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«A chi rimetterete»

29. Il primo dato fondamentale ci è offerto dai libri santi dell'Antico e del Nuovo Testamento riguardo alla misericordia del Signore e al suo perdono. Nei salmi e nella predicazione dei profeti il nome di misericordioso è forse quello che più spesso viene attribuito al Signore, contrariamente al persistente cliché, secondo il quale il Dio dell'Antico Testamento viene presentato soprattutto come severo e punitivo. Così, fra i salmi, un lungo discorso sapienziale, attingendo alla tradizione dell'Esodo, rievoca l'azione benefica di Dio in mezzo al suo popolo. Tale azione, pur nella sua rappresentazione antropomorfica, è forse una delle più eloquenti proclamazioni veterotestamentarie della misericordia divina. Basti qui riportare il versetto: «Ed egli, pietoso, perdonava la colpa, li perdonava invece di distruggerli. Molte volte placò la sua ira e trattenne il suo furore, ricordando che essi sono carne, un soffio che va e non ritorna» (Sal 78,38s).

Nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio, venendo come l'Agnello che toglie e porta su di sé il peccato del mondo, appare come colui che ha il potere sia di giudicare sia di perdonare i peccati, e che è venuto non per condannare, ma per perdonare e salvare.

Ora, questo potere di rimettere i peccati Gesù lo conferisce, mediante lo Spirito Santo, a semplici uomini, soggetti essi stessi all'insidia del peccato, cioè ai suoi apostoli: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv20,22; Mt 18,18). E', questa, una delle più formidabili novità evangeliche! Egli conferisce tale potere agli apostoli anche come trasmissibile - così lo ha inteso la Chiesa sin dai suoi primi albori - ai loro successori, investiti dagli stessi apostoli della missione e della responsabilità di continuare la loro opera di annunciatori del Vangelo e di ministri dell'opera redentrice di Cristo.

Qui si rivela in tutta la sua grandezza la figura del ministro del sacramento della penitenza, chiamato, per antichissima consuetudine, il confessore.

Come all'altare dove celebra l'eucaristia e come in ciascuno dei sacramenti, il sacerdote, ministro della penitenza, opera «in persona Christi». Il Cristo, che da lui è reso presente e che per suo mezzo attua il mistero della remissione dei peccati, è colui che appare come fratello dell'uomo, pontefice misericordioso, fedele e compassionevole, pastore deciso a cercare la pecora smarrita, medico che guarisce e conforta, maestro unico che insegna la verità e indica le vie di Dio, giudice dei vivi e dei morti, che giudica secondo la verità e non secondo le apparenze.

Questo è, senza dubbio, il più difficile e delicato, il più faticoso ed esigente, ma anche uno dei più belli e consolanti ministeri del sacerdote, e proprio per questo, attento anche al forte richiamo del Sinodo, non mi stancherò mai di richiamare i miei fratelli, vescovi e presbiteri, al suo fedele e diligente adempimento. Di fronte alla coscienza del fedele, che a lui si apre con un misto di trepidazione e di fiducia, il confessore è chiamato a un alto compito che è servizio alla penitenza e alla riconciliazione umana: conoscere di quel fedele le debolezze e cadute, valutarne il desiderio di ripresa e gli sforzi per ottenerla, discernere l'azione dello Spirito santificatore nel suo cuore, comunicargli un perdono che solo Dio può concedere, «celebrare» la sua riconciliazione col Padre raffigurata nella parabola del figlio prodigo, reinserire quel peccatore riscattato nella comunione ecclesiale con i fratelli, ammonire paternamente quel penitente con un fermo, incoraggiante e amichevole «D'ora in poi non peccare più» (Gv 8,11).

Per l'efficace adempimento di tale ministero, il confessore deve avere necessariamente qualità umane di prudenza, discrezione, discernimento, fermezza temperata da mansuetudine e bontà. Egli deve avere, altresì, una seria e accurata preparazione, non frammentaria ma integrale e armonica, nelle diverse branche della teologia, nella pedagogia e nella psicologia, nella metodologia del dialogo e, soprattutto, nella conoscenza viva e comunicativa della parola di Dio. Ma ancora più necessario è che egli viva una vita spirituale intensa e genuina. Per condurre altri sulla via della perfezione cristiana il ministro della penitenza deve percorrere egli stesso, per primo, questa via e, più con gli atti che con abbondanti discorsi, dar prova di reale esperienza dell'orazione vissuta, di pratica delle virtù evangeliche teologali e morali, di fedele obbedienza alla volontà di Dio, di amore alla Chiesa e di docilità al suo magistero.

