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15. 52. Bisognava dare un ammaestramento anche per il vestito, come è stato dato per il cibo. Quindi continua: Osservate come crescono i gigli del campo; non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, nonostante tutto il suo fasto, era vestito come uno di essi. Ora se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani è gettata nel forno, quanto meglio vestirà voi, uomini di poca fede 138. Ma questi ammaestramenti non si devono esaminare come allegoria sì da farci investigare cosa simboleggino gli uccelli del cielo e i gigli del campo, perché sono allegati soltanto affinché da realtà di minor valore siano evidenziate quelle di maggior valore. È il caso del giudice, che non temeva Dio e non rispettava l’uomo, e tuttavia si piegò alla vedova che lo supplicava, per esaminare la sua interpellanza, non per compassione o senso di umanità, ma per non subire fastidio 139. Infatti in nessun modo quel giudice ingiusto rappresenta un attributo di Dio, ma il Signore ha voluto che se ne deducesse in che modo Dio, che è buono e giusto, tratta con amore coloro che lo pregano, poiché anche un uomo ingiusto, sia pure per evitare il fastidio, non può trattare con indifferenza coloro che lo infastidiscono con continue suppliche.

Il vero bene è l’unico fine.

16. 53. Dunque, continua, non affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste sa infatti che ne avete bisogno. Cercate prima il regno e la giustizia di Dio e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta 140. Con queste parole ha fatto capire con molta evidenza che queste cose, pur necessarie, non si devono desiderare come beni di tal valore che, nel compiere qualche azione, dobbiamo considerarli come fine. Che differenza vi sia fra un bene, che si deve considerare come fine, e una cosa necessaria che si deve usare lo ha dichiarato con questa massima, quando ha detto: Cercate prima il regno e la giustizia di Dio e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Dunque il regno e la giustizia di Dio sono il nostro bene ed esso si deve considerare e assegnare come fine, per il quale fare tutto quel che facciamo. Ma poiché in questa vita siamo come soldati in viaggio per poter giungere a quel regno, una vita simile non si può tirare avanti senza le cose necessarie. Vi saranno date in aggiunta, dice, ma voi cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia. Poiché ha detto prima, ha fatto capire che il necessario si deve cercare dopo non nel tempo ma nel valore, quello come nostro bene, questo come cosa a noi necessaria, ma necessaria per quel bene.

Retta intenzione in Paolo.

16. 54. Ad esempio, non dobbiamo evangelizzare per mangiare, ma mangiare per evangelizzare. Infatti se evangelizziamo per mangiare, stimiamo più spregevole il Vangelo che il cibo e il nostro bene sarà ormai nel mangiare e la cosa necessaria nell’evangelizzare. E questo lo proibisce anche l’Apostolo, quando dice che gli era lecito e permesso dal Signore che coloro i quali annunziano il Vangelo vivano del Vangelo, ossia abbiano dal Vangelo le cose che sono necessarie alla vita, ma che egli non ha usufruito di questa concessione 141. V’erano molti infatti che desideravano avere il pretesto di acquistare e vendere il Vangelo; e l’Apostolo, volendo loro impedirlo, si guadagnava a stento il proprio vitto con le proprie mani 142. Di loro dice infatti in un altro passo: Per troncare il pretesto a quelli che cercano il pretesto 143. Anche se come gli altri buoni apostoli egli col permesso del Signore avesse avuto il vitto dal Vangelo, non avrebbe stabilito il fine della predicazione del Vangelo nel vitto, piuttosto avrebbe assegnato al Vangelo il fine del proprio vitto, ossia, come ha detto prima, non avrebbe predicato il Vangelo per avere il vitto e le altre cose necessarie, ma avrebbe usato gli utili disponibili per compiere il dovere di predicare il Vangelo non per libera scelta ma per necessità. Ma egli lo disapprovava con le parole: Non sapete che coloro, i quali esercitano funzioni nel tempio, traggono il vitto dal tempio e coloro che prestano servizio all’altare hanno in comune qualcosa dell’altare? Così il Signore ha disposto che coloro che annunziano il Vangelo vivano del Vangelo. Ma io non mi sono avvalso di nessuno di questi diritti 144. Con queste parole dimostra che è una concessione, non un ordine, altrimenti sembrerà che ha agito contro il comando del Signore. Poi continua e dice: Non ho scritto queste cose affinché avvengano così in me. Per me è meglio che io muoia anziché si renda infondato questo mio vanto 145. Lo ha detto, perché aveva stabilito di guadagnarsi il vitto con le proprie mani per alcuni che in lui cercavano un pretesto 146. Infatti, prosegue, non è per me un vanto predicare il Vangelo 147, cioè: Se predicherò il Vangelo affinché avvengano in me queste cose; ossia: Se predicherò il Vangelo appunto per conseguire tali proventi e disporrò il fine del Vangelo nel mangiare, bere e vestire. Ma perché non è per lui un vanto? È infatti, soggiunge, la soggezione al bisogno che mi asservisce, cioè predicare il Vangelo perché non ho da vivere, ovvero per conseguire un vantaggio nel tempo dalla predicazione di verità eterne. In tal modo nella evangelizzazione vi sarà un’imposizione, non un libera scelta. Quindi soggiunge: Guai a me se non predicassi il Vangelo 148. Ma come deve predicare il Vangelo? Nel riporre la ricompensa nel Vangelo stesso e nel regno di Dio. Così può predicare il Vangelo non per costrizione, ma per libera scelta. Se lo faccio per libera scelta, dice, ho diritto alla ricompensa, se invece lo faccio per imposizione, è un’amministrazione che mi è stata affidata 149, ossia: Se predico il Vangelo perché sono costretto dalla mancanza delle cose che sono necessarie alla vita fisica, altri per mio mezzo avranno la ricompensa del Vangelo, perché mediante la mia predicazione ameranno il Vangelo, io invece non l’avrò, perché non amo il Vangelo per sé, ma il compenso assegnato alle attività nel tempo. Ora è un oltraggio che uno tratti il Vangelo non come un figlio, ma come uno schiavo, a cui è stata affidata la gestione economica, come se egli distribuisse la roba d’altri e non abbia altro che i viveri che si danno al di fuori agli estranei, non come partecipazione al regno, ma come sostentamento di una miserabile schiavitù. Eppure in un altro passo l’Apostolo si considera amministratore 150. Infatti anche lo schiavo, adottato nel numero dei figli, può fedelmente amministrare per i suoi compartecipi la sostanza, in cui ha avuto la condizione di coerede. Ma quando dice: Se invece lo faccio per imposizione, è un’amministrazione che mi è stato affidata 151, volle che s’intendesse un amministratore che distribuisce l’altrui, da cui egli non ha nulla.

