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Pane come sacramento.

7. 26. Trattiamo anche del sacramento del corpo del Signore affinché non muovano obiezioni i molti che nelle regioni d’Oriente non partecipano ogni giorno alla cena del Signore, sebbene questo pane è stato dichiarato quotidiano. Facciano dunque silenzio e non difendano la propria opinione sull’argomento sia pure con l’autorità ecclesiastica, poiché lo fanno senza scandalo e non sono impediti di farlo da coloro che comandano nelle loro chiese e, anche se non obbediscono, non sono condannati. Da ciò si evidenzia che in quelle regioni questo non è considerato pane quotidiano, perché sarebbero rei di un grave peccato coloro che non lo ricevono ogni giorno. Ma affinché, come è stato premesso, non discutiamo di costoro in alcun senso, deve certamente sovvenire a coloro che riflettono che noi abbiamo ricevuto dal Signore la norma del pregare e che non si deve trasgredire né aggiungendo né togliendo. Stando così le cose, chi osa dire che dobbiamo recitare soltanto una volta la preghiera del Signore o almeno, anche se una seconda e terza volta, fino a quell’ora in cui facciamo la comunione col corpo del Signore e che poi non si deve pregare così per il resto del giorno? Infatti non potremmo più dire: dacci oggi quel che abbiamo già ricevuto. Ovvero ci si potrà costringere a celebrare quel sacramento fino all’ultima parte del giorno?

Pane come parola di Dio.

7. 27. Rimane dunque che lo intendiamo come pane spirituale, cioè come i comandamenti del Signore che ogni giorno si devono meditare e osservare. Di essi infatti il Signore dice: Procuratevi il cibo che non si corrompe 66. Nel tempo appunto si considera quotidiano un tale cibo finché scorre questa vita posta nel divenire attraverso i giorni che vanno e vengono. E veramente finché lo stato d’animo si avvicenda ora nei beni superiori, ora in quelli inferiori, cioè ora in quelli spirituali, ora in quelli carnali, come a chi ora si nutre di cibo, poi soffre la fame, ogni giorno è necessario il pane, affinché con esso si ristori chi ha fame e si riprenda chi non si regge in piedi. Così dunque il nostro corpo in questa vita, prima della finale immunità dal bisogno, si ristora con il cibo perché avverte la dispersione di forze; allo stesso modo l’anima spirituale, poiché subisce mediante gli affetti terreni come una dispersione di forze dalla tensione a Dio, si ristora con il cibo dei comandamenti. È stato suggerito: Dacci oggi, finché si dice l’oggi 67, cioè in questa vita che scorre nel tempo. Infatti dopo questa vita ci sazieremo in eterno di un cibo spirituale in modo tale che non s’intenda il pane quotidiano, perché allora non vi sarà lo scorrere del tempo, che fa succedere i giorni ai giorni, da cui prende significato l’ogni giorno. Come infatti e stato detto: Oggi se ascolterete la sua voce 68, che l’Apostolo parafrasa nella Lettera agli Ebrei con: Finché si dice l’oggi 69, così anche in questa accezione si deve interpretare il Dacci oggi. Se qualcuno invece vuole intendere questa frase in relazione al necessario alimento del corpo o al sacramento del corpo del Signore, è conveniente che questi tre significati si intendano unitamente, cioè che chiediamo insieme il pane quotidiano, tanto quello necessario, come quello consacrato visibilmente e quello invisibile della parola di Dio.

Remissione in ogni senso...

8. 28. Segue la quinta domanda: E rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori 70. È evidente che come debiti sono indicati i peccati o nel senso che ha indicato il Signore stesso: Non uscirai di lì finché non paghi l’ultimo spicciolo 71, o nel senso per cui egli ha considerato come debitori quelli sui quali fu informato che erano morti o per il crollo della torre o perché Pilato aveva mescolato il loro sangue a quello del sacrificio 72. Affermò infatti che gli uomini li ritenevano debitori oltre misura, cioè peccatori e aggiunse: In verità vi dico, se non farete penitenza, morirete allo stesso modo 73. Non con queste parole uno è invitato a condonare il denaro ai debitori, ma tutte le offese che l’altro ha commesso contro di lui. Infatti a condonare il denaro siamo obbligati con il comando che è stato riportato precedentemente: Se qualcuno ti vuole chiamare in giudizio per toglierti il vestito, tu cedigli anche il mantello 74. E da queste parole non risulta necessario condonare il debito a ogni debitore di denaro, ma a colui che non volesse restituire al punto che voglia perfino intentare una lite. Non conviene, dice l’Apostolo, che un servo del Signore intenti una lite 75. Si deve quindi condonare a chi o perché di sua iniziativa o perché invitato non volesse restituire il denaro dovuto. E per due motivi non vorrà restituire, o perché non ha, o perché è avaro e avido della roba d’altri. L’uno e l’altro caso sono relativi a una povertà, poiché la prima è povertà di beni, la seconda povertà di spirito. Chiunque dunque condona il debito a un tale individuo condona a un povero e compie un’opera di cristiana bontà perché persiste la norma che egli sia disposto a perdere ciò che gli è dovuto. Infatti se del tutto con pacata moderazione farà in modo che gli sia restituito, non badando tanto alla restituzione del denaro, quanto a correggere l’uomo, al quale è senza dubbio dannoso avere di che restituire e non restituire, non solo non peccherà, ma avrà il grande vantaggio che l’altro non subisca un danno spirituale per il fatto che vuole volgere a proprio profitto il denaro altrui. E questo è tanto più grave da non avere confronto. Se ne conclude che anche in questa quinta domanda con cui chiediamo: Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori 76 non si tratta esplicitamente del denaro, ma di tutti i casi in cui qualcuno pecca contro di noi e quindi anche del denaro. Perciò pecca contro di te chi ricusa di restituirti il denaro dovuto, quando ha di che restituirlo. Se non rimetterai questo peccato, non potrai dire: Rimetti a noi come anche noi rimettiamo. Se invece perdonerai, ti accorgi che colui, a cui si ordina di invocare con questa preghiera, è esortato anche a condonare il denaro.