Tutto questo corredo di doti umane, di virtù cristiane e di capacità pastorali non si improvvisa né si acquista senza sforzo. Per il ministero della penitenza sacramentale ogni sacerdote deve essere preparato già dagli anni del seminario, insieme con lo studio della teologia dogmatica, morale, spirituale e pastorale (che son sempre una sola teologia), con le scienze dell'uomo, la metodologia del dialogo e, specialmente, del colloquio pastorale. Egli dovrà poi essere avviato e sostenuto nelle prime esperienze. Dovrà sempre curare il proprio perfezionamento e aggiornamento con lo studio permanente. Quale tesoro di grazia, di vita vera e di spirituale irradiazione non verrebbe alla Chiesa, se ciascun sacerdote si mostrasse premuroso di non mancare mai, per negligenza o pretesti vari, all'appuntamento con i fedeli al confessionale, e fosse ancor più premuroso di non andarvi mai impreparato, o privo delle indispensabili qualità umane e delle condizioni spirituali e pastorali!

A questo proposito non posso non evocare con devota ammirazione le figure di straordinari apostoli del confessionale, quali san Giovanni Nepomuceno, san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso e san Leopoldo da Castelnuovo, per parlare di quelli più noti che la Chiesa ha iscritto nell'albo dei suoi santi. Ma io desidero rendere omaggio anche all'innumerevole schiera di confessori santi e quasi sempre anonimi, ai quali è dovuta la salvezza di tante anime, da loro aiutate nella conversione, nella lotta contro il peccato e le tentazioni, nel progresso spirituale e, in definitiva, nella santificazione. Non esito a dire che anche i grandi santi canonizzati sono generalmente usciti da quei confessionali e, con i santi, il patrimonio spirituale della Chiesa e la stessa fioritura di una civiltà, permeata di spirito cristiano! Onore, dunque, a questo silenzioso esercito di nostri confratelli, che hanno ben servito e servono ogni giorno la causa della riconciliazione mediante il ministero della penitenza sacramentale.

Il Sacramento del perdono

30. Dalla rivelazione del valore di questo ministero e del potere di rimettere i peccati, da Cristo conferito agli apostoli e ai loro successori, si è sviluppata nella Chiesa la coscienza del segno del perdono, conferito mediante il sacramento della penitenza. La certezza, cioè, che lo stesso Signore Gesù ha istituito e affidato alla Chiesa - quale dono della sua benignità e della sua «filantropia», da offrire a tutti - uno speciale sacramento per la remissione dei peccati commessi dopo il battesimo.

La pratica di questo sacramento, per quanto riguarda la sua celebrazione e la sua forma, ha conosciuto un lungo processo di sviluppo, come attestano i più antichi sacramentari, gli atti di concili e di sinodi episcopali, la predicazione dei padri e l'insegnamento dei dottori della Chiesa. Ma circa la sostanza del sacramento è rimasta sempre solida e immutata nella coscienza della Chiesa la certezza che, per volontà di Cristo, il perdono è offerto a ciascuno per mezzo dell'assoluzione sacramentale, data dai ministri della penitenza: è certezza riaffermata con particolare vigore sia dal Concilio di Trento, che dal Concilio Vaticano II: «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e, nello stesso tempo, la riconciliazione con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato: la Chiesa che coopera alla loro conversione con la carità, con l'esempio e la preghiera» («Lumen Gentium», 11). E come dato essenziale di fede sul valore e lo scopo della penitenza si deve riaffermare che il nostro salvatore Gesù Cristo istituì nella sua Chiesa il sacramento della penitenza, perché i fedeli caduti in peccato dopo il battesimo ricevessero la grazia e si riconciliassero con Dio.

La fede della Chiesa in questo sacramento comporta alcune altre verità fondamentali, che sono ineludibili. Il rito sacramentale della penitenza, nella sua evoluzione e variazione di forme pratiche, ha sempre conservato e messo in luce queste verità. Il Concilio Vaticano II, nel prescrivere la riforma di questo rito, intendeva far sì che esso esprimesse ancor più chiaramente tali verità, e ciò è avvenuto nel nuovo «Rito della penitenza». Questo, infatti, ha assunto nella sua integrità la dottrina della tradizione raccolta dal Concilio Tridentino, trasferendola dal suo particolare contesto storico (quello di un deciso sforzo di chiarimento dottrinale di fronte alle gravi deviazioni dal genuino insegnamento della Chiesa) per tradurla fedelmente in termini più aderenti al contesto del nostro tempo.

Alcune convinzioni fondamentali

31. Le menzionate verità, ribadite con forza e chiarezza dal Sinodo e presenti nelle «Propositiones», possono riassumersi nelle seguenti convinzioni di fede, intorno alle quali si raccolgono tutte le altre affermazioni della dottrina cattolica sul sacramento della penitenza.