Rapporto fra fine e mezzo.

16. 55. Dunque qualunque cosa si cerca in relazione a un’altra è senza dubbio inferiore a quella per cui si cerca. Quindi viene prima quella per cui cerchi l’altra, e non quella che cerchi per l’altra. Perciò se cerchiamo il Vangelo e il regno di Dio per il cibo, riteniamo che venga prima il cibo e poi il regno di Dio, sicché, se il cibo non manca, non cerchiamo il regno di Dio. Dunque cercare prima il cibo e poi il regno di Dio significa porre quello al primo posto, questo al secondo. Se invece cerchiamo il cibo per avere il regno di Dio, osserviamo la massima: Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta 152.

Primalità del regno di Dio...

17. 56. Se cerchiamo prima il regno e la giustizia di Dio, cioè se li anteponiamo alle altre cose, in modo che per essi le cerchiamo, non deve subentrare l’ansietà che ci manchino le cose che sono necessarie alla vita in relazione al regno di Dio. Il Signore ha detto precedentemente: Sa il Padre vostro che avete bisogno di tutte queste cose. E quindi dopo aver detto: Cercate prima il regno e la giustizia di Dio non ha soggiunto di cercare poi queste, sebbene siano necessarie, ma: Tutte queste cose vi saranno date in aggiunta 153, ossia: Se cercate le cose di Dio, le altre verranno di seguito senza difficoltà da parte vostra, affinché, mentre cercate le cose della terra, non siate distolti dalle altre o affinché non stabiliate di conseguire due fini, sicché desideriate per sé il regno di Dio e le cose necessarie, ma piuttosto queste per l’altro. Così non vi mancheranno perché non potete servire a due padroni 154. Si impegna a servire due padroni chi desidera il regno di Dio e le cose del tempo come un grande bene. Non potrà avere uno sguardo sereno e servire soltanto a Dio Signore, se non valuta tutte le altre cose, se sono necessarie, soltanto in relazione a questo, cioè al regno di Dio. Come tutti i soldati ricevono le vettovaglie e la paga, così gli annunziatori del Vangelo ricevono il vitto e il vestito. Però non tutti fanno i soldati per la prosperità dello Stato, ma per gli utili che ricevono, così non tutti sono al servizio di Dio per la prosperità della Chiesa, ma per questi utili nel tempo, che ricevono come vettovaglie e paga, ovvero per l’uno e per l’altro. Ma già è stato detto: Non potete servire a due padroni. Quindi dobbiamo con cuore sincero fare del bene per tutti in vista del regno di Dio e nel compiere l’opera buona non attendere la ricompensa degli utili nel tempo o sola o assieme al regno di Dio. E a significare tutte le cose nel tempo ha indicato il domani, dicendo: Non affannatevi per il domani 155. Difatti non si può indicare il domani se non nel tempo, in cui al passato segue il futuro. Dunque quando compiamo qualche buona azione, non pensiamo alle cose del tempo, ma dell’eternità. Allora l’azione sarà buona e perfetta. Infatti il domani, soggiunge, avrà già per sé le sue inquietudini, ossia: quando sarà necessario, prendi il cibo, la bevanda, il vestito, quando cioè il bisogno comincerà a pressare. Vi saranno allora questi utili, perché il nostro Padre sa che di tutte queste cose abbiamo bisogno 156. Infatti, conclude, a ciascun giorno basta la sua afflizione 157, cioè: Basta che ad usare questi beni solleciti il bisogno, e ritengo che appunto per questo l’ha considerata afflizione, perché è per noi causa di pena, in quanto appartiene a questa soggezione alla sofferenza e alla morte che abbiamo meritato peccando. Dunque alla pena del bisogno nel tempo non aggiungere un male più grave, al punto che non solo soffri la mancanza di questi beni, ma anche che soltanto per soddisfarla onori Dio.

...che convoglia l’attenzione al bisogno...