...perché chiediamo al Padre.

8. 29. Si può trattare anche il seguente assunto. Poiché diciamo: Rimetti a noi come anche noi rimettiamo, ci dobbiamo render conto di avere agito contro questa norma se non rimettiamo a coloro che chiedono perdono, poiché vogliamo che dal Padre molto amorevolmente sia rimesso a noi quando gli chiediamo perdono. Ma d’altra parte dal comandamento, con cui siamo obbligati a pregare per i nostri nemici 77, non siamo obbligati a pregare per coloro che chiedono perdono. Infatti costoro non sono nemici. In nessun modo poi un individuo direbbe con sincerità che prega per colui che non ha perdonato. Perciò si deve riconoscere che si devono rimettere tutti i peccati che vengono commessi contro di noi, se vogliamo che dal Padre ci siano rimesse le colpe che noi commettiamo. Infatti sulla vendetta si è già parlato a sufficienza, come penso.

Il significato di tentazione.

9. 30. La sesta domanda è: Non ci immettere nella tentazione 78. Alcuni manoscritti hanno: Indurre che ritengo abbia il medesimo significato; infatti dall’unico termine greco è stato tradotto l’uno e l’altro. Molti poi nel pregare dicono: Non permettere che siamo indotti in tentazione, mostrando, cioè, in che senso sia stato usato l’indurre. Infatti Dio non ci induce da se stesso, ma permette che vi sia indotto colui che per un ordinamento occultissimo e meriti avrà privato del suo aiuto. Spesso anche per ragioni manifeste egli giudica uno degno fino a privarlo del suo aiuto e permettere che sia indotto in tentazione. Una cosa è infatti essere indotto in tentazione e un’altra essere tentati. Infatti senza la tentazione nessuno è adatto alla prova, tanto in se stesso, come si ha nella Scrittura: Chi non è stato tentato che cosa sa? 79, quanto per l’altro, come dice l’Apostolo: E non avete disprezzato quella che era per voi una tentazione nella carne 80. Da questo fatto appunto li ha riconosciuti costanti, perché non furono distolti dalla carità a causa delle sofferenze capitate all’Apostolo nel fisico. Infatti noi siamo noti a Dio prima di tutte le tentazioni perché egli sa tutto prima che avvenga.

Analogia del concetto di tentazione.

9. 31. Quindi la frase che si ha nella Scrittura: Il Signore Dio vostro vi tenta per sapere se lo amate 81 è stata espressa nel traslato da per sapere a per farvi sapere, come diciamo allegro un giorno che ci rende allegri e pigro il freddo perché ci rende pigri e altri innumerevoli modi di dire che si hanno tanto nel gergo abituale, come nel linguaggio dei letterati e nei libri della Sacra Scrittura. Gli eretici, che sono contrari al Vecchio Testamento e non comprendendo questa locuzione, pensano che è bollato, per così dire, da un marchio d’ignoranza l’essere di cui è stato detto: Il Signore Dio vostro vi tenta, come se nel Vangelo del Signore non sia stato scritto: Lo diceva per tentarlo perché egli sapeva quel che stava per fare 82. Se infatti conosceva il cuore di colui che tentava, che cosa voleva conoscere tentando? Ma senz’altro l’episodio è avvenuto, affinché colui che veniva tentato riflettesse su se stesso e riprovasse la sua sfiducia perché le turbe furono saziate col pane del Signore, mentre egli pensava che esse non avessero di che mangiare 83.

Tentazione contro i Manichei...