I. La prima convinzione è che, per un cristiano, il sacramento della penitenza è la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il battesimo. Certo, il Salvatore e la sua azione salvifica non sono così legati ad un segno sacramentale, da non potere in qualsiasi tempo e settore della storia della salvezza operare al di fuori e al di sopra dei sacramenti. Ma alla scuola della fede noi apprendiamo che il medesimo Salvatore ha voluto e disposto che gli umili e preziosi sacramenti della fede siano ordinariamente i mezzi efficaci, per i quali passa e opera la sua potenza redentrice. Sarebbe dunque insensato, oltreché presuntuoso, voler prescindere arbitrariamente dagli strumenti di grazia e di salvezza che il Signore ha disposto e, nel caso specifico, pretendere di ricevere il perdono facendo a meno del sacramento, istituito da Cristo proprio per il perdono. Il rinnovamento dei riti, attuato dopo il Concilio, non autorizza alcuna illusione e alterazione in questa direzione. Esso doveva e deve servire, secondo l'intenzione della Chiesa, a suscitare in ciascuno di noi un nuovo slancio verso il rinnovamento del nostro atteggiamento interiore, cioè verso una comprensione più profonda della natura del sacramento della penitenza; verso un'accoglienza di esso più nutrita di fede, non ansiosa ma fiduciosa; verso una maggiore frequenza del sacramento, che si riconosce tutto pervaso dall'amore misericordioso del Signore.

II. La seconda convinzione riguarda la funzione del sacramento della penitenza per colui che vi ricorre. Esso è, secondo la più antica tradizionale concezione, una specie di azione giudiziaria; ma questa si svolge presso un tribunale di misericordia, più che di stretta e rigorosa giustizia, il quale non è paragonabile che per analogia ai tribunali umani, cioè in quanto il peccatore vi svela i suoi peccati e la sua condizione di creatura soggetta al peccato; si impegna a rinunciare e a combattere il peccato; accetta la pena (penitenza sacramentale) che il confessore gli impone e ne riceve l'assoluzione. Ma, riflettendo sulla funzione di questo sacramento, la coscienza della Chiesa vi scorge, oltre il carattere di giudizio nel senso accennato, un carattere terapeutico o medicinale. E questo si ricollega al fatto che è frequente nel Vangelo la presentazione di Cristo come medico, mentre la sua opera redentrice viene spesso chiamata, sin dall'antichità cristiana, «medicina salutis». «Io voglio curare, non accusare», diceva sant'Agostino riferendosi all'esercizio della pastorale penitenziale, ed è grazie alla medicina della confessione che l'esperienza del peccato non degenera in disperazione. Il «Rito della penitenza» allude a questo aspetto medicinale del sacramento, al quale l'uomo contemporaneo è forse più sensibile, vedendo nel peccato, sì, ciò che comporta di errore, ma ancor più ciò che dimostra in ordine alla debolezza e infermità umana. Tribunale di misericordia o luogo di guarigione spirituale, sotto entrambi gli aspetti, il sacramento esige una conoscenza dell'intimo del peccatore, per poterlo giudicare edassolvere, per curarlo e guarirlo. E proprio per questo esso implica, da parte del penitente, l'accusa sincera e completa dei peccati, che ha pertanto una ragion d'essere non solo ispirata da fini ascetici (quale esercizio di umiltà e di mortificazione), ma inerente alla natura stessa del sacramento.

III. La terza convinzione, che tengo ad accentuare, riguarda le realtà o parti, che compongono il segno sacramentale del perdono e della riconciliazione. Alcune di queste realtà sono atti del penitente, di diversa importanza, ciascuno però indispensabile o alla validità, o all'integrità, o alla fruttuosità del segno. Una condizione indispensabile è, innanzitutto, la rettitudine e la limpidezza della coscienza del penitente. Un uomo non si avvia ad una vera e genuina penitenza, finché non scorge che il peccato contrasta con la norma etica, iscritta nell'intimo del proprio essere; finché non riconosce di aver fatto l'esperienza personale e responsabile di un tale contrasto; finché non dice non soltanto «il peccato c'è», ma «io ho peccato»; finché non ammette che il peccato ha introdotto nella sua coscienza una divisione, che pervade poi tutto il suo essere e lo separa da Dio e dai fratelli. Il segno sacramentale di questa limpidezza della coscienza è l'atto tradizionalmente chiamato esame di coscienza, atto che deve esser sempre non già un'ansiosa introspezione psicologica, ma il confronto sincero e sereno con la legge morale interiore, con le norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo Gesù, che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci chiama al bene e alla perfezione.

Ma l'atto essenziale della penitenza, da parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro e deciso ripudio del peccato commesso insieme col proposito di non tornare a commetterlo, per l'amore che si porta a Dio e che rinasce col pentimento. Così intesa, la contrizione è, dunque, il principio e l'anima della conversione, di quella «metanoia» evangelica che riporta l'uomo a Dio come il figlio prodigo che ritorna al padre, e che ha nel sacramento della penitenza il suo segno visibile, perfezionativo della stessa attrizione. Perciò, «da questa contrizione del cuore dipende la verità della penitenza» («Ordo Paenitentiae», 6c).