17. 57. A questo punto, quando osserviamo che un servo di Dio s’impegna affinché questi utili non manchino per sé o per coloro che sono affidati alla sua accuratezza, si deve evitare con decisione di giudicare che agisce contro il comando del Signore e che è ansioso per il domani. Il Signore stesso, al quale provvedevano gli angeli 158, tuttavia a titolo di esempio, affinché in seguito nessuno ne menasse scandalo, dopo avere incaricato qualcuno dei suoi di provvedere il necessario, si degnò di avere le borse col denaro, da cui ricavare tutto ciò che occorresse alle esigenze indispensabili. E custode e ladro delle borse, come si ha nella Scrittura, fu Giuda che lo tradì 159. Può sembrare che anche l’apostolo Paolo fu ansioso per il domani, quando scrisse: Quanto alle collette in favore dei fratelli fate anche voi, come ho ordinato alle chiese della Galazia. Ogni primo giorno della settimana ciascuno metta da parte quel che gli è riuscito di risparmiare, affinché non si facciano le collette proprio quando verrò io. Quando poi giungerò, manderò quelli che avete scelto mediante lettera a portare il dono della vostra liberalità a Gerusalemme. E se converrà che vada anche io, verranno con me. Verrò da voi dopo avere attraversato la Macedonia perché attraverserò la Macedonia. Rimarrò forse da voi o anche passerò l’inverno, perché siate voi a predisporre per dove andrò. Non voglio vedervi solo di passaggio, ma spero di trascorrere un po’ di tempo con voi, se il Signore lo permetterà. Mi fermerò tuttavia ad Efeso fino alla Pentecoste 160. Così negli Atti degli Apostoli è scritto che le cose necessarie al sostentamento furono messe in riserva per il domani a causa di una imminente carestia. Vi leggiamo queste parole: In quei giorni alcuni profeti scesero ad Antiochia da Gerusalemme e fu una grande gioia. Mentre eravamo riuniti in adunanza, uno di loro, di nome Agabo, alzatosi in piedi, annunziò per mezzo dello Spirito che vi sarebbe stata una grande carestia che avvenne al tempo dell’imperatore Claudio. Allora alcuni dei discepoli, secondo quello che ciascuno possedeva, stabilirono di mandare un soccorso ai fratelli anziani della Giudea e lo mandarono per mezzo di Barnaba e Saulo 161. E poiché erano sistemate per l’apostolo Paolo sulla nave le cose necessarie al sostentamento, che venivano offerte, è evidente che il vitto era stato procurato non per un solo giorno 162. Egli scrive anche: Chi rubava non rubi più, anzi lavori producendo con le proprie mani l’utile per avere di che dare a chi ne ha bisogno 163. A coloro che non capiscono sembra che Paolo non osservi il comando del Signore: Guardate gli uccelli del cielo, poiché non seminano, né mietono né ammassano nei granai 164; e ancora: Osservate come crescono i gigli del campo; non lavorano e non filano 165, poiché comandò loro di lavorare con le proprie mani per avere anche di che offrire agli altri. Non sembra quindi che ha imitato gli uccelli del cielo e i gigli del campo, perché afferma di se stesso che ha lavorato con le proprie mani 166 per non esser di peso a nessuno 167; e di lui è stato scritto che a causa della identità del mestiere si era associato ad Aquila per un lavoro in comune, da cui trarre il sostentamento 168. Da queste e simili testimonianze della Scrittura appare evidentemente che nostro Signore non disapprova se secondo l’umana usanza si procura il vitto, ma se per esso si è al servizio di Dio, sicché nelle proprie attività non si ha di mira il regno di Dio ma il conseguimento degli utili.

...malgrado le difficoltà della vita.

17. 58. Dunque tutta la normativa si riduce a questo principio che anche nell’approvvigionamento degli utili teniamo presente il regno di Dio e che non teniamo presenti essi nel servizio al regno di Dio. Così, anche se verranno a mancare, e spesso Dio lo permette per metterci alla prova, essi non solo non fiaccano il nostro proponimento, ma lo confermano perché controllato e consolidato. Infatti, dice l’Apostolo, ci vantiamo nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza; la speranza poi non delude perché l’amore di Dio è stato riversato nel nostro cuore per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato 169. Nel ricordo delle sue tribolazioni e sofferenze l’Apostolo ricorda di aver sofferto non soltanto nelle carceri e naufragi e in molte altre afflizioni di tal genere, ma anche per la fame, la sete, il freddo, la mancanza di vestiti 170. Quando leggiamo questi fatti, non pensiamo che le promesse del Signore abbiano barcollato in modo che soffrisse fame e sete e mancanza di vestiti l’Apostolo che cercava il regno e la giustizia di Dio, poiché ci è stato detto: Cercate prima il regno e la giustizia di Dio e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta 171. Difatti il nostro medico considera queste afflizioni come rimedi perché una volta per sempre ci siamo affidati interamente a lui e da lui abbiamo la garanzia della vita presente e della futura quando deve aggiungere quando togliere, come giudica che a noi giovi. Infatti egli ci guida e dirige per confortarci ed esercitarci in questa vita e per costituirci perennemente dopo questa vita nel riposo eterno. Anche l’uomo quando sottrae i viveri al proprio giumento, non lo priva della propria cura, anzi lo fa per curarlo.

Liberalità nel giudicare.