9. 32. Quindi con quella preghiera non si chiede di non essere tentati, ma di non essere immessi nella tentazione, sulla fattispecie di un tale, a cui è indispensabile essere sottoposto all’esperimento del fuoco, e non chiede di non essere toccato col fuoco, ma di non rimanere bruciato. Infatti la fornace prova gli oggetti del vasaio e la prova della sofferenza gli uomini virtuosi 84. Giuseppe difatti è stato tentato con la seduzione dell’adulterio, ma non è stato immesso nella tentazione 85. Susanna è stata tentata e neanche lei indotta o immessa nella tentazione 86 e molti altri dell’uno e dell’altro sesso, ma soprattutto Giobbe. Gli eretici, nemici del Vecchio Testamento, volendo con parole sacrileghe schernire la sua ammirevole costanza in Dio suo Signore, allegano a preferenza degli altri l’episodio che Satana chiese di tentarlo 87. Chiedono agli ignoranti, assolutamente incapaci di capire certe cose, in che modo è stato possibile a Satana di parlare con Dio. Non riflettono, e non lo possono perché sono accecati dall’errore e dalla polemica, non riflettono dunque che Dio non occupa uno spazio con la dimensione del corpo sicché è in un luogo e non in un altro o per lo meno ha una parte qui e un’altra altrove, ma con infinita grandezza è in atto in ogni spazio, non diviso nelle parti ma tutto in ogni spazio. E se intendono in senso letterale la frase: Il cielo è per me il trono e la terra lo sgabello dei miei piedi 88, e se a questa posizione si riferisce anche il Signore con le parole: Non giurate né per il cielo perché è il trono di Dio, né per la terra perché è lo sgabello dei suoi piedi 89, che cosa v’è di strano se il diavolo, giunto sulla terra, si è fermato davanti ai piedi di Dio e ha detto qualche cosa in sua presenza 90? Quando infatti questi tali finiranno per capire che non v’è anima, quantunque perversa, che comunque in qualche modo può ragionare, nella cui coscienza Dio non parli? Chi se non Dio ha scritto nel cuore degli uomini la legge naturale? E di questa legge dice l’Apostolo: Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi pur non avendo la legge, sono legge a se stessi; dimostrano infatti che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della coscienza di essi e dei loro stessi ragionamenti che li accusano o anche li difendono nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini 91. Quindi ogni anima ragionevole, sia pure accecata dalla passione, tuttavia pensa e ragiona e tutto ciò che mediante il suo ragionamento è vero non si deve attribuire a lei, ma alla luce stessa della verità, dalla quale sia pure scarsamente nei limiti della sua capacità è illuminata, affinché nel pensare percepisca come vero qualche cosa. Non c’è quindi da far meraviglie se si afferma che l’anima del diavolo, corrotta da un depravante pervertimento, ha udito dalla voce di Dio, cioè dalla voce della stessa verità tutto ciò che ha pensato su un uomo virtuoso, quando volle tentarlo 92; e invece tutto ciò che era falso si attribuisce a quel pervertimento da cui ha avuto l’appellativo di diavolo. Tuttavia anche per mezzo di creatura fisicamente visibile spesso Dio ha parlato tanto ai buoni che ai cattivi secondo i meriti di ciascuno, come Signore e guida di tutti e loro ordinatore al fine; ha parlato anche per mezzo di angeli che si manifestarono in sembianze umane e per mezzo dei profeti che dicevano: Queste cose dice il Signore. Che meraviglia quindi se si dice che Dio ha parlato col diavolo non certamente attraverso il pensiero, ma mediante una creatura ovviamente adattata allo scopo?

...nel confronto col Nuovo Testamento.

9. 33. E non suppongano che è proprio di deferenza e quasi merito di virtù il fatto che Dio ha parlato con lui, perché ha parlato con uno spirito angelico, sebbene stolto e vizioso, come se parlasse con un’anima umana stolta e viziosa. Oppure dicano essi stessi in che modo Dio ha parlato con quel ricco, di cui volle biasimare un vizio molto stolto con le parole: Stolto, questa notte l’anima ti sarà richiesta e di chi saranno le ricchezze che hai messo da parte? 93. Evidentemente questo lo dice il Signore stesso nel Vangelo, al quale questi eretici, volere o no, chinano la testa. Se poi si preoccupano del fatto che Satana chiede a Dio di tentare un uomo virtuoso, non io spiego perché sia avvenuto, ma sprono costoro a spiegare perché nel Vangelo sia stato detto dal Signore stesso ai discepoli: Ecco che Satana cerca di vagliarvi come il grano 94; e a Pietro: Ma io ho pregato affinché non venga meno la tua fede 95. Quando mi spiegano queste parole, unitamente spiegano a se stessi quel che chiedono da me. Se poi non saranno capaci di spiegarlo, non osino censurare con sventatezza in un libro qualsiasi quel che senza ripugnanza leggono nel Vangelo.

Varie provenienze della tentazione.

9. 34. Avvengono dunque le tentazioni ad opera di Satana, non per un suo potere, ma col permesso del Signore per punire gli uomini dei loro peccati o per provarli e addestrarli in riferimento alla bontà di Dio. E importa molto in quale tentazione uno incorra. Difatti Giuda, che vendé il Signore 96, non è incorso nella medesima tentazione in cui è incorso Pietro che per paura negò il Signore 97. Vi sono anche delle tentazioni provenienti, così penso, dall’uomo, quando uno con buona intenzione ma nei limiti dell’umana debolezza sbaglia in qualche consiglio ovvero si adira col fratello nell’intento di correggerlo, ma un po’ al di là di quel che richiede la serenità cristiana. Di queste tentazioni dice l’Apostolo: Non vi sorprenda la tentazione se non quella umana; ed anche: Dio è fedele, perché non permette che siate tentati al di là di quel che potete, ma vi darà assieme alla tentazione anche il superamento affinché possiate sopportarla 98. E con questo pensiero ha mostrato abbastanza che non dobbiamo pregare per non essere tentati, ma per non essere indotti in tentazione. E vi siamo indotti, se si verificano di tale fatta che non riusciamo a superarle. Ma poiché le tentazioni pericolose, in cui è dannoso essere immessi o indotti, hanno origine dalle prosperità o avversità nel tempo, non si fiacca dalla inquietudine delle avversità chi non si lascia allettare dall’attrattiva delle prosperità.

La liberazione dal male.

9. 35. L’ultima e settima richiesta è: Ma liberaci dal male 99. Si deve infatti pregare non solo di non essere indotti al male, di cui siamo privi, e questo si chiede al sesto posto, ma di essere liberati da quello, al quale siamo stati indotti. E quando questo avverrà, non rimarrà nulla di temibile e non si dovrà più temere alcuna tentazione. Però non si deve sperare che questo possa avvenire in questa vita, finché portiamo in giro la soggezione alla morte, alla quale siamo stati indotti dalla suggestione del serpente 100; tuttavia si deve sperare che avverrà, e questa è una speranza che non si sperimenta. Parlando di essa l’Apostolo dice: Una speranza che si sperimenta non è speranza 101. Ma non si deve disperare della saggezza che anche in questa vita è stata concessa ai credenti figli di Dio. Ed essa comporta che fuggiamo con prudentissima attenzione quel che dietro rivelazione del Signore capiremo di dover fuggire e che perseguiamo con ardentissima carità quel che dietro rivelazione del Signore capiremo di dover perseguire. Così infatti deposto con la morte stessa il rimanente peso di questa soggezione alla morte, da parte di ogni componente dell’uomo al tempo opportuno sarà realizzata come fine la felicità, che è incominciata in questa vita e che per raggiungere definitivamente in seguito è impiegato attualmente ogni sforzo.

Anagogia delle tre prime richieste...

10. 36. Ma si deve considerare e discutere le differenze delle sette richieste. La nostra vita dunque si svolge attualmente nel tempo e si spera che sia eterna; inoltre i valori eterni sono anteriori per dignità, sebbene si passa ad essi dopo aver posto in atto quelli nel tempo. Quindi il conseguimento delle tre prime richieste hanno inizio in questa vita che si svolge nel tempo; difatti la santificazione del nome di Dio ha cominciato a porsi in atto dalla venuta del Signore nella nostra umiltà; e la venuta del suo regno, in cui egli dovrà venire nello splendore, non si manifesterà dopo la fine ma alla fine del tempo; e il compimento della sua volontà come in cielo così in terra, sia che per cielo e terra intendi i virtuosi e i peccatori, o lo spirito e la carne, o il Signore e la Chiesa, o tutti insieme, si otterrà con il compimento della nostra felicità e quindi alla fine del tempo; tuttavia tutte e tre queste manifestazioni del Signore rimarranno in eterno. Difatti la santificazione del nome di Dio è eterna, il suo regno non avrà fine ed è promessa la vita eterna per la nostra perfetta felicità. Rimarranno quindi queste tre manifestazioni unite nel pieno compimento nella vita che ci è promessa.

...e delle altre quattro.

10. 37. A me sembra che le altre quattro richieste appartengono alla vita nel tempo. La prima è: Dacci oggi il nostro pane quotidiano 102. Per il fatto che è stato definito come pane quotidiano, sia che venga indicato il pane spirituale o quello nel sacramento o questo visibile del nutrimento, appartiene al tempo che ha chiamato l’oggi, non perché il cibo spirituale non è eterno, ma perché questo pane, che nella Scrittura è stato considerato quotidiano, viene mostrato all’anima tanto col suono delle parole come con i vari segni che si susseguono nel tempo. Ma tutte queste cose certamente non vi saranno più, quando tutti potranno essere ammaestrati da Dio e non esprimeranno l’ineffabile luce della verità con un movimento del corpo, ma l’attingeranno con un puro atto del pensiero. E probabilmente è stato considerato pane e non bevanda poiché il pane spezzandolo e masticandolo si muta in alimento, come i libri della Scrittura nutrono l’anima leggendoli e meditandoli; la bevanda al contrario sorseggiata, così com’è, passa nel corpo, sicché nel tempo la verità è pane, poiché è considerata pane quotidiano, nell’eternità invece è bevanda, perché non vi sarà bisogno del discutere e dialogare sul tipo dello spezzare e masticare, ma soltanto del sorso dell’autentica ed evidente verità. Nel tempo i peccati ci son rimessi e li rimettiamo e questa è la seconda delle altre quattro richieste. Nell’eternità non vi sarà perdono dei peccati perché non ci saranno peccati. E le tentazioni travagliano questa vita posta nel tempo; non vi saranno più, quando si avvererà quel pensiero: Li nasconderai nel segreto del tuo volto 103. E il male, da cui desideriamo di essere liberati, ed anche la liberazione dal male appartengono a questa vita che per la giustizia di Dio abbiamo meritato soggetta a morire e da cui per la sua misericordia saremo liberati.

Confronto fra le invocazioni e i doni dello Spirito.

11. 38. A me sembra anche che il numero sette di richieste corrisponda al numero sette, da cui è derivato tutto il discorso. Se infatti è timore di Dio quello con cui sono beati i poveri in spirito, poiché di essi è il regno dei cieli, chiediamo che negli uomini sia santificato il nome di Dio nel genuino timore che permane per sempre 104. Se pietà è quella con cui sono beati i miti, perché essi avranno in eredità la vita eterna, chiediamo che venga il regno di Dio tanto in noi stessi, affinché diventiamo miti e non resistiamo a lui, come nello splendore della venuta del Signore dal cielo alla terra, di cui noi godremo e conseguiremo la gloria, perché egli dice: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete il regno che vi è stato promesso fin dall’origine del mondo 105. Nel Signore infatti, dice il profeta, si glorierà la mia anima; ascoltino i miti e si rallegrino 106. Se è scienza, per cui sono beati quelli che piangono perché saranno consolati, preghiamo affinché sia fatta la sua volontà come in cielo così in terra perché non piangeremo più, quando con la definitiva pace dell’alto il corpo, in quanto terra, sarà in armonia con lo spirito in quanto cielo; infatti v’è nel tempo motivo di afflizione solo quando corpo e spirito si urtano fra di sé e ci costringono a dire: Vedo nelle mie membra un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente 107; e a confessare la nostra afflizione con voce di pianto: Me infelice, chi mi libererà da questo corpo di morte? 108 Se è fortezza quella di cui sono beati coloro che hanno fame e sete della virtù perché saranno saziati, preghiamo che ci sia dato oggi il nostro pane quotidiano, affinché da esso sorretti e sostentati possiamo giungere alla piena sazietà. Se è consiglio quello per cui sono beati i misericordiosi perché di essi si avrà misericordia, rimettiamo i debiti ai nostri debitori e preghiamo che a noi siano rimessi i nostri. Se è intelletto quello di cui sono beati i puri di cuore perché vedranno Dio, preghiamo di non essere indotti in tentazione, affinché non abbiamo un cuore doppio non ordinandoci al vero bene a cui riferire tutte le nostre azioni, ma perseguendo insieme i beni del tempo e dell’eternità. Infatti le tentazioni provenienti dalle cose, che sembrano agli uomini opprimenti e dannose, non hanno potere su di noi, se non lo hanno quelle che avvengono dalle lusinghe di quelle cose che gli uomini ritengono buone e fonti di gioia. Se è sapienza quella per cui sono beati gli operatori di pace, perché saranno considerati figli di Dio, preghiamo di essere liberati dal male, perché tale liberazione ci renderà liberi, cioè figli di Dio, affinché con lo spirito di adozione invochiamo: Abba, Padre.

Prevalenza della remissione dei peccati.

11. 39. Senza dubbio non si deve per trascuranza omettere che fra tutte le clausole con cui il Signore ci ha ordinato di pregare, ha giudicato di dover raccomandare soprattutto quella che attiene alla remissione dei peccati, perché in essa ha voluto che fossimo misericordiosi, unica decisione per sfuggire alle miserie della vita. In nessuna altra clausola preghiamo in modo da stipulare quasi un accordo con Dio; diciamo infatti: Rimetti a noi come anche noi rimettiamo. E se in questo accordo mentiamo, non v’è alcun significato di tutta la preghiera. Egli dice appunto: Se infatti rimetterete agli uomini i loro peccati, anche il Padre vostro che è nei cieli li rimetterà a voi. Se invece non rimetterete agli uomini, neanche il Padre vostro rimetterà a voi le vostre colpe 109.

Segretezza del digiuno.

12. 40. Segue il comando sul digiuno che riguarda anche esso la purificazione del cuore, di cui si tratta in questo brano. Anche in questo impegno si deve evitare che s’insinuino l’ostentazione e il desiderio della lode umana che infetta di doppiezza il cuore e non permette che sia puro e schietto a intendere Dio. Dice: Quando digiunate, non diventate tristi come gli ipocriti che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico, hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece quando voi digiunate, profumatevi la testa e lavatevi il viso per non far vedere agli uomini che digiunate, ma al Padre vostro che è nel segreto; e il Padre vostro, che vede nel segreto, vi ricompenserà 110. È evidente che con questi comandi ogni nostra intenzione è diretta alle gioie interiori, per non conformarci al mondo cercando la ricompensa al di fuori e per non perdere la promessa di una felicità tanto più compiuta e stabile, quanto più intima, con la quale Dio ci ha scelto a divenire conformi all’immagine del Figlio suo.

Ostentazione anche nell’abito negletto.

12. 41. Nel brano citato si deve soprattutto notare che non soltanto nella magnificenza e sfarzo delle cose sensibili, ma anche nel desolato sudiciume degli abiti vi può essere la millanteria, e tanto più dannosa in quanto inganna col pretesto del servizio a Dio. Chi dunque si distingue per una smodata raffinatezza dell’acconciatura e dell’abbigliamento e per la magnificenza delle altre cose è incolpato dalla realtà stessa di essere seguace degli sfarzi del mondo e non inganna nessuno con una illusoria apparenza di santità. Se qualcuno invece, nel presentarsi come cristiano, attira lo sguardo degli uomini con l’inconsueto squallore e con gli abiti sudici, se lo fa volontariamente e non perché costretto dal bisogno, si può arguire dalle altre sue azioni se lo fa nel rifiuto di una superflua raffinatezza o per ambizione, perché il Signore ha comandato di guardarci dai lupi in pelame di pecora. Dai loro frutti, egli dice: li riconoscerete 111. Quando incominceranno con determinate tentazioni ad essere tolte o impedite quelle prerogative che con quella copertura hanno conseguito o intendono conseguire, allora è inevitabile che appaia se è un lupo col pelame di pecora o una pecora col suo. Non per questo il cristiano deve attirare lo sguardo con ornamenti superflui, perché anche gli imbroglioni spesso assumono un atteggiamento d’indispensabile riserbo per ingannare gli imprudenti, perché anche le pecore non devono deporre il proprio pelame, se talora se ne coprono i lupi.

Pulitezza interiore.

12. 42. È abituale porsi il problema che cosa significhino le parole: Invece voi, quando digiunate, profumatevi il capo e lavatevi il viso per non far vedere alla gente che digiunate 112. Difatti, sebbene abitualmente ogni giorno ci laviamo il viso, non si potrebbe ragionevolmente comandare che dobbiamo stare col capo profumato quando digiuniamo. E se tutti ammettono che la faccenda è molto sconveniente, si deve intendere che l’ingiunzione di profumarsi il capo e di lavarsi il viso è relativa all’uomo interiore. Quindi il profumarsi il capo è relativo alla gioia e il lavarsi il viso alla pulizia e perciò si profuma chi gioisce nell’interiorità con un atto del pensiero. Per questo convenientemente intendiamo per capo la facoltà che domina nell’anima, dalla quale è evidente che le altre sono dirette e regolate. E compie questa opera chi non cerca la gioia all’esterno per godere carnalmente delle lodi della gente. La carne infatti, poiché deve essere sottomessa, non può assolutamente essere il capo di tutto l’essere umano. Nessuno ha avuto in odio la propria carne 113, dice l’Apostolo quando ingiunge che si deve amare la moglie, ma capo della donna è l’uomo e capo dell’uomo è Cristo 114. Colui dunque, che secondo questo comando desidera avere il capo profumato, goda nell’interiorità durante il suo digiuno, per il fatto stesso che così digiunando si distoglie dai piaceri del mondo per essere sottomesso a Cristo. Così laverà anche il viso, cioè renderà pulito il cuore, con cui vedrà Dio, poiché non si verifica l’offuscamento per la precarietà proveniente dalle sozzure, ma egli sarà sicuro e stabile, perché pulito e schietto. Lavatevi, dice Isaia, purificatevi, togliete la cattiveria dalla vostra coscienza e dalla mia vista 115. Quindi il nostro viso si deve lavare da quelle sozzure, da cui è offeso lo sguardo di Dio. Difatti noi a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine 116.

Generosità interiore.

12. 43. Spesso anche il pensiero dei bisogni relativi a questa vita ferisce e insudicia l’occhio interiore e generalmente offende di doppiezza il cuore. Così quello che all’apparenza operiamo con bontà nel rapporto con gli altri, non lo operiamo con quel sentimento che il Signore ha voluto, cioè non perché li amiamo, ma perché vogliamo raggiungere per loro mezzo un certo profitto per il bisogno della vita presente. Dobbiamo invece fare del bene ad essi per la loro eterna salvezza e non per un temporaneo profitto. Pieghi dunque Dio il nostro cuore ai suoi insegnamenti e non verso la sete di guadagno 117. Infatti fine di questo comando è la carità che proviene da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera 118. Chi invece provvede a un fratello a causa d’un proprio bisogno proveniente da questa vita, non provvede certamente in base alla carità, perché non provvede a lui che deve amare come se stesso, ma provvede a sé, o meglio neanche a sé, poiché in questo modo rende doppio il proprio cuore, dal quale è impedito di vedere Dio, sebbene solamente con questa visione si consegue la felicità certa e perenne.

Il nostro tesoro è nel cielo.

13. 44. Quindi egli che insiste per rendere pulito il nostro cuore continua coerentemente e ordina dicendo: Non accumulate tesori sulla terra, dove la tignuola e il bisogno di mangiare li dilapidano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né la tignuola né il bisogno di mangiare dilapidano e dove i ladri non scassinano e non rubano. Dove è infatti il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore 119. Dunque se il cuore è sulla terra, cioè se uno con cuore simile compie un’azione per raggiungere un profitto sulla terra, come sarà pulito se si avvoltola per terra? Se invece agisce in cielo, sarà pulito perché sono puliti tutti gli esseri del cielo. Si deturpa infatti una cosa quando si mescola a un’altra di qualità inferiore, sebbene nel suo genere non sia turpe, perché anche dall’argento puro viene deturpato l’oro se si amalgamano. Così la nostra anima spirituale è deturpata dalla avidità delle cose della terra, sebbene la terra nel suo genere e ordine sia bella. In questo senso vorrei intendere il cielo non visibile, perché ogni corpo si deve considerare terra. Infatti deve sottovalutare tutto il mondo chi si accumula un tesoro in cielo, quindi in quel cielo, di cui è detto: Il cielo del cielo al Signore 120, ossia nel firmamento dello spirito. Infatti non dobbiamo destinare e stabilire il nostro tesoro e il nostro cuore in quel cielo che passerà, ma in quello che rimane per sempre, perché cielo e terra passeranno 121.

L’occhio simbolo dell’intenzione.

13. 45. E nel discorso rivela che ha impartito tutti questi ammaestramenti per la purificazione del cuore, quando dice: La lucerna del tuo corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grandi saranno le tenebre? 122 Il passo si deve interpretare in modo da farci comprendere che tutte le nostre azioni sono oneste e gradite alla presenza di Dio, se sono compiute col cuore schietto, ossia con l’intenzione verso l’alto nella finalità dell’amore perché pieno compimento della Legge è la carità 123. Per occhio nel passo dobbiamo ravvisare l’intenzione stessa con cui facciamo tutto ciò che facciamo. E se essa sarà pura e retta e volta a raggiungere quel fine che si deve raggiungere, è indispensabile che siano buone tutte le nostre azioni che compiamo in riferimento ad essa. E il Signore ha considerato l’intero corpo tutte queste azioni, nel senso con cui anche l’Apostolo afferma che sono nostre membra alcune azioni che egli condanna e che ingiunge di mortificare dicendo: Mortificate dunque le vostre membra che sono secondo la terra: fornicazione, impurità, avarizia e le altre simili 124.

L’intenzione è luce dell’azione.

13. 46. Quindi non si deve considerare l’azione che si compie, ma con quale intento si compie. E questa disposizione è luce in noi, poiché con essa ci si evidenzia che compiamo con un buon intento quel che compiamo, poiché tutto quello che si evidenzia è luce 125. Difatti le azioni stesse, che da noi si rapportano alla società umana, hanno un risultato incerto e perciò il Signore le ha definite tenebre. Non so infatti, quando offro denaro a un povero che chiede, che cosa ne farà o che ne subirà; e può avvenire che con esso faccia o da esso subisca un male che io, nel dare, non ho voluto che si verificasse perché non ho dato con questo intento. Quindi se ho compiuto con retta intenzione un’azione che, mentre la compivo, mi era nota e quindi è considerata luce, anche la mia azione ne è illuminata, qualunque risultato abbia avuto. E questo risultato, appunto perché incerto e sconosciuto, è stato considerato tenebre. Se poi ho agito con cattiva intenzione, anche la luce stessa è tenebre. Si considera luce perché si è coscienti con quale intenzione si agisce, anche se si agisce con cattiva intenzione. Ma la luce stessa è tenebre, perché la schietta intenzione non si volge all’alto, ma devia al basso e per la doppiezza del cuore quasi diffonde ombra. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grandi saranno le tenebre? 126 Se l’intenzione del cuore, con cui fai quel che fai e ti è nota, si deturpa e acceca nell’avidità delle cose della terra e del tempo, a più forte ragione si deturpa e si rende oscura l’azione, anche se n’è incerto il risultato. Difatti anche se giova all’altro quel che tu fai senza retta e pura intenzione, ti sarà addebitato come hai agito e non come ha giovato a lui.

Non servire a due padroni.

14. 47. L’inciso che segue: Nessuno può servire a due padroni è anche esso relativo alla suddetta intenzione e lo spiega di seguito con le parole: Infatti o odierà l’uno e amerà l’altro, o sopporterà l’uno e disprezzerà l’altro. Sono parole che si devono esaminare attentamente. Difatti di seguito espone chi siano i due padroni, quando afferma: Non potete servire Dio e mammona 127. Si dice che in ebraico la ricchezza si chiama mammona 128. S’accorda anche il termine cartaginese, poiché il guadagno in cartaginese è mammon. Ma chi è schiavo della mammona, è schiavo di colui che, a causa della sua perversità posto a capo delle cose terrene, è definito dal Signore principe di questo mondo 129. Dunque l’uomo o avrà in odio l’uno e amerà l’altro, cioè Dio, o sopporterà l’uno e disprezzerà l’altro. Sopporta un padrone spietato e malefico chi è schiavo della mammona. Infatti avvinto dalla propria passione si assoggetta al diavolo e non lo ama, perché nessuno ama il diavolo, ma lo sopporta. Allo stesso modo in una casa con inquilini uno che si è unito con la schiava di un altro tollera, a causa della sua passione, una dura schiavitù, sebbene non ami colui del quale ama la schiava.

Schietta soggezione a Dio.

14. 48. Disprezzerà l’altro, ha detto il Signore, e non ha detto: Odierà. Di quasi nessuno infatti la coscienza può odiare Dio, ma lo disprezza, cioè non lo teme, quando, per così dire, è tranquillo sulla sua bontà. Da questa noncuranza e pericolosa tranquillità ci dissuade lo Spirito Santo quando per mezzo del profeta afferma: Figlio, non aggiungere peccato a peccato e non dire: La misericordia di Dio è grande, perché non capisci che la clemenza di Dio ti invita al pentimento 130. Di chi infatti è possibile richiamare al nostro pensiero la grande misericordia se non di colui che perdona tutti i peccati ai convertiti e rende l’olivo selvatico partecipe della untuosità dell’olivo? E di chi è così grande la severità se non di colui che non ha perdonato i rami naturali, ma per la mancanza di fede li ha recisi 131? Ma chiunque vuole amare Dio ed evitare di offenderlo non s’illuda di poter servire a due padroni e sgombri la retta intenzione del suo cuore da ogni doppiezza. Così avrà una idea del Signore nella bontà e lo cercherà nella semplicità del cuore.

Eccessiva attenzione alle cose del mondo.

15. 49. Quindi, continua il Signore, vi dico di non avere ansietà per la vostra vita di quel che mangerete né per il corpo di quel che indosserete 132, affinché, anche se non si esigono più le cose superflue, il cuore non sia nella doppiezza per le necessarie e per procacciarsele si perverta la nostra intenzione. Questo affinché, quando compiamo qualche azione apparentemente per compassione, ossia quando vogliamo che appaia il nostro interesse per l’altro, con quell’azione non intendiamo piuttosto il nostro profitto che il giovamento dell’altro e che perciò ci sembra di non peccare, perché non sono superflui ma necessari i vantaggi che vogliamo conseguire. Ma il Signore ci esorta a ricordare che Dio, per il fatto che ci ha creato e composto di anima e di corpo, ci ha dato molto di più di quel che sono il cibo e il vestito, perché non vuole che nella premura per essi noi guastiamo il cuore di doppiezza. La vita, dice egli, non vale forse più del cibo? affinché tu comprenda che chi ha dato la vita molto più facilmente darà il cibo; e il corpo più del vestito? 133, cioè vale di più, affinché tu ugualmente comprenda che chi ha dato il corpo molto più facilmente darà il vestito.

Per anima s’intende la vita.

15. 50. A questo punto abitualmente si pone il problema se questo cibo è relativo all’anima, perché l’anima è immateriale e il cibo materiale. Ma sappiamo che anima nel brano è usata in luogo di vita, il cui mantenimento è il cibo materiale. Con questo significato si ha anche la frase: Chi ama la propria anima la perderà 134. Che se non la interpreteremo in relazione alla vita presente che bisogna perdere per il regno di Dio, ed è evidente che i martiri lo han potuto, questo insegnamento sarebbe contrario alla massima con cui si afferma: Che cosa giova all’uomo, se guadagna tutto il mondo e poi subisce la perdita della propria anima? 135.

Non ansia per il cibo...

15. 51. Guardate, continua, gli uccelli del cielo, poiché non seminano né mietono né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non siete voi forse più di loro 136, cioè non avete voi più valore? Difatti senza dubbio l’animale ragionevole, come è l’uomo, è costituito in un ordine più alto degli animali irragionevoli, come sono gli uccelli. Chi di voi, soggiunge, per quanto si dia da fare, può aggiungere alla sua statura un solo cubito? E perché siete ansiosi per il vestito? 137, cioè: il vostro corpo può essere rivestito dalla provvidenza di colui per il cui assoluto potere è avvenuto che fosse condotto alla statura attuale. E che non per il vostro impegno è avvenuto che giungesse a questa statura il vostro corpo si può dedurre dal fatto che se v’impegnate e volete aggiungere un solo cubito a questa statura, non ci riuscite. Lasciate quindi a lui anche l’impegno di coprire il corpo, perché notate che per il suo impegno è avvenuto che abbiate il corpo con tale statura.

...e neanche per il vestito.