Rimandando a tutto quanto la Chiesa, ispirata dalla parola di Dio, insegna circa la contrizione, mi preme qui sottolineare un solo aspetto di tale dottrina, che va meglio conosciuto e tenuto presente. Non di rado si considerano la conversione e la contrizione sotto il profilo delle innegabili esigenze, che esse comportano, e della mortificazione che esse impongono in vista di un radicale cambiamento di vita. Ma è bene ricordare e rilevare che contrizione e conversione sono ancor più un avvicinamento alla santità di Dio, un ritrovare la propria verità interiore, turbata e sconvolta dal peccato, un liberarsi nel più profondo di se stessi e, per questo, un riacquistare la gioia perduta, la gioia di essere salvati, che la maggioranza degli uomini del nostro tempo non sa più gustare.

Si comprende, perciò, come fin dai primi tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con Cristo, la Chiesa abbia incluso nel segno sacramentale della penitenza l'accusa dei peccati. Questa appare così rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il quale deve conoscere lo stato dell'infermo per curarlo e guarirlo. Ma la confessione individuale ha anche il valore di segno: segno dell'incontro del peccatore con la mediazione ecclesiale nella persona del ministro; segno del suo scoprirsi al cospetto di Dio e della Chiesa come peccatore, del suo chiarirsi a se stesso sotto lo sguardo di Dio. L'accusa dei peccati, dunque, non è riducibile ad un qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche se corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno, che è insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella sua drammaticità, umile e sobrio nella grandezza del suo significato. E' il gesto del figlio prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da lui col bacio della pace; gesto di lealtà e di coraggio; gesto di affidamento di se stessi, al di là del peccato, alla misericordia che perdona. Si capisce allora perché l'accusa dei peccati deve essere ordinariamente individuale e non collettiva, come il peccato è un fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e, quindi, dall'ambito della pura individualità, mettendo in risalto anche il suo carattere sociale, perché mediante il ministro della penitenza è la comunità ecclesiale, lesa dal peccato, che accoglie di nuovo il peccatore pentito e perdonato.

L'altro momento essenziale del sacramento della penitenza compete questa volta al confessore giudice e medico, immagine di Dio Padre che accoglie e perdona colui che ritorna: è l'assoluzione. Le parole che la esprimono e i gesti che la accompagnano nell'antico e nel nuovo «Rito della penitenza» rivestono una significativa semplicità nella loro grandezza. La formula sacramentale: «Io ti assolvo...», l'imposizione della mano e il segno della croce, tracciato sul penitente, manifestano che in quel momento il peccatore contrito e convertito entra in contatto con la potenza e la misericordia di Dio. E' il momento nel quale, in risposta al penitente, la Trinità si fa presente per cancellare il suo peccato e restituirgli l'innocenza, e la forza salvifica della passione, morte e risurrezione di Gesù è comunicata al medesimo penitente, quale «misericordia più forte della colpa e dell'offesa», come ebbi a definirla nell'enciclica «Dives in Misericordia». Dio è sempre il principale offeso dal peccato - «tibi soli peccavi!» -, e solo Dio può perdonare. Perciò, l'assoluzione che il sacerdote, ministro del perdono, benché egli stesso peccatore, concede al penitente, è il segno efficace dell'intervento del Padre in ogni assoluzione e della «risurrezione» dalla «morte spirituale», che si rinnova ogni volta che si attua il sacramento della penitenza. Soltanto la fede può assicurare che in quel momento ogni peccato è rimesso e cancellato per il misterioso intervento del Salvatore.

La soddisfazione è l'atto finale, che corona il segno sacramentale della penitenza. In alcuni paesi ciò che il penitente perdonato e assolto accetta di compiere dopo aver ricevuto l'assoluzione, si chiama appunto penitenza. Qual è il significato di questa soddisfazione che si presta, o di questa penitenza che si compie? Non è certo il prezzo che si paga per il peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo. Le opere della soddisfazione - che, pur conservando un carattere di semplicità e umiltà, dovrebbero essere rese più espressive di tutto ciò che significano - vogliono dire alcune cose preziose: esse sono il segno dell'impegno personale che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un'esistenza nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione); includono l'idea che il peccatore perdonato è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione di Gesù che gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l'assoluzione rimane nel cristiano una zona d'ombra, dovuta alle ferite del peccato, all'imperfezione dell'amore nel pentimento, all'indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza. Tale è il significato dell'umile, ma sincera soddisfazione.

