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  Introduzione

 

Potrebbe apparire strano occuparsi dei carismi, in un elaborato ispirato ad un tema quale quello della Teologia paolina, non tanto per il tema in se stesso, visto che è San Paolo che si occupa più di essi all’interno della sua lettera, quanto per la sua non elevatissima rilevanza teologica. Eppure tali realtà ecclesiali, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, sono tornate fortemente alla ribalta, sia dal punto di vista della prassi che da quello della speculazione, all’interno della Chiesa, seppure si nota ancora, a più di trent’anni dal Concilio, che sono rimaste piuttosto un’esperienza limitata a certe denominazioni (Rinnovamento carismatico), mantenendo comunque in se stesse, o meglio nel modo di essere concepite, una sorta di dualità soprattutto con riferimento ai ministeri. Dualità che non avrebbe ragione di sussistere, proprio a partire, come si vedrà anche più sotto, da una certa qual equivalenza semantica che è presente in Paolo, tra i due termini.

Nella Chiesa primitiva, come si vedrà, i carismi erano tenuti in alta considerazione. Il Carisma per eccellenza, in altre parole il dono ricevuto dalla prima ekklesìa, era, infatti, e innanzi tutto una persona concreta: lo Spirito Santo, lo Spirito di Cristo, Colui che era stato promesso da Gesù stesso, durante la preghiera sacerdotale, nell’ultima cena (cfr. Gv 14, 16.26; 15,26; 16,7). Egli si effonde sulla Chiesa, con potenza a Pentecoste, al fine di confermare l’opera stessa compiuta da Gesù, anche attraverso segni concreti (cfr. At 2,34). Tale segni vengono operati nel nome di Cristo, ma anche a partire da doni concreti che vengono elargiti ai credenti; essi sono appunto i carismi, i quali però non avranno vita molto lunga all’interno della Chiesa, almeno se intesi come doni comuni per tutta la comunità. Già San Giovanni Crisostomo, infatti, confermato poi da Gregorio Magno, affermerà che essi sono stati donati alla Chiesa delle origini per confermarla, per questo una Chiesa matura non avrebbe bisogno di essi[1]. I carismi divengono allