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II.

«MYSTERIUM PIETATIS»

19. Per conoscere il peccato era necessario fissare lo sguardo sulla sua natura, quale ci è fatta conoscere dalla rivelazione dell'economia della salvezza; esso è «mysterium iniquitatis». Ma in questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso contrasta come antagonista con un altro principio operante, che - usando una bella e suggestiva espressione di san Paolo - possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum pietatis». Il peccato dell'uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura, sconfitto, se questo «mysterium pietatis» non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell'uomo.

Troviamo questa espressione in una delle lettere pastorali di san Paolo, la prima a Timoteo. Essa balza improvvisa quasi per un'ispirazione irrompente. L'apostolo, infatti, in antecedenza ha consacrato lunghi paragrafi del suo messaggio al discepolo prediletto per spiegare il significato dell'ordinamento della comunità (quello liturgico e, legato ad esso, quello gerarchico), ha quindi parlato del ruolo dei capi della comunità, per riferirsi infine al comportamento dello stesso Timoteo nella «chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità». Quindi, alla fine del brano, egli evoca quasi «ex abrupto», ma con un intento profondo, ciò che dà significato a tutto quello che ha scritto: «E' senza dubbio grande il mistero della pietà...» (1Tm 3,15s).

Senza tradire minimamente il senso letterale del testo, noi possiamo allargare questa magnifica intuizione teologica dell'apostolo a una più completa visione del ruolo che la verità da lui annunciata ha nell'economia della salvezza. «E' grande davvero - ripetiamo con lui - il mistero della pietà», perché vince il peccato.

Ma che cos'è nella concezione paolina questa «pietà»?

E' il Cristo stesso

20. E' profondamente significativo che, per presentare questo «mysterium pietatis», Paolo trascriva semplicemente, senza stabilire un legame grammaticale col testo precedente, tre righe di un inno cristologico, che - secondo la sentenza di autorevoli studiosi - era usato nelle comunità ellenico-cristiane. Con le parole di quell'inno, dense di contenuto teologico e ricche di nobile bellezza, quei credenti del primo secolo professavano la loro fede circa il mistero del Cristo, per il quale egli si è manifestato nella realtà della carne umana e dallo Spirito Santo è stato costituito quale giusto, che si offre per gli ingiusti; egli è apparso agli angeli, fatto più grande di essi, ed è stato predicato alle genti, portatore di salvezza; egli è stato creduto nel mondo, quale inviato del Padre, e dallo stesso Padre assunto in cielo, quale Signore.

Il mistero o sacramento della pietà, pertanto, è il mistero stesso del Cristo. Esso è, in una sintesi pregnante, il mistero dell'incarnazione e della redenzione, della piena pasqua di Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria: mistero della sua passione e morte, della sua risurrezione e glorificazione. Ciò che san Paolo, riprendendo le frasi dell'inno, ha voluto ribadire è che questo mistero è il segreto principio vitale che fa della Chiesa la casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità. Nel solco dell'insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo mistero dell'infinita pietà di Dio verso di noi è capace di penetrare fino alle nascoste radici della nostra iniquità, per suscitare nell'anima un movimento di conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione.

Riferendosi senza dubbio a questo mistero, anche san Giovanni, pur col suo caratteristico linguaggio, che è diverso da quello di san Paolo, poteva scrivere che «chiunque è nato da Dio, non pecca»: il Figlio di Dio lo salva e «il maligno non lo tocca» (1Gv 5,18s). In questa affermazione giovannea c'è un'indicazione di speranza, fondata sulle promesse divine: il cristiano ha ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non peccare. Non si tratta, dunque, di un'impeccabilità acquisita per virtù propria o, addirittura, insita nell'uomo, come pensavano gli gnostici. E' un risultato dell'azione di Dio. Per non peccare il cristiano dispone della conoscenza di Dio, ricorda san Giovanni in questo stesso passo. Ma poco prima egli aveva scritto: «Chiunque è nato da Dio, non commette peccato, perché un seme divino dimora in lui» (1Gv 3,9). Se per questo «seme di Dio» intendiamo - come propongono alcuni commentatori - Gesù, il Figlio di Dio, allora possiamo dire che per non peccare - o per liberarsi dal peccato - il cristiano dispone della presenza in sé dello stesso Cristo e del mistero di Cristo, che è mistero di pietà.

Lo sforzo del cristiano

21. Ma c'è nel «mysterium pietatis» un altro versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve aver corrispondenza nella pietà del cristiano verso Dio. In questa seconda accezione, la pietà («eusébeia») significa appunto il comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio risponde con la sua pietà filiale.

Anche in questo senso possiamo affermare con san Paolo che «è grande il mistero della pietà». Anche in questo senso la pietà, quale forza di conversione e di riconciliazione, affronta l'iniquità e il peccato. Anche in questo caso gli aspetti essenziali del mistero del Cristo sono oggetto della pietà nel senso che il cristiano accoglie il mistero, lo contempla, ne trae la forza spirituale necessaria per condurre la vita secondo il Vangelo. Anche qui si deve dire che «chi è nato da Dio, non commette peccato»; ma l'espressione ha un senso imperativo: sostenuto dal mistero del Cristo, come da un'interiore sorgente di energia spirituale, il cristiano è diffidato dal peccare e, anzi, riceve il comandamento di non peccare, ma di comportarsi degnamente «nella casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente» (1Tm 3,15), essendo un figlio di Dio.

Verso una vita riconciliata

22. Così la parola della Scrittura, nel rivelarci il mistero della pietà, apre l'intelligenza umana alla conversione e alla riconciliazione, intese non come alte astrazioni, ma come valori cristiani concreti da conquistare nella nostra quotidianità. Insidiati dalla perdita del senso del peccato, talora tentati da qualche illusione ben poco cristiana di impeccabilità, anche gli uomini d'oggi hanno bisogno di riascoltare, come diretto a ciascuno personalmente, l'ammonimento di san Giovanni: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8), e anzi «tutto il mondo giace sotto il potere del maligno» (1Gv 5,19). Ciascuno, dunque, è invitato dalla voce della verità divina a leggere realisticamente nella sua coscienza e a confessare che è stato generato nell'iniquità, come diciamo nel salmo Miserere.

Tuttavia, minacciati dalla paura e dalla disperazione, gli uomini d'oggi possono sentirsi sollevati dalla divina promessa, che li apre alla speranza della piena riconciliazione.

Il mistero della pietà, da parte di Dio, è quella misericordia di cui il Signore e Padre nostro - lo ripeto ancora - è infinitamente ricco. Come ho detto nell'enciclica dedicata al tema della divina misericordia, essa è un amore più potente del peccato, più forte della morte. Quando ci accorgiamo che l'amore che Dio ha per noi non si arresta di fronte al nostro peccato, non indietreggia dinanzi alle nostre offese, ma si fa ancora più premuroso e generoso; quando ci rendiamo conto che questo amore è giunto fino a causare la passione e la morte del Verbo fatto carne, il quale ha accettato di redimerci pagando col suo sangue, allora prorompiamo nel riconoscimento: «Sì, il Signore è ricco di misericordia», e diciamo perfino: «Il Signore è misericordia». Il mistero della pietà è la via aperta dalla divina misericordia alla vita riconciliata.


TERZA PARTE
LA PASTORALE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

Promozione della penitenza e della riconciliazione

23. Suscitare nel cuore dell'uomo la conversione e la penitenza e offrirgli il dono della riconciliazione è la connaturale missione della Chiesa, come continuatrice dell'opera redentrice del suo fondatore divino. E', questa, una missione che non si esaurisce in alcune affermazioni teoriche e nella proposta di un ideale etico non accompagnata da energie operative, ma tende ad esprimersi in precise funzioni ministeriali in ordine a una pratica concreta della penitenza e della riconciliazione.

A questo ministero, fondato e illuminato dai principi di fede sopra illustrati, orientato verso obiettivi precisi e sostenuto da mezzi adeguati, possiamo dare il nome di pastorale della penitenza e della riconciliazione. Suo punto di partenza è la convinzione della Chiesa che l'uomo, al quale si rivolge ogni forma di pastorale, ma principalmente la pastorale della penitenza e della riconciliazione, è l'uomo segnato dal peccato, la cui immagine pregnante si può trovare nel re Davide. Rimproverato dal profeta Natan, egli accetta di confrontarsi con le proprie nefandezze e confessa: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13), e proclama: «Riconosco il mio delitto, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 51,5); ma prega anche: «Purificami, Signore, e sarò mondo; lavami, e sarò più bianco della neve» (Ps 9), ricevendo la risposta della divina misericordia: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato: non morirai» (2Sam 12,13).

La Chiesa si trova, dunque, di fronte all'uomo - ad un intero mondo umano - vulnerato dal peccato e da esso toccato in ciò che possiede di più intimo nella profondità del suo essere, ma al tempo stesso mosso verso un incoercibile desiderio di liberazione dal peccato e, specialmente se cristiano, consapevole che il mistero della pietà, Cristo Signore, già opera in lui e nel mondo con la forza della redenzione.

La funzione riconciliatrice della Chiesa deve così svolgersi secondo quell'intimo nesso, che raccorda strettamente il perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo alla fondamentale e piena riconciliazione dell'umanità, avvenuta con la redenzione. Questo nesso ci fa capire che, essendo il peccato il principio attivo della divisione - divisione fra l'uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell'essere dell'uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l'uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione.

Non c'è bisogno di ripetere quanto ho già detto circa l'importanza di questo «ministero della riconciliazione», e della relativa pastorale che lo attua, nella coscienza e nella vita della Chiesa. Questa fallirebbe in un aspetto essenziale del suo essere e mancherebbe a una sua irrinunciabile funzione, se non pronunciasse con chiarezza e fermezza, a tempo e fuori tempo, la «parola della riconciliazione» e non offrisse al mondo il dono della riconciliazione. Ma conviene ripetere che tale importanza del servizio ecclesiale di riconciliazione si estende, oltre i confini della Chiesa, al mondo intero.