IV. Resta da fare un breve accenno ad altre importanti convinzioni circa il sacramento della penitenza. Anzitutto, bisogna ribadire che nulla è più personale e intimo di questo sacramento, nel quale il peccatore si trova al cospetto di Dio, solo con la sua colpa, il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo posto o può chiedere perdono in suo nome. C'è una certa solitudine del peccatore nella sua colpa, che si può vedere drammaticamente rappresentata in Caino col peccato «accovacciato alla sua porta», come dice tanto efficacemente il libro della Genesi, e col particolare segno, inciso sulla sua fronte; o in Davide, rimproverato dal profeta Natan; o nel figlio prodigo, quando prende coscienza della condizione, a cui si è ridotto per la lontananza dal padre, e decide di tornare a lui: tutto ha luogo soltanto fra l'uomo e Dio. Ma, nello stesso tempo, è innegabile la dimensione sociale di questo sacramento, nel quale è l'intera Chiesa - quella militante, quella purgante e quella gloriosa del cielo - che interviene in soccorso del penitente e lo accoglie di nuovo nel suo grembo, tanto più che tutta la Chiesa era stata offesa e ferita dal suo peccato. Il sacerdote, ministro della penitenza, appare in forza del suo ufficio sacro come testimone e rappresentante di tale ecclesialità. Sono due aspetti complementari del sacramento l'individualità e l'ecclesialità, che la progressiva riforma del rito della penitenza, specialmente quella dell'«Ordo paenitentiae» promulgata da Paolo VI, ha cercato di mettere in risalto e di rendere più significativi nella sua celebrazione.

V. E' da sottolineare, poi, che il frutto più prezioso del perdono ottenuto nel sacramento della penitenza consiste nella riconciliazione con Dio, la quale avviene nel segreto del cuore del figlio prodigo e ritrovato, che è ciascun penitente. Ma bisogna aggiungere che tale riconciliazione con Dio ha come conseguenza, per così dire, altre riconciliazioni, che rimediano ad altrettante rotture, causate dal peccato: il penitente perdonato si riconcilia con se stesso nel fondo più intimo del proprio essere, in cui ricupera la propria verità interiore; si riconcilia con i fratelli, da lui in qualche modo aggrediti e lesi; si riconcilia con la Chiesa; si riconcilia con tutto il creato. Da questa consapevolezza nasce nel penitente, al termine della celebrazione, il senso della gratitudine a Dio per il dono della misericordia ottenuta, a cui lo invita la Chiesa. Ogni confessionale è uno spazio privilegiato e benedetto, dal quale, cancellate le divisioni, nasce nuovo e incontaminato un uomo riconciliato - un mondo riconciliato!

VI. Infine, mi sta particolarmente a cuore fare un'ultima considerazione, che riguarda tutti noi sacerdoti, che siamo i ministri del sacramento della penitenza, ma ne siamo pure - e dobbiamo esserne - i beneficiari. La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall'assidua e coscienziosa pratica personale del sacramento della penitenza. La celebrazione dell'eucaristia e il ministero degli altri sacramenti, lo zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la collaborazione col vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta l'esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato da autentica fede e devozione, al sacramento della penitenza. In un prete che non si confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la comunità, di cui egli è pastore.

Ma aggiungo pure che, persino per essere un buono ed efficace ministro della penitenza, il sacerdote ha bisogno di ricorrere alla sorgente di grazia e santità presente in questo sacramento. Noi sacerdoti, in base alla nostra personale esperienza, possiamo ben dire che, nella misura in cui siamo attenti a ricorrere al sacramento della penitenza e ci accostiamo ad esso con frequenza e con buone disposizioni, adempiamo meglio il nostro stesso ministero di confessori e ne assicuriamo il beneficio ai penitenti. Perderebbe, invece, molto della sua efficacia questo ministero, se in qualche modo tralasciassimo di essere buoni penitenti. Tale è la logica interna di questo grande sacramento. Esso invita noi tutti, sacerdoti di Cristo, a una rinnovata attenzione alla nostra confessione personale.

A sua volta, l'esperienza diventa e deve diventare oggi uno stimolo all'esercizio diligente, regolare, paziente, fervoroso del sacro ministero della penitenza, al quale siamo impegnati in forza del nostro sacerdozio e della nostra vocazione ad essere pastori e servitori dei nostri fratelli. Anche con la presente esortazione rivolgo, dunque, un insistente invito a tutti i sacerdoti del mondo, specialmente ai miei confratelli nell'episcopato e ai parroci, perché favoriscano con tutte le forze la frequenza dei fedeli a questo sacramento, e mettano in opera tutti i mezzi possibili e convenienti, tentino tutte le vie per far pervenire al maggior numero di nostri fratelli la «grazia che a noi è stata data» mediante la penitenza per la riconciliazione di ogni anima e di tutto il mondo con Dio, in Cristo.

Le forme della celebrazione

32. Seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II, l'«Ordo paenitentiae» ha predisposto tre riti che, salvi sempre gli elementi essenziali, permettono di adattare la celebrazione del sacramento della penitenza a determinate circostanze pastorali. La prima forma - riconciliazione dei singoli penitenti - costituisce l'unico modo normale e ordinario della celebrazione sacramentale, e non può né deve essere lasciata cadere in disuso o essere trascurata. La seconda - riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale -, anche se negli atti preparatori permette di sottolineare di più gli aspetti comunitari del sacramento, raggiunge la prima forma nell'atto sacramentale culminante, che è la confessione e l'assoluzione individuale dei peccati, e perciò può essere equiparata alla prima forma per quanto riguarda la normalità del rito. La terza, invece - riconciliazione di più penitenti con la confessione e l'assoluzione generale - riveste un carattere di eccezionalità, e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un'apposita disciplina.

La prima forma consente la valorizzazione degli aspetti più propriamente personali - ed essenziali - che son compresi nell'itinerario penitenziale. Il dialogo tra penitente e confessore, l'insieme stesso degli elementi utilizzati (i testi biblici, la scelta delle forme di «soddisfazione», ecc.) sono elementi che rendono la celebrazione sacramentale più rispondente alla concreta situazione del penitente. Si scopre il valore di tali elementi, quando si pensa alle diverse ragioni che portano un cristiano alla penitenza sacramentale: un bisogno di personale riconciliazione e riammissione all'amicizia con Dio, riacquistando la grazia perduta a causa del peccato; un bisogno di verifica del cammino spirituale e, a volte, di un più puntuale discernimento vocazionale; tante altre volte un bisogno e un desiderio di uscire da uno stato di apatia spirituale e di crisi religiosa. Grazie, poi, alla sua indole individuale la prima forma di celebrazione permette di associare il sacramento della penitenza a qualcosa di diverso, ma ben conciliabile con esso: mi riferisco alla direzione spirituale. E' certo, dunque, che la decisione e l'impegno personali sono chiaramente significati e promossi in questa prima forma.

La seconda forma di celebrazione, proprio per il suo carattere comunitario e per la modalità che la distingue, dà risalto ad alcuni aspetti di grande importanza: la parola di Dio ascoltata in comune ha un singolare effetto rispetto alla sua lettura individuale, e sottolinea meglio il carattere ecclesiale della conversione e della riconciliazione. Essa risulta particolarmente significativa nei diversi tempi dell'anno liturgico e in connessione con avvenimenti di speciale rilevanza pastorale. Basti qui solo accennare che per tale celebrazione è opportuna la presenza di un numero sufficiente di confessori.

E' naturale, pertanto, che i criteri per stabilire a quale delle due forme di celebrazione si debba ricorrere vengano dettati non da motivazioni congiunturali e soggettive, ma dalla volontà di ottenere il vero bene spirituale dei fedeli, in obbedienza alla disciplina penitenziale della Chiesa.

Sarà bene anche ricordare che, per un equilibrato orientamento spirituale e pastorale in merito, è necessario continuare ad attribuire grande valore ed educare i fedeli al ricorso al sacramento della penitenza anche solo per i peccati veniali, come attestano una tradizione dottrinale e una prassi ormai secolari.

Pur sapendo e insegnando che i peccati veniali vengono perdonati anche in altri modi - si pensi agli atti di dolore, alle opere di carità, alla preghiera, ai riti penitenziali -, la Chiesa non cessa di ricordare a tutti la singolare ricchezza del momento sacramentale anche in riferimento a tali peccati. Il ricorso frequente al sacramento - a cui sono tenute alcune categorie di fedeli - rafforza la consapevolezza che anche i peccati minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua celebrazione diventa per loro «l'occasione e lo stimolo a conformarsi più intimamente a Cristo e a rendersi più docili alla voce dello Spirito» («Ordo Paenitentiae», 7b). Soprattutto è da sottolineare il fatto che la grazia propria della celebrazione sacramentale ha una grande virtù terapeutica e contribuisce a togliere le radici stesse del peccato.

La cura dell'aspetto celebrativo, con particolare riferimento all'importanza della parola di Dio, letta, richiamata e spiegata, quando sia possibile e opportuno, ai fedeli e con i fedeli, contribuirà a vivificare la pratica del sacramento e a impedire che scada in qualcosa di formalistico e abitudinario. Il penitente sarà piuttosto aiutato a scoprire che sta vivendo un evento di salvezza, capace di infondere un nuovo slancio di vita e una vera pace nel cuore. Questa cura per la celebrazione porterà, fra l'altro, a fissare nelle singole Chiese dei tempi appositi per la celebrazione del sacramento, e a educare i fedeli, specialmente i fanciulli e i giovani, ad attenervisi in via ordinaria, salvo i casi di necessità, nei quali il pastore d'anime dovrà sempre dimostrarsi pronto ad accogliere volentieri chi ricorre a lui.

La celebrazione del sacramento con assoluzione generale

33. Nel nuovo ordinamento liturgico e, più recentemente, nel nuovo Codice di diritto canonico («Codex Iuris Canonici», can. 961-963), si precisano le condizioni che legittimano il ricorso al «rito della riconciliazione di più penitenti con la confessione e l'assoluzione generale». Le norme e gli ordinamenti dati su questo punto, frutto di matura ed equilibrata considerazione, devono essere accolti e applicati evitando ogni tipo di interpretazione arbitraria.

E' opportuno riflettere in maniera più approfondita sulle motivazioni, che impongono la celebrazione della penitenza in una delle prime due forme e consentono il ricorso alla terza forma. Vi è, anzitutto, una motivazione di fedeltà alla volontà del Signore Gesù, trasmessa dalla dottrina della Chiesa, e di obbedienza, altresì, alle leggi della Chiesa; il Sinodo ha ribadito in una delle sue «Propositiones» l'immutato insegnamento, che la Chiesa ha attinto alla più antica tradizione, e la legge, con cui essa ha codificato l'antica prassi penitenziale: la confessione individuale e integra dei peccati con l'assoluzione egualmente individuale costituisce l'unico modo ordinario, con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa. Da questa riconferma dell'insegnamento della Chiesa risulta chiaramente che ogni peccato grave deve essere sempre dichiarato, con le sue circostanze determinanti, in una confessione individuale.

Vi è, poi, una motivazione di ordine pastorale. Se è vero che, ricorrendo le condizioni richieste dalla disciplina canonica, si può fare uso della terza forma di celebrazione, non si deve però dimenticare che questa non può diventare una forma ordinaria, e che non può e non deve essere adoperata - lo ha ripetuto il Sinodo - se non «in casi di grave necessità», fermo restando l'obbligo di confessare individualmente i peccati gravi prima di ricorrere di nuovo a un'altra assoluzione generale. Il vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell'ambito della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per l'uso della terza forma, darà questo giudizio con grave onere della sua coscienza, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto, altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati - sulla base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte - con gli altri membri della conferenza episcopale. Parimenti, sarà sempre un'autentica preoccupazione pastorale a porre e garantire le condizioni che rendono il ricorso alla terza forma capace di dare quei frutti spirituali, per i quali essa è prevista. Né l'uso eccezionale della terza forma di celebrazione dovrà mai condurre ad una minore considerazione, tanto meno all'abbandono, delle forme ordinarie, né a ritenere tale forma come alternativa delle altre due: non è, infatti, lasciato alla libertà dei pastori e dei fedeli di scegliere fra le menzionate forme di celebrazione quella ritenuta più opportuna. Ai pastori rimane l'obbligo di facilitare ai fedeli la pratica della confessione integra e individuale dei peccati, che costituisce per essi non solo un dovere, ma anche un diritto inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell'anima. Per i fedeli l'uso della terza forma di celebrazione comporta l'obbligo di attenersi a tutte le norme che ne regolano l'esercizio, compresa quella di non ricorrere di nuovo all'assoluzione generale prima di una regolare confessione integra e individuale dei peccati, che deve essere fatta non appena possibile. Di questa norma e dell'obbligo di osservarla i fedeli devono essere avvertiti e istruiti dal sacerdote prima dell'assoluzione.

Con questo richiamo alla dottrina e alla legge della Chiesa intendo inculcare in tutti il vivo senso di responsabilità, che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le quali non sono di nostra proprietà, come i sacramenti, o hanno diritto a non essere lasciate nell'incertezza e nella confusione, come le coscienze. Cose sacre - ripeto - sono le une e le altre - i sacramenti e le coscienze -, ed esigono da parte nostra di essere servite nella verità.

Questa è la ragione della legge della Chiesa.

Alcuni casi più delicati

34. Ritengo di dover fare a questo punto un accenno, sia pur brevissimo, a un caso pastorale che il Sinodo ha voluto trattare - per quanto gli era possibile farlo -, contemplandolo anche in una delle «Propositiones». Mi riferisco a certe situazioni, oggi non infrequenti, in cui vengono a trovarsi cristiani desiderosi di continuare la pratica religiosa sacramentale, ma che ne sono impediti dalla condizione personale in contrasto con gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa. Sono situazioni che appaiono particolarmente delicate e quasi inestricabili.

Non pochi interventi nel corso del Sinodo, esprimendo il pensiero generale dei padri, hanno messo in luce la coesistenza e il mutuo influsso di due principi, egualmente importanti, in merito a questi casi. Il primo è il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa, continuatrice nella storia della presenza e dell'opera di Cristo, non volendo la morte del peccatore ma che si converta e viva, attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora, cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui. L'altro è il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta di chiamare bene il male e male il bene. Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste.

Circa questa materia, che affligge profondamente anche il nostro cuore di pastori, è sembrato mio preciso dovere dire parole chiare nell'esortazione apostolica «Familiaris Consortio», per quanto riguarda il caso di divorziati risposati, o comunque di cristiani che convivono irregolarmente.

Al tempo stesso, sento il vivo dovere di esortare, insieme col Sinodo, le comunità ecclesiali e, soprattutto, i vescovi a portare ogni aiuto possibile ai sacerdoti, che, venendo meno ai gravi impegni assunti nell'ordinazione si trovano in situazioni irregolari. Nessuno di questi fratelli deve sentirsi abbandonato dalla Chiesa. Per tutti coloro che non si trovano attualmente nelle condizioni oggettive richieste dal sacramento della penitenza, le dimostrazioni di materna bontà da parte della Chiesa, il sostegno di atti di pietà diversi da quelli sacramentali, lo sforzo sincero di mantenersi in contatto col Signore, la partecipazione alla santa messa, la ripetizione frequente di atti di fede, di speranza, di carità, di dolore il più possibile perfetti, potranno preparare il cammino per una piena riconciliazione nell'ora che solo la Provvidenza conosce.


AUSPICIO CONCLUSIVO

35. Al termine di questo documento, sento echeggiare in me e desidero ripetere a voi tutti l'esortazione che il primo vescovo di Roma, in un'ora critica degli albori della Chiesa, volle indirizzare «ai fedeli nella diaspora (...), eletti secondo la prescienza di Dio Padre: siate tutti concordi, partecipi delle gioia e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili». L'apostolo raccomandava: «Siate tutti concordi...»; ma subito proseguiva col segnalare i peccati contro la concordia e la pace, che bisogna evitare: «Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo, poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione». E concludeva con una parola di incoraggiamento e di speranza: «Chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?».

Oso riallacciare la mia esortazione, in un'ora non meno critica della storia, a quella del principe degli apostoli, che per primo sedette su questa cattedra romana, come testimone di Cristo e pastore della Chiesa, e qui «presiedette alla carità» di fronte al mondo intero. Anch'io, in comunione con i vescovi successori degli apostoli, e confortato dalla riflessione collegiale che molti di essi, riuniti nel Sinodo, hanno dedicato ai temi e problemi della riconciliazione, ho voluto comunicarvi con lo stesso spirito del pescatore di Galilea quanto egli diceva ai nostri fratelli di fede, lontani nel tempo e così uniti nel cuore: «Siate tutti concordi (...), non rendete male per male (...), siate ferventi nel bene». E aggiungeva: «E' meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene piuttosto che fare il male» (1Pt 3,17). Questa consegna è tutta pervasa da parole, che Pietro aveva ascoltato dallo stesso Gesù, e da concetti che facevano parte della sua «lieta novella»: il nuovo comandamento dell'amore vicendevole; l'anelito e l'impegno all'unità; le beatitudini della misericordia e della pazienza nella persecuzione per la giustizia; il ripagare il male col bene; il perdono delle offese; l'amore ai nemici. In tali parole e concetti è la sintesi originale e trascendente dell'etica cristiana o, meglio e più profondamente, della spiritualità dell'alleanza nuova in Gesù Cristo.

Affido al Padre, 
ricco di misericordia, 
affido al Figlio di Dio, 
fatto uomo come nostro redentore 
e riconciliatore, 
affido allo Spirito Santo, 
sorgente di unità e di pace, 
questo mio appello di padre e di pastore 
alla penitenza e alla riconciliazione. 
Voglia la Trinità santissima e adorabile 
far germinare nella Chiesa e nel mondo 
il piccolo seme, che in quest'ora 
consegno alla terra generosa 
di tanti cuori umani.

Perché ne provengano 
in un giorno non lontano copiosi frutti, 
vi invito tutti a rivolgervi con me 
al cuore di Cristo, 
segno eloquente 
della divina misericordia, 
«propiziazione per i nostri peccati», 
«nostra pace e riconciliazione», 
per attingervi la spinta interiore 
verso la detestazione del peccato 
e la conversione a Dio, 
e trovarvi la benignità divina 
che risponde amorosamente 
al pentimento umano.

Vi invito pure a rivolgervi con me 
al cuore immacolato di Maria, 
Madre di Gesù, 
nella quale «si è operata 
la riconciliazione di Dio 
con l'umanità (...), 
si è compiuta l'opera della riconciliazione, 
perché ella ha ricevuto da Dio 
la pienezza della grazia 
in virtù del sacrificio redentore di Cristo». 
In verità, Maria è diventata 
«l'alleata di Dio», 
in virtù della sua maternità divina, 
nell'opera della riconciliazione.

Alle mani di questa Madre, 
il cui «fiat» segnò l'inizio 
di quella «pienezza dei tempi», 
nella quale fu attuata da Cristo 
la riconciliazione dell'uomo con Dio, 
e al suo cuore immacolato 
- al quale abbiamo ripetutamente affidato 
l'intera umanità, 
turbata dal peccato 
e straziata da tante tensioni e conflitti 
- affido ora in special modo questa intenzione: 
che, per la sua intercessione, 
l'umanità stessa scopra e percorra 
la via della penitenza, l'unica che 
potrà condurla alla piena riconciliazione.

A tutti voi, che con spirito di ecclesiale comunione nell'obbedienza e nella fede, vorrete accogliere le indicazioni, i suggerimenti e le direttive contenute in questo documento, studiandovi di tradurle in vitale prassi pastorale, imparto ben volentieri la confortatrice benedizione apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 dicembre, I domenica di avvento, dell'anno 1984, settimo del mio Pontificato.

 

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