18. 59. E poiché gli utili si amministrano per spenderli, ovvero, se non v’è ragione di spenderli, si risparmiano, è incerto con quale intenzione avviene, poiché si può fare con semplicità o anche con doppiezza di cuore. Quindi opportunamente a questo punto ha aggiunto: Non giudicate per non esser giudicati, perché col giudizio con cui giudicherete sarete giudicati e la misura, con cui misurerete, vi sarà restituita 172. Ritengo che in questo passo ci si ingiunge soltanto d’interpretare dalla migliore prospettiva quelle azioni, sulle quali è dubbio con quale intenzione si facciano. Poiché la frase: Dai loro frutti li riconoscerete 173 è relativa alle azioni palesi, che non possono essere compiute con buona intenzione, come sono le violenze carnali, le bestemmie, i furti, l’ubriachezza ed altre, sulle quali ci si permette di giudicare, perché l’Apostolo dice: Spetta forse a me giudicare quelli di fuori? Non sono quelli di dentro che voi giudicate? 174 Riguardo al genere di cibi, poiché si possono indifferentemente usare con buona intenzione e con semplicità di cuore, senza avidità, tutti i cibi adatti all’uomo, l’Apostolo vieta che fossero giudicati coloro che si nutrivano di carne e bevevano il vino da coloro che si moderavano nell’uso di tali cibi. Egli dice: Chi mangia non disprezzi chi non mangia e chi non mangia non giudichi male chi mangia; e soggiunge: Chi sei tu per giudicare uno schiavo che non è tuo? Stia in piedi o cada, riguarda il suo padrone 175. Dai modi di agire, che possono verificarsi con intenzione buona, schietta e segnalata, sebbene anche con intenzione non buona, quei tali volevano esprimere un parere sulle condizioni più intime del cuore, sulle quali soltanto Dio giudica.

Giudizio e cose manifeste o nascoste.

18. 60. Attiene all’argomento anche quello che l’Apostolo dice in un altro passo: Non giudicate prima del tempo, finché venga il Signore e metta in luce i segreti delle tenebre, egli manifesterà le intenzioni dei cuori. E allora ciascuno avrà la sua lode da Dio 176. Vi sono delle azioni di mezzo che non sappiamo con quale intenzione si compiono, perché si possono compiere con buona e cattiva intenzione ed è avventato giudicarle, soprattutto per condannarle. Ma verrà il tempo di giudicarle, quando il Signore metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori. In un altro passo l’Apostolo dice: Di alcuni uomini i peccati sono manifesti perché precedono per il giudizio, altri invece dopo 177. Considera manifesti quei peccati, dei quali è evidente con quale intenzione si compiano; essi precedono per il giudizio, ossia perché se il giudizio sarà dopo di essi, non è temerario. Vengono dopo quelli che sono nascosti, perché anche essi a loro tempo non saranno nascosti. Allo stesso modo si deve pensare delle opere buone. Soggiunge infatti: Similmente anche le opere buone sono manifeste e tutte quelle stesse che non sono tali non possono rimanere nascoste 178. Giudichiamo dunque le opere manifeste, sulle nascoste lasciamo il giudizio a Dio perché anche esse, buone e cattive, non possono rimanere nascoste, quando giungerà il tempo in cui siano rese manifeste.

Giudizi temerari.

18. 61. Vi sono però due casi nei quali dobbiamo evitare il giudizio temerario, cioè quando è incerto con quale intenzione un fatto sia avvenuto, o quando è incerto quale sarà l’uomo che attualmente sembra buono o cattivo. Se, ad esempio, un tale lamentandosi dello stomaco, non ha voluto digiunare e tu non credendo, lo attribuirai al vizio dell’ingordigia, farai un giudizio temerario. Egualmente se sarai informato sulla manifesta ingordigia e abitudine alla ubriachezza e rimprovererai come se quel tale non possa correggersi ed emendarsi, giudicherai sempre con temerità. Non critichiamo dunque le azioni, di cui non sappiamo con quale intenzione siano compiute e non critichiamo allo stesso modo quelle che sono palesi, come se dubitassimo del ravvedimento; così eviteremo il giudizio, di cui nel testo è detto: Non giudicate per non essere giudicati 179.

Ricambio fra giudizio temerario e pena.

18. 62. Può turbare quello che ha soggiunto: Infatti col giudizio con cui giudicherete sarete giudicati e con la misura con cui misurerete sarete misurati 180. Forse che se noi avremo giudicato con un giudizio temerario, anche Dio ci giudicherà con temerità? O forse che, se avremo misurato con una misura ingiusta, anche presso Dio v’è la misura ingiusta con cui saremo misurati? Suppongo infatti che col termine di misura è stato indicato lo stesso giudizio. In senso assoluto Dio non giudica con temerità e non dà il contraccambio a qualcuno con una misura ingiusta. Ma è stato detto perché inevitabilmente ti condanna la temerità con cui condanni l’altro. Ma forse si deve presumere che la malignità danneggi un po’ colui contro il quale si muove e per niente colui dal quale si muove. Anzi al contrario spesso non danneggia affatto colui che subisce l’oltraggio e inevitabilmente invece danneggia chi lo fa. Infatti in che senso ha danneggiato i martiri la cattiveria dei persecutori? Ai persecutori invece moltissimo. E sebbene alcuni di loro si sono emendati, tuttavia nel periodo in cui perseguitavano li accecava la loro perversità. Così un giudizio temerario spesso non danneggia affatto colui che viene giudicato con temerità, ma inevitabilmente la temerità stessa danneggia colui che giudica con temerità. Ritengo che secondo questo principio siano da intendere anche le parole: Chiunque colpisce con la spada di spada morirà 181. Molti infatti colpiscono con la spada e non muoiono di spada, come anche lo stesso Pietro. Ma qualcuno potrebbe pensare che per merito del perdono dei peccati egli sia sfuggito a tale pena, sebbene niente di più assurdo si penserebbe che poté essere più grave la pena della spada che non toccò a Pietro di quella della croce che egli sostenne. Che dire allora dei briganti che furono crocefissi col Signore, giacché quegli che meritò il perdono lo meritò dopo essere stato crocefisso e l’altro non lo meritò affatto 182? Forse che avevano crocefisso tutti quelli che avevano ucciso e perciò anche essi meritarono di subire questa pena? È assurdo pensarlo. Quindi le parole: Chiunque colpisce con la spada di spada morirà non significano altro che l’anima muore col peccato, qualunque ne abbia commesso.