Parlare di pastorale della penitenza e della riconciliazione, dunque, vuol dire riferirsi all'insieme dei compiti che incombono alla Chiesa, a tutti i livelli, per la promozione di esse. Più concretamente, parlare di questa pastorale vuol dire evocare tutte le attività, mediante le quali la Chiesa, per il tramite di tutte e di ciascuna delle sue componenti - pastori e fedeli, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti - e con tutti i mezzi a sua disposizione - parola e azione, insegnamento e preghiera -, conduce gli uomini, singoli o in gruppo, alla vera penitenza e li introduce così nel cammino della piena riconciliazione.

I padri del Sinodo, come rappresentanti dei loro confratelli vescovi, guide del popolo loro affidato, si sono occupati di questa pastorale nei suoi elementi più pratici e concreti. E io sono lieto di far loro eco, associandomi alle loro inquietudini e speranze, accogliendo i frutti delle loro ricerche ed esperienze, incoraggiandoli nei loro progetti e realizzazioni. Possano essi ritrovare in questa parte dell'esortazione apostolica l'apporto che hanno dato essi stessi al Sinodo, apporto la cui utilità intendo allargare, mediante queste pagine, alla Chiesa intera.

Ritengo, pertanto, di mettere in luce l'essenziale della pastorale della penitenza e della riconciliazione rilevandone, con l'assemblea del Sinodo, i due punti seguenti: 1) i mezzi usati e le vie seguite dalla Chiesa per promuovere la penitenza e la riconciliazione; 2) il sacramento per eccellenza della penitenza e della riconciliazione.

I.

MEZZI E VIE PER LA PROMOZIONE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

24. Per promuovere la penitenza e la riconciliazione la Chiesa ha a disposizione principalmente due mezzi, che le sono stati affidati dal suo stesso fondatore: la catechesi e i sacramenti. Il loro impiego, sempre ritenuto dalla Chiesa come pienamente consono alle esigenze della sua missione salvifica e rispondente, nello stesso tempo, alle esigenze e ai bisogni spirituali degli uomini di tutti i tempi, può essere fatto in forme e modi antichi e nuovi, tra i quali sarà bene ricordare particolarmente quello che, seguendo il mio predecessore Paolo VI, possiamo chiamare il metodo del dialogo.

Il dialogo

25. Il dialogo per la Chiesa è, in certo senso, un mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua azione nel mondo contemporaneo. Il Concilio Vaticano II, infatti, dopo aver proclamato che «la Chiesa, in virtù della missione che ha di illuminare tutto il mondo col messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini (...), diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo», aggiunge che essa deve essere capace di «stabilire un dialogo sempre più fecondo fra tutti coloro che formano l'unico popolo di Dio» («Gaudium et Spes», 92), come anche di «stabilire un dialogo con l'umana società» («Christus Dominus», 13).

Il mio predecessore Paolo VI ha dedicato al dialogo una parte notevole della sua prima enciclica «Ecclesiam suam», in cui lo descrive e caratterizza significativamente quale dialogo della salvezza. La Chiesa, infatti, usa il metodo del dialogo per meglio condurre gli uomini - quelli che per il battesimo e la professione di fede si riconoscono membra della comunità cristiana e quelli che le sono estranei - alla conversione e alla penitenza, sulla via di un profondo rinnovamento della propria coscienza e della propria vita, alla luce del mistero della redenzione e della salvezza, operata da Cristo e affidata al ministero della sua Chiesa. L'autentico dialogo, quindi, è rivolto innanzitutto alla rigenerazione di ciascuno mediante la conversione interiore e la penitenza, sempre con profondo rispetto per le coscienze e con la pazienza e la gradualità indispensabili nelle condizioni degli uomini del nostro tempo.

Il dialogo pastorale in vista della riconciliazione continua a essere oggi un impegno fondamentale della Chiesa in diversi ambiti e a vari livelli. Essa promuove, anzitutto, un dialogo ecumenico, cioè tra Chiese e comunità ecclesiali che si richiamano alla fede in Cristo, Figlio di Dio e unico salvatore, e un dialogo con le altre comunità di uomini che cercano Dio e vogliono avere un rapporto di comunione con lui.

Alla base di tale dialogo con le altre Chiese e comunità ecclesiali e con le altre religioni, e quale condizione della sua credibilità ed efficacia, deve esserci un sincero sforzo di permanente e rinnovato dialogo all'interno della stessa Chiesa cattolica. Questa Chiesa è consapevole di essere, per sua natura, sacramento della comunione universale di carità; ma è, altresì, consapevole delle tensioni esistenti al suo interno, che rischiano di diventare fattori di divisione.

L'invito accorato e fermo, già rivolto dal mio predecessore in vista dell'anno santo 1975, vale anche per il momento presente. Per ottenere il superamento dei conflitti e far sì che le normali tensioni non risultino dannose all'unità della Chiesa, occorre che tutti ci confrontiamo con la parola di Dio e, abbandonate le proprie vedute soggettive, cerchiamo la verità laddove essa si trova, cioè nella stessa divina Parola e nell'interpretazione autentica, che ne dà il magistero della Chiesa. A questa luce l'ascolto reciproco, il rispetto e l'astensione da ogni giudizio affrettato, la pazienza, la capacità di evitare che la fede, che unisce, sia subordinata alle opinioni, alle mode, alle scelte ideologiche, che dividono, sono tutte doti di un dialogo che all'interno della Chiesa deve essere assiduo, volenteroso, sincero. E' chiaro che esso non sarebbe tale e non diventerebbe un fattore di riconciliazione, senza l'attenzione al magistero e l'accettazione di esso.

Così impegnata fattivamente nella ricerca della propria comunione interna, la Chiesa cattolica può rivolgere l'appello alla riconciliazione - come ha già fatto da tempo - alle altre Chiese, con le quali non c'è piena comunione, nonché alle altre religioni e persino a chi cerca Dio con cuore sincero.

Alla luce del Concilio e del magistero dei miei predecessori, la cui preziosa eredità ho ricevuto e mi sforzo di conservare e attuare, posso affermare che la Chiesa cattolica in tutte le sue componenti si impegna con lealtà nel dialogo ecumenico, senza facili ottimismi, ma anche senza sfiducia e senza esitazioni o ritardi. Le leggi fondamentali che essa cerca di seguire in tale dialogo sono, da una parte, la persuasione che soltanto un ecumenismo spirituale - cioè fondato nella preghiera comune e nella comune docilità all'unico Signore - permette di rispondere sinceramente e seriamente alle altre esigenze dell'azione ecumenica; dall'altra, la convinzione che un certo facile irenismo in materia dottrinale e, soprattutto, dogmatica potrebbe forse portare a una forma di convivenza superficiale e non durevole, ma non a quella comunione profonda e stabile che tutti noi auspichiamo. A questa comunione si giungerà nell'ora voluta dalla divina provvidenza; ma per giungervi la Chiesa cattolica, per quanto la concerne, sa di dover essere aperta e sensibile a tutti «i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati», ma di dover parimenti porre alla base di un dialogo leale e costruttivo la chiarezza delle impostazioni, la fedeltà e la coerenza con la fede trasmessa e definita nel solco della tradizione perenne del suo magistero. Nonostante la minaccia, poi, di un certo disfattismo, e malgrado le inevitabili lentezze che l'avventatezza non potrà mai correggere, la Chiesa cattolica continua a cercare con tutti gli altri fratelli cristiani le vie dell'unità e con i seguaci delle altre religioni un dialogo sincero. Possa questo dialogo inter-religioso condurre al superamento di ogni atteggiamento di ostilità, di diffidenza, di mutua condanna e persino di mutua invettiva, condizione preliminare almeno all'incontro nella fede in un unico Dio e nella certezza della vita eterna per l'anima immortale. Voglia il Signore specialmente che il dialogo ecumenico conduca a una sincera riconciliazione intorno a tutto ciò che possiamo avere già in comune con le altre Chiese cristiane: la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, Salvatore e Signore, l'ascolto della Parola, lo studio della Rivelazione, il sacramento del battesimo.

Nella misura in cui la Chiesa è capace di generare la concordia attiva - l'unità nella varietà - al suo proprio interno, e di offrirsi come testimone e umile operatrice di riconciliazione nei confronti delle altre Chiese e comunità ecclesiali e delle altre religioni, essa diventa, secondo l'espressiva definizione di sant'Agostino, «mondo riconciliato». Allora potrà essere segno di riconciliazione nel mondo e per il mondo.

Nella consapevolezza della smisurata gravità della situazione creata dalle forze della divisione e della guerra, che costituisce oggi una pesante minaccia non soltanto per l'equilibrio e l'armonia delle nazioni, ma per la sopravvivenza stessa dell'umanità, la Chiesa sente di dover offrire e proporre la sua specifica collaborazione per il superamento dei conflitti e la ricomposizione della concordia.

E' un complesso e delicato dialogo di riconciliazione, in cui la Chiesa si impegna, anzitutto, con l'opera della Santa Sede e dei suoi diversi organismi. La Santa Sede si sforza sia di intervenire presso i governanti delle nazioni e i responsabili delle varie istanze internazionali, sia di associarsi ad essi, dialogando con essi o stimolandoli a dialogare fra di loro, a beneficio della riconciliazione in mezzo ai numerosi conflitti. Essa fa questo non per secondi fini o per interessi occulti - poiché non ne ha -, ma «per una preoccupazione umanitaria», mettendo la sua struttura istituzionale e la sua autorità morale, del tutto singolari, a servizio della concordia e della pace. Essa fa questo convinta che come «nella guerra due parti insorgono l'una contro l'altra», così «nella questione della pace sono pure sempre e necessariamente due parti che debbono sapersi impegnare», e in ciò «si trova il vero senso del dialogo per la pace».

Nel dialogo per la riconciliazione la Chiesa si impegna anche per mezzo dei vescovi secondo la competenza e responsabilità che è loro propria, sia individualmente nella direzione delle rispettive Chiese particolari, sia riuniti nelle conferenze episcopali, con la collaborazione dei presbiteri e di tutte le componenti delle comunità cristiane. Essi adempiono puntualmente i loro compiti, quando promuovono quell'indispensabile dialogo e proclamano le esigenze umane e cristiane di riconciliazione e di pace. In comunione con i loro pastori, i laici, i quali hanno come «campo proprio della loro attività evangelizzatrice il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell'economia (...) della vita internazionale», sono chiamati ad impegnarsi direttamente nel dialogo o in favore del dialogo per la riconciliazione. Per loro tramite è ancora la Chiesa che svolge la sua azione riconciliatrice. La rigenerazione dei cuori mediante la conversione e la penitenza è, pertanto, il presupposto fondamentale e la base sicura per ogni rinnovamento sociale e per la pace tra le nazioni.

Resta da ribadire che da parte della Chiesa e dei suoi membri il dialogo, in qualsiasi forma si svolga - e sono e possono essere molto diverse, sicché lo stesso concetto di dialogo ha un valore analogico - non potrà mai partire da un atteggiamento di indifferenza verso la verità, ma esserne, piuttosto, una presentazione fatta in modo sereno e rispettoso dell'intelligenza e della coscienza altrui. Il dialogo della riconciliazione non potrà mai sostituire o attenuare l'annuncio della verità evangelica, che ha come scopo preciso la conversione dal peccato e la comunione con Cristo e con la Chiesa, ma dovrà servire alla sua trasmissione e attuazione attraverso i mezzi lasciati da Cristo alla Chiesa per la pastorale della riconciliazione: la catechesi e la penitenza.

La Catechesi

26. Nella vasta area, in cui la Chiesa ha la missione di operare con lo strumento del dialogo, la pastorale della penitenza e della riconciliazione si rivolge ai membri del corpo della Chiesa, innanzitutto, con un'adeguata catechesi circa le due realtà distinte e complementari, alle quali i padri sinodali hanno dato una particolare importanza, e che hanno messo in rilievo in alcune delle «Propositiones» conclusive: appunto la penitenza e la riconciliazione. La catechesi, dunque, è il primo mezzo da impiegare.

Alla radice della raccomandazione del Sinodo, così opportuna, si trova un presupposto fondamentale: ciò che è pastorale non si oppone al dottrinale, né può l'azione pastorale prescindere dal contenuto dottrinale, dal quale, anzi, trae la sua sostanza e la sua reale validità. Ora, se la Chiesa è «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15) ed è posta nel mondo come madre e maestra, come potrebbe tralasciare il compito di insegnare la verità che costituisce un cammino di vita?

Dai pastori della Chiesa si attende, prima di tutto, una catechesi sulla riconciliazione. Questa non può non fondarsi sull'insegnamento biblico, specialmente quello neo-testamentario, circa la necessità di ricostituire l'alleanza con Dio in Cristo redentore e riconciliatore e, alla luce e come espansione di questa nuova comunione e amicizia, circa la necessità di riconciliarsi col fratello, a costo di dover interrompere l'offerta del sacrificio. Su questo tema della riconciliazione fraterna Gesù insiste molto: ad esempio, quando invita a porgere l'altra guancia a chi ci ha percosso e a lasciare anche il mantello a chi ci ha preso la tunica, o quando inculca la legge del perdono: perdono che ciascuno riceve nella misura in cui sa perdonare, perdono da offrire anche ai nemici, perdono da concedere settanta volte sette, cioè, in pratica, senza alcuna limitazione. A queste condizioni, realizzabili solo in un clima genuinamente evangelico, è possibile una vera riconciliazione sia fra gli individui, sia fra le famiglie, le comunità, le nazioni e i popoli. Da questi dati biblici sulla riconciliazione deriverà naturalmente una catechesi teologica, la quale integrerà nella sua sintesi anche gli elementi della psicologia, della sociologia e delle altre scienze umane, che possono servire per chiarire le situazioni, impostare bene i problemi, persuadere gli ascoltatori o i lettori a prendere risoluzioni concrete.

Dai pastori della Chiesa si attende pure una catechesi sulla penitenza. Anche qui la ricchezza del messaggio biblico ne deve essere la sorgente. Questo messaggio sottolinea nella penitenza, anzitutto, il suo valore di conversione, termine col quale si cerca di tradurre la parola del testo greco «metanoia», che letteralmente significa lasciar capovolgere lo spirito per farlo volgere a Dio. Sono questi, del resto, i due elementi fondamentali emergenti dalla parabola del figlio perduto e ritrovato: il «rientrare in sé» e la decisione di tornare al padre. Non ci può essere riconciliazione senza questi atteggiamenti primordiali della conversione, e la catechesi deve spiegarli con concetti e termini adatti alle varie età, alle diverse condizioni culturali, morali e sociali.

E' un primo valore della penitenza che si prolunga nel secondo: penitenza significa anche pentimento. I due sensi della «metanoia» appaiono nella significativa consegna data da Gesù: «Se un tuo fratello si pente (= ritorna a te), perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte torna a te dicendo: "Mi pento", tu gli perdonerai» (Lc 17,3s). Una buona catechesi mostrerà come il pentimento, tanto quanto la conversione, lungi dall'essere un sentimento superficiale, è un vero capovolgimento dell'anima.

Un terzo valore è contenuto nella penitenza, ed è il movimento per il quale i precedenti atteggiamenti di conversione e di pentimento si manifestano all'esterno: è il fare penitenza. Questo significato è ben percepibile nel termine «metanoia», come è usato dal Precursore secondo il testo dei sinottici. Fare penitenza vuol dire, oltre tutto, ristabilire l'equilibrio e l'armonia rotti dal peccato, cambiare direzione anche a costo di sacrificio.

Insomma, una catechesi sulla penitenza, la più completa e adeguata possibile, è inderogabile in un tempo come il nostro, nel quale gli atteggiamenti dominanti nella psicologia e nel comportamento sociale sono così in contrasto col triplice valore, già illustrato: l'uomo contemporaneo sembra far più fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire «me ne pento» o «mi dispiace»; sembra rifiutare istintivamente, e spesso irresistibilmente, tutto ciò che è penitenza nel senso del sacrificio accolto e praticato per la correzione del peccato. A questo riguardo, vorrei sottolineare che, anche se mitigata da qualche tempo, la disciplina penitenziale della Chiesa non può essere abbandonata senza grave nocumento sia per la vita interiore dei cristiani e della comunità ecclesiale, sia per la loro capacità di irradiazione missionaria. Non è raro che non-cristiani siano sorpresi per la scarsa testimonianza di vera penitenza da parte dei discepoli di Cristo. E' chiaro, peraltro, che la penitenza cristiana sarà autentica, se sarà ispirata dall'amore, e non dal mero timore; se consisterà in un serio sforzo di crocifiggere l'«uomo vecchio», perché possa rinascere il «nuovo», ad opera di Cristo; se seguirà come modello Cristo che, pur essendo innocente, scelse la via della povertà, della pazienza, dell'austerità e, si può dire, della vita penitente.

Dai pastori della Chiesa si attende ancora - come ha ricordato il Sinodo - una catechesi sulla coscienza e la sua formazione. Anche questo è un tema di acuta attualità, visto che, nei sussulti a cui è soggetta la cultura del nostro tempo, viene troppo spesso aggredito, messo a prova, sconvolto, ottenebrato questo santuario interiore, cioè l'io più intimo dell'uomo: la sua coscienza. Per una sapiente catechesi sulla coscienza si possono trovare indicazioni preziose sia nei dottori della Chiesa, sia nella teologia del Concilio Vaticano II e, specialmente, nei due documenti sulla Chiesa nel mondo contemporaneo e sulla libertà religiosa. Su questa stessa linea il pontefice Paolo VI intervenne spesso, per ricordare la natura e il ruolo della coscienza nella nostra vita. Io stesso, seguendo le sue orme, non tralascio nessuna occasione per far luce su questa altissima componente della grandezza e dignità dell'uomo, su questa «sorta di senso morale, che ci porta a discernere ciò che è bene da ciò che è male (...) come un occhio interiore, una capacità visiva dello spirito, in grado di guidare i nostri passi sulla via del bene», ribadendo la necessità di formare cristianamente la propria coscienza, affinché essa non diventi «una forza distruttrice dell'umanità vera (della persona), anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene».

Anche su altri punti di non minore rilevanza per la riconciliazione si attende la catechesi dei pastori della Chiesa.

  • Sul senso del peccato, che, come ho detto, si è non poco attenuato nel nostro mondo.

  • Sulla tentazione e le tentazioni: lo stesso Signore Gesù, Figlio di Dio, «provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato» (Eb 4,15), volle esser tentato dal maligno, per indicare che, come lui, anche i suoi sarebbero sottoposti alla tentazione, nonché per mostrare come bisogna comportarsi nella tentazione. Per chi supplica il Padre di non esser tentato al di sopra delle proprie forze e di non soccombere alla tentazione, per chi non si espone alle occasioni, l'esser sottoposto a tentazione non significa aver peccato, ma è, piuttosto, occasione per crescere nella fedeltà e nella coerenza attraverso l'umiltà e la vigilanza.

