono la sua voce, provarono il sentimento filiale che ella ispira a tutti i Discepoli di Gesù. In un'altra epoca, la Liturgia ci parlerà di questi uomini fortunati; adesso non facciamo che ricordare la loro felicità, per dimostrare quanto grande e completa fu questa giornata che vide l'inizio della Santa Chiesa. La sacra Gerarchia apparve nella persona di Pietro, Vicario di Cristo, negli Apostoli suoi fratelli, nei Discepoli scelti dallo stesso Gesù. La semenza della Parola divina fu gettata nella buona terra, l'acqua battesimale rigenerò la parte più eletta dei figli d'Israele, lo Spirito Santo venne loro comunicato nella sua forza, il Verbo li nutrì della sua carne che è un vero nutrimento, e del suo sangue che è una vera bevanda (Gv 6, 56), e Maria, nel momento della loro nuova nascita, li ricevette tra le sue braccia materne.