Fra odio e correzione.

19. 63. Quindi in questo passo il Signore ci avverte sul giudizio temerario e offensivo. Egli vuole infatti che con cuore sincero e rivolto unicamente a Dio compiamo tutte le azioni che compiamo; e vi sono molte azioni che è incerto con quale sentimento si compiano ed è avventato il giudicarle. Invece giudicano temerariamente su fatti incerti e li criticano con indifferenza soprattutto coloro che amano biasimare e condannare anziché emendare e correggere ed è il vizio della superbia o invidia. Perciò il Signore prosegue e dice: Perché osservi la pagliuzza nell’occhio di tuo fratello e non vedi la trave nel tuo occhio? 183. È il caso, ad esempio, che egli ha peccato per ira, tu invece critichi con odio. Quanta differenza appunto v’è fra la pagliuzza e la trave, altrettanta quasi fra l’ira e l’odio. L’odio infatti è un’ira inveterata che, per così dire, con l’invecchiare ha acquisito tanta resistenza che giustamente si considera trave. Può avvenire infatti che, se ti adiri con un uomo, intendi che si corregga; se invece lo odi, non ottieni che egli intenda correggersi.

Umiltà e bontà nel correggere.

19. 64. Come puoi dire a un tuo fratello: Permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e poi vedrai di togliere la pagliuzza dall’occhio di tuo fratello 184, ossia: Prima rimuovi l’odio e poi potrai correggere l’uomo che ami. E ha detto bene: Ipocrita. Infatti biasimare i vizi è compito di uomini buoni e benevoli, ma, quando lo fanno i cattivi, recitano la parte degli altri, come gli attori che nascondono sotto la maschera quel che sono e imitano con la maschera quel che non sono. Quindi nell’appellativo di ipocriti intenderai gli impostori. Ed è veramente molto insopportabile e spiacevole la razza degli impostori poiché, mentre intraprendono con odio e astio la censura dei vizi, intendono anche essere considerati consiglieri. E quindi con tenerezza e prudenza si deve stare attenti che se la emergenza costringerà a riprendere o rimproverare qualcuno, per prima cosa riflettiamo se è un vizio che non abbiamo mai avuto o che ce ne siamo liberati. E se non l’abbiamo mai avuto, riflettiamo che anche noi siamo uomini e abbiamo potuto averlo; se invece l’abbiamo avuto e non l’abbiamo più, la comune debolezza renda attenta la memoria in modo che non l’odio ma la compassione preceda la riprensione o il rimprovero, sicché tanto se contribuiscono al suo ravvedimento come alla sua ostinazione, giacché il risultato è incerto, noi tuttavia siamo tranquilli sulla sincerità del nostro giudizio. Se poi riflettendo riscontreremo che anche noi ci troviamo in quel vizio, in cui si trova colui che ci apprestavamo a riprendere, non riprendiamo e non rimproveriamolo, ma proviamone insieme dolore e invitiamolo non ad ascoltarci ma a tentare insieme.

L’uniformarsi in Paolo.

19. 65. In merito dice l’Apostolo: Sono diventato giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei; con coloro che sono sotto la legge sono diventato come uno che è sotto la legge, pur non essendo sotto la legge, allo scopo di guadagnare quelli che sono sotto la legge; con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza la legge, pur non essendo senza la legge di Dio, anzi essendo nella legge di Cristo, per guadagnare coloro che sono senza legge. Sono diventato debole con i deboli per guadagnare i deboli; sono diventato tutto per tutti per guadagnare tutti 185. Certamente non realizzava questa esperienza per finzione, come alcuni vorrebbero interpretare per proteggere la loro detestabile finzione con l’autorità di un così sublime modello, ma la realizzava, perché considerava come propria la debolezza di colui al quale voleva venire incontro. E l’ha premesso dicendo: Infatti pur essendo libero da tutti, sono diventato servo di tutti per guadagnarne il maggior numero 186. E affinché tu comprenda che non per finzione ma mediante la carità questo avviene, perché con essa commiseriamo i deboli, come se lo fossimo noi, in un altro passo esorta con le parole: Voi, fratelli, siete stati chiamati alla libertà, purché non usiate questa libertà come pretesto della passione, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri 187. E questo non può avvenire se uno non considera come propria la debolezza dell’altro per sopportarla con serenità fino a che non se ne libera colui di cui cura la salute.

Prudenza nel correggere.