  • Sul digiuno: che può praticarsi in forme antiche e nuove, come segno di conversione, di pentimento e di mortificazione personale e, al tempo stesso, di unione con Cristo crocifisso e di solidarietà con gli affamati e i sofferenti.

  • Sull'elemosina: che è mezzo per render concreta la carità, condividendo ciò di cui si dispone con colui che soffre le conseguenze della povertà.

  • Sul nesso intimo, che collega il superamento delle divisioni nel mondo alla comunione piena con Dio e fra gli uomini, scopo escatologico della Chiesa.

  • Sulle circostanze concrete, in cui si deve operare la riconciliazione (nella famiglia, nella comunità civile, nelle strutture sociali) e, particolarmente, sulle quattro riconciliazioni che riparano le quattro fratture fondamentali: riconciliazione dell'uomo con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato.

Né la Chiesa può omettere, senza grave mutilazione del suo messaggio essenziale, una costante catechesi su quelli che il linguaggio cristiano tradizionale designa come i quattro novissimi dell'uomo: morte, giudizio (particolare e universale), inferno e paradiso. In una cultura, che tende a racchiudere l'uomo nella sua vicenda terrena più o meno riuscita, ai pastori della Chiesa si chiede una catechesi che dischiuda e illumini con le certezze della fede l'aldilà della vita presente: oltre le misteriose porte della morte si profila un'eternità di gioia nella comunione con Dio o di pena nella lontananza da lui. Soltanto in questa visione escatologica si può avere la misura esatta del peccato e sentirsi spinti decisamente alla penitenza e alla riconciliazione.

Ai pastori zelanti e capaci di inventiva non mancano mai le occasioni per impartire questa ampia e varia catechesi, tenendo conto della diversità di cultura e di formazione religiosa di coloro ai quali si rivolgono. Le offrono spesso le letture bibliche e i riti della santa messa e degli altri sacramenti, come le stesse circostanze in cui essi vengono celebrati. Allo stesso scopo possono esser prese molte iniziative, quali predicazioni, lezioni, dibattiti, incontri e corsi di cultura religiosa, ecc., come avviene in molti luoghi. Desidero qui segnalare, in particolare, l'importanza e l'efficacia che, ai fini di tale catechesi, hanno le antiche missioni popolari. Se adattate alle peculiari esigenze del nostro tempo, esse possono essere, oggi come ieri, un valido strumento di educazione nella fede anche per quanto riguarda il settore della penitenza e della riconciliazione.

Per la grande rilevanza che ha la riconciliazione, fondata sulla conversione, nel delicato campo dei rapporti umani e della convivenza sociale a tutti i livelli, compreso quello internazionale, non può mancare alla catechesi il prezioso apporto della dottrina sociale della Chiesa. Il puntuale e preciso insegnamento dei miei predecessori, a partire dal papa Leone XIII, a cui è venuto a unirsi il sostanzioso apporto della costituzione pastorale «Gaudium et Spes» del Concilio Vaticano II con quello dei diversi episcopati sollecitati da varie circostanze nei rispettivi paesi, ha costituito un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi ambiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà.

Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi fondamentali principi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale.

I sacramenti

27. Il secondo mezzo di istituzione divina, che dalla Chiesa è offerto alla pastorale della penitenza e della riconciliazione, è costituito dai sacramenti. Nel misterioso dinamismo dei sacramenti, così ricco di simbolismi e di contenuti, è possibile ravvisare un aspetto non sempre messo in luce: ciascuno di essi, oltreché della sua grazia propria, è segno anche di penitenza e riconciliazione e, dunque, in ciascuno di essi è possibile rivivere queste dimensioni dello spirito.

Il battesimo è, certo, un lavacro salvifico, che - come dice san Pietro - vale «non (come) rimozione di sporcizia del corpo, ma (come) invocazione di salvezza, rivolta a Dio da parte di una buona coscienza» (1Pt 3,21). E' morte, sepoltura e risurrezione con Cristo morto, sepolto e risorto. E' dono dello Spirito Santo per il tramite di Cristo. Ma questo costitutivo essenziale e originale del battesimo cristiano, lungi dall'eliminare, arricchisce l'elemento penitenziale già presente nel battesimo, che Gesù stesso ricevette da Giovanni «per adempiere ogni giustizia»: un fatto, cioè, di conversione e di reintegrazione nel giusto ordine di rapporti con Dio, di riconciliazione con Dio, con la cancellazione della macchia originale e il conseguente inserimento nella grande famiglia dei riconciliati.

Parimenti la cresima, anche in quanto confermazione del battesimo e, con esso, sacramento di iniziazione, nel conferire la pienezza dello Spirito Santo e nel portare all'età adulta la vita cristiana, significa e realizza per ciò stesso una maggiore conversione del cuore e una più intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea di riconciliati, che è la Chiesa di Cristo.

La definizione, che sant'Agostino dà dell'eucaristia come «sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum caritatis», mette in chiara luce gli effetti di santificazione personale («pietas») e di riconciliazione comunitaria («unitas» e «caritas»), che derivano dall'essenza stessa del mistero eucaristico, come rinnovamento incruento del sacrificio della croce, fonte di salvezza e di riconciliazione per tutti gli uomini. E' necessario, tuttavia, ricordare che la Chiesa, guidata dalla fede in questo augusto sacramento, insegna che nessun cristiano, consapevole di peccato grave, può ricevere l'eucaristia prima di aver ottenuto il perdono di Dio. Come si legge nell'istruzione «Eucharisticum mysterium», la quale, debitamente approvata da Paolo VI, conferma in pieno l'insegnamento del Concilio Tridentino: «L'eucaristia sia proposta ai fedeli anche «come antidoto, che ci libera dalle colpe quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali», e sia loro indicato il modo conveniente di servirsi delle parti penitenziali della liturgia della messa. «A colui che vuole comunicarsi venga ricordato... il precetto: L'uomo provi se stesso (1Cor 11,28). E la consuetudine della Chiesa dimostra che quella prova è necessaria, perché nessuno consapevole di essere in peccato mortale, per quanto si creda contrito, si accosti alla santa eucaristia prima della confessione sacramentale. Che, se si trova in caso di necessità e non ha modo di confessarsi, faccia prima un atto di contrizione perfetta».

Il sacramento dell'ordine è destinato a dare alla Chiesa i pastori, i quali, oltreché maestri e guide, sono chiamati a essere testimoni e operatori di unità, costruttori della famiglia di Dio, difensori e preservatori della comunione di questa famiglia contro i fermenti di divisione e di dispersione.

Il sacramento del matrimonio, esaltazione dell'amore umano sotto l'azione della grazia, è segno, sì, dell'amore di Cristo per la Chiesa, ma anche della vittoria che egli concede agli sposi di riportare sulle forze che deformano e distruggono l'amore, sicché la famiglia, nata da tale sacramento, diventa segno anche della Chiesa riconciliata e riconciliatrice per un mondo riconciliato in tutte le sue strutture e istituzioni.

L'unzione degli infermi, infine, nella prova della malattia e della vecchiaia e specialmente nell'ora finale del cristiano, è segno della definitiva conversione al Signore, nonché della totale accettazione del dolore e della morte come penitenza per i peccati. E in questo si attua la suprema riconciliazione col Padre.

Tuttavia, fra i sacramenti ce n'è uno che, se spesso è stato chiamato della confessione a motivo dell'accusa dei peccati che in esso vien fatta, più propriamente può ritenersi il sacramento della penitenza per antonomasia, come di fatto si chiama, e quindi è il sacramento della conversione e della riconciliazione. Di questo sacramento si è particolarmente occupata la recente assemblea del Sinodo per l'importanza che ha in ordine alla riconciliazione.

II.

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

28. In tutte le fasi e a tutti i livelli del suo svolgimento, il Sinodo ha considerato con la massima attenzione quel segno sacramentale che rappresenta e insieme realizza la penitenza e la riconciliazione. Questo sacramento certamente non esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall'atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso rito, del sacramento della penitenza.

Sin dalla sua preparazione, poi nei numerosi interventi succedutisi durante il suo svolgimento, nei lavori dei gruppi e nelle «Propositiones» finali, il Sinodo ha tenuto conto dell'affermazione pronunciata molte volte, con toni diversi e diverso contenuto: il sacramento della penitenza è in crisi, e di tale crisi ha preso atto. Ha raccomandato un'approfondita catechesi, ma anche una non meno approfondita analisi di carattere teologico, storico, psicologico, sociologico e giuridico circa la penitenza in generale e il sacramento della penitenza in particolare. Con tutto ciò esso ha inteso chiarire i motivi della crisi e aprire le vie per una soluzione positiva, a beneficio dell'umanità. Intanto, dal Sinodo stesso la Chiesa ha ricevuto una chiara conferma della sua fede riguardo al sacramento, per il quale viene data ad ogni cristiano e all'intera comunità dei credenti la certezza del perdono per la potenza del sangue redentore di Cristo.

Giova rinnovare e riaffermare questa fede nel momento in cui essa potrebbe affievolirsi, perdere qualcosa della sua integrità o entrare in una zona d'ombra e di silenzio, minacciata com'è dalla già menzionata crisi in ciò che essa ha di negativo. Insidiano, infatti, il sacramento della confessione, da un lato, l'oscuramento della coscienza morale e religiosa, l'attenuazione del senso del peccato, il travisamento del concetto di pentimento, la scarsa tensione verso una vita autenticamente cristiana; dall'altro lato, la mentalità, talora diffusa, che si possa ottenere il perdono direttamente da Dio anche in maniera ordinaria, senza accostarsi al sacramento della riconciliazione, e l'abitudine di una pratica sacramentale priva talora di fervore e di vera spontaneità, originata forse da una considerazione errata e deviante degli effetti del sacramento.

Conviene, pertanto, ricordare le principali dimensioni di questo grande sacramento.