19. 66. Quindi raramente e in casi di grande necessità si devono usare i rimproveri, in modo che anche in essi ci preoccupiamo che si sia sottomessi a Dio e non a noi stessi. Egli infatti è fine affinché nulla facciamo con doppiezza di cuore, togliendo dal nostro occhio la trave dell’invidia o malignità o finzione per vedere di trar fuori la pagliuzza dall’occhio del fratello. La vedremo infatti con gli occhi della colomba 188, quali sono esaltati nella sposa di Cristo, che Dio si è scelto come Chiesa gloriosa, perché non ha neo o grinza, cioè è pulita e riservata 189.

Prudenza nella evangelizzazione.

20. 67. Il termine di riservatezza può trarre in errore alcuni che desiderano obbedire ai comandamenti di Dio, sicché ritengono che sia una colpa occultare il vero, come è una colpa dire talora il falso. In questo modo spiegando le verità, che coloro ai quali vengono spiegate non possono capire, fanno un danno maggiore che se le tenessero completamente e sempre nascoste. Quindi il Signore molto opportunamente soggiunge: Non date una cosa santa ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci affinché non le calpestino con le loro zampe e non si voltino per sbranarvi 190. Difatti il Signore, sebbene non abbia mai mentito, ha mostrato di aver tenute nascoste alcune verità, dicendo: Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso 191. E l’apostolo Paolo dice: Io non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali. Come neonati in Cristo vi ho dato da bere latte per bevanda e non cibo solido, perché non eravate capaci, ma neanche ora lo potete, perché siete ancora carnali 192.

Cani e porci contro la verità.

20. 68. Nel comando con cui ci si proibisce di dare una cosa santa ai cani e di gettare le nostre perle ai porci, si deve esaminare attentamente che cosa significhi una cosa santa, che cosa le perle, i cani e i porci. Una cosa santa è quella che è empietà violare e profanare. Di questo crimine sono considerati colpevoli il tentativo e l’intenzione, sebbene la cosa santa è di per sé inviolabile e improfanabile. Sono da considerarsi perle tutti i grandi valori dello spirito e poiché sono nascoste in un recesso, sono tratte, per così dire, dalla profondità e si rinvengono negli involucri delle allegorie, quasi paragonabili ai gusci di conchiglia aperti. È ammessa dunque questa interpretazione: si possono considerare una sola e medesima realtà una cosa santa e la perla, ma una cosa santa dal fatto che non si deve profanare, una perla dal fatto che non si deve conculcare. Un tizio tenta di profanare quel che non vuole illeso; conculca invece quel che ritiene spregevole e lo considera sotto di sé e perciò si dice che è calpestato tutto ciò che si conculca. Perciò i cani, poiché assaltano per dilaniare, non permettono che rimanga illeso l’essere che dilaniano. Non date, dice il Signore, una cosa santa ai cani 193, poiché anche se non è possibile dilaniare e profanare ed essa rimane illesa e inviolabile, si deve riflettere che cosa intendono coloro che si oppongono con odio accanito e per quanto sta in loro, se fosse possibile, tentano di distruggere la verità. I porci poi, sebbene non assalgano col morso come i cani, imbrattano dappertutto calpestando. Non gettate dunque, dice il Signore, le vostre perle davanti ai porci affinché non le calpestino con le loro zampe e non si voltino per farvi a pezzi 194. Ritengo dunque che non illogicamente i cani siano indicati per coloro che contraddicono la verità e i porci per coloro che la conculcano.

Motivazione della segretezza.

20. 69. Dice: Si voltino per farvi a pezzi, non dice: Facciano a pezzi le perle. Calpestandole infatti, quando si voltano, per ascoltare ancora qualche parola, fanno a pezzi colui da cui sono state già gettate le perle che hanno calpestato. Difatti non troverai con facilità che cosa possa essere gradito a chi ha calpestato le perle, cioè ha conculcato le verità divine conseguite con tanto impegno. E non vedo come chi le insegna non sia fatto a pezzi dallo sdegno e dal disgusto. L’uno e l’altro, il cane e il porco, sono animali immondi. Si deve evitare dunque di svelare la verità a chi non l’accoglie; è meglio che cerchi da sé una verità nascosta, anziché travisi o neghi quella che gli è svelata. E oltre l’odio e il conculcamento non si trova altra ragione per cui le grandi verità rivelate non siano accolte; e per il primo sono stati indicati i cani e per l’altro i porci. E tutta questa immondezza si rende comprensibile attraverso le cose del tempo, ossia attraverso l’amore di questo mondo, al quale ci si ingiunge di rinunziare affinché possiamo essere puri. Chi dunque desidera avere il cuore sereno e puro non deve ritenersi colpevole, se tiene segreta una verità che colui, al quale la tiene segreta, non può capire. Né da questa massima si deve presumere che sia permesso mentire poiché non ne consegue che quando si tiene nascosto il vero si dice il falso. Si deve quindi ottenere prima che siano tolti gli impedimenti, per i quali avviene che uno non accoglie il vero; e se non lo accoglie a causa delle immondezze, si deve purificarlo con la parola e con l’azione, per quanto ci è possibile.

Gesù modello dell’insegnamento.

20. 70. Poiché si riscontra che nostro Signore ha detto alcune verità che molti dei presenti o per contrasto o per disprezzo non accolsero, non si deve ritenere che ha dato una cosa santa ai cani o che ha gettato le perle davanti ai porci, perché egli non ha parlato per quelli che non potevano accoglierle, ma per quelli che lo potevano ed erano ugualmente presenti e che non conveniva trascurare a causa della immondezza degli altri. E quando lo interrogavano quelli che lo mettevano alla prova e rispondeva loro in modo che non potessero contraddire, sebbene si struggessero con i propri veleni, anziché saziarsi del suo cibo, tuttavia dal loro intervento gli altri, che potevano apprendere, ascoltavano con vantaggio. Ho detto questo affinché se uno per caso non potrà rispondere a chi lo interroga, non si ritenga scusato col dire che non vuole dare una cosa santa ai cani e gettare le perle davanti ai porci. Chi sa cosa rispondere deve rispondere, sia pure per gli altri, nei quali sorge la sfiducia se riterranno che la questione non si può risolvere, e questo su argomenti utili e attinenti al problema della salvezza. Vi sono certamente molti argomenti che possono essere messi in discussione da coloro che non hanno una occupazione e sono superflui, vuoti e spesso dannosi, sui quali tuttavia qualcosa si può dire, ma si deve manifestare e spiegare il motivo, per cui non è necessario indagarli. Sugli argomenti importanti si deve qualche volta rispondere a quel che viene chiesto, come ha fatto il Signore quando i Sadducei gli chiesero riguardo alla donna, che ebbe sette mariti, di chi sarebbe stata nella risurrezione. Rispose che nella risurrezione non prenderanno né marito né moglie, ma saranno come gli angeli in cielo 195. Talora colui che interroga si deve interrogare su un altro argomento e, se lo esporrà, egli si risponda da se stesso su ciò che ha chiesto e, se non vorrà, non sembri ingiusto ai presenti se egli non ha una risposta su ciò che ha chiesto. Infatti quelli che, per mettere alla prova, interrogarono se si doveva dare il tributo, furono interrogati su un altro assunto, cioè: di chi aveva l’effigie la moneta che fu da loro mostrata; e poiché risposero su ciò che era stato loro richiesto, ossia che la moneta aveva l’effigie di Cesare, in certo senso si risposero da sé su ciò che avevano chiesto al Signore. Perciò egli dalla loro risposta concluse: Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio 196. Poiché i più ragguardevoli dei sacerdoti e gli anziani del popolo lo interrogarono con quale autorità compisse le sue opere, egli li interrogò sul battesimo di Giovanni; e poiché essi non volevano dire qualche cosa che, a loro avviso, era contro se stessi e non osavano a motivo dei presenti parlare male di Giovanni, egli disse: Neanche io vi dico con quale autorità compio questa opera 197; e la risposta sembrò molto giusta ai presenti. Dissero di ignorare ciò che non ignoravano, ma che non volevano dire. E in verità era giusto che essi, i quali volevano che si rispondesse loro su ciò che avevano chiesto, facessero essi quel che chiedevano si facesse per essi; se lo avessero fatto, avrebbero certamente risposto a se stessi. Essi stessi infatti avevano mandato da Giovanni a chiedere chi fosse, o meglio erano stati mandati essi, come sacerdoti e leviti, credendo che fosse il Cristo, quando egli negò di esserlo e rese testimonianza al Signore 198. E se da quella testimonianza avessero voluto riconoscerlo, avrebbero insegnato a se stessi con quale autorità Cristo compiva quelle opere, sebbene avessero chiesto come se non lo sapessero per trovare il pretesto di calunniarlo.

Richiesta del bene, ricerca del vero.

21. 71. Essendo dunque stato comandato di non dare una cosa santa ai cani e di non gettare le perle davanti ai porci, un uditore poteva replicare e dire, poiché era consapevole della propria ignoranza e instabilità e credeva che gli si ingiungesse di non dare quel che sapeva di non avere ancora ricevuto; poteva dunque replicare e dire: Quale cosa santa mi proibisci di dare ai cani e quali perle di gettare davanti ai porci, poiché mi accorgo che ancora non le ho? Perciò molto opportunamente ha soggiunto: Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto; infatti chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto 199. La richiesta è relativa a conseguire la sanità e la serenità della coscienza, affinché possiamo eseguire gli obblighi imposti; la ricerca invece è relativa a scoprire la verità. Poiché la felicità si consegue con l’azione e la conoscenza, l’azione postula la moralità degli atti, la contemplazione la rivelazione della verità. Di queste nozioni la prima si deve chiedere, la seconda ricercare, affinché quella sia data, questa sia ritrovata. Ma in questa vita la conoscenza è piuttosto della via che del conseguimento. Ma quando l’uomo troverà la via vera, giungerà al conseguimento che tuttavia sarà aperto a chi bussa.

Chiedere, cercare, bussare, esemplificati.

21. 72. Ma affinché questi tre atti, la richiesta, la ricerca e la bussata si evidenzino, a titolo d’esempio supponiamo che un tale dai piedi malati non può camminare. Prima quindi deve essere guarito e reso abile a camminare, e a questo è relativa l’ingiunzione: Chiedete. Ma a che serve che può camminare o anche correre, se si smarrirà per sentieri che deviano? Secondo compito è dunque che trovi la via che conduce dove egli vuol giungere. Quando l’avrà raggiunta e percorsa, se troverà chiuso l’ambiente in cui vuole abitare, non gli gioverà l’aver potuto camminare, l’aver camminato e l’essere arrivato se non gli viene aperto; a questo attiene l’ingiunzione: Bussate.

Confronto fra noi e il Padre nel fare il bene.

21. 73. Ed ha assicurato una grande speranza colui che nel promettere non illude; ha detto infatti: Chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto 200. Quindi si richiede la perseveranza per ricevere quel che chiediamo, trovare quel che cerchiamo e affinché ci si apra dove bussiamo. Come infatti ha trattato degli uccelli del cielo e dei gigli del campo 201, affinché non perdessimo la speranza che ci sarebbe stato per noi vitto e vestito in modo che la speranza da cose umili si elevasse a quelle di valore, così a questo punto continua: O chi di voi, se il figlio gli chiederà un pane, gli darà una pietra? O se gli chiederà un pesce, gli darà un serpente? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono 202. In che senso i cattivi danno cose buone? Ma ha considerato cattivi quelli che amano ancora il mondo e quelli che peccano. Le cose buone che danno si devono considerare buone secondo il loro modo di agire, poiché le ritengono un bene. E sebbene queste cose in natura siano buone, tuttavia sono nel tempo e di spettanza a questa vita soggetta al male. E il cattivo che le dà non dà del suo. Infatti del Signore è la terra e quanto contiene 203, perché egli ha creato il cielo e la terra e il mare e tutte le cose che sono in essi 204. Si deve molto sperare che Dio darà le cose buone a noi che le chiediamo e che non possiamo essere ingannati nel ricevere una cosa per un’altra, quando chiediamo a lui, perché anche noi, pur essendo cattivi, sappiamo dare quel che ci si chiede. Infatti non inganniamo i nostri figli, e tutte le cose buone che diamo non le diamo del nostro ma del suo.

Il bene da farsi.

22. 74. La perseveranza e un certo vigore del camminare sono stabiliti nell’onestà morale che si svolge fino alla purificazione e serenità del cuore. Avendo parlato a lungo di essa il Signore conclude: Tutto il bene che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro; questa è appunto la Legge e i Profeti 205. Nei codici greci troviamo: Dunque tutto quanto voi volete che gli uomini facciano per voi, anche voi fatelo per loro, ma penso che per dar rilievo alla massima nei codici latini sia stato aggiunto il concetto di bene. Infatti si presentava il caso che se uno volesse che a suo riguardo avvenga qualche cosa in termini di disonestà e allo scopo citi questa massima, ad esempio se un tizio volesse essere stimolato a bere senza ritegno e si riempia di bicchieri di vino ed egli stimoli prima un altro da cui vuole essere stimolato, è assurdo pensare che abbia rispettato tale massima. Siccome questo poteva lasciare perplessi, come penso, è stato aggiunto a chiarire il pensiero una parola, in modo che alla frase: Tutto quanto voi volete che gli uomini facciano per voi, è stato aggiunto di bene. E se manca nei codici greci anche essi devono essere emendati. Ma chi oserebbe farlo? Si deve quindi ammettere che la massima è completa e del tutto esatta, anche se non si aggiunge quella parola. L’espressione Tutto quanto volete deve essere non secondo l’uso ovunque corrente ma con proprietà. La volontà infatti è soltanto del bene, poiché per le azioni malvagie e disonorevoli secondo proprietà si parla di passione e non di volontà. Non sempre i libri della Scrittura si esprimono così, ma dove è necessario usano termini così appropriati che non lasciano intendere altro.

Insistenza sull’amore al prossimo.

22. 75. Sembra che questo comandamento appartenga all’amore del prossimo e non anche a quello di Dio, giacché in un altro passo il Signore dice che sono due i comandamenti in cui si assommano tutta la Legge e tutti i Profeti 206. Infatti se avesse detto: Quanto volete che vi sia fatto, anche voi fatelo, con questa sola formula avrebbe incluso l’uno e l’altro comandamento, poiché con immediatezza si avrebbe il concetto che ognuno vuole essere amato e da Dio e dal prossimo. Quindi se gli si comandasse di fare quel che vorrebbe sia fatto a lui, gli si comanderebbe di amare Dio e gli uomini. Ma poiché più espressamente sono stati indicati gli uomini nella frase: Tutto quanto voi volete che gli uomini vi facciano, anche voi fatelo a loro 207 sembra che sia stato prescritto soltanto il comandamento: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma non si deve disattendere quel che ha soggiunto: Questo sono infatti la Legge e i Profeti 208. Nei due comandamenti non dice soltanto: Si assommano la Legge e i Profeti, ma ha detto: Tutta la Legge e tutti i Profeti, come se fosse ogni profezia. Ma poiché nel passo in esame non l’ha aggiunto, ha lasciato vuoto il posto all’altro comandamento che riguarda l’amore di Dio. Qui invece poiché espone i comandamenti della sincerità del cuore e ci si preoccupa per loro perché nessuno abbia il cuore doppio nei confronti di coloro ai quali il cuore si può tenere nascosto, cioè nei confronti degli uomini, solo questo si doveva ingiungere. Non v’è quasi nessuno il quale voglia che l’altro tratti con lui con doppiezza di cuore. Ma questo è impossibile che, cioè, un uomo dia qualcosa a un altro con semplicità di cuore, se non lo dà in modo da non attendere da lui alcun vantaggio nel tempo e lo faccia con quella intenzione sulla quale abbiamo trattato in precedenza, quando parlavamo della serenità dell’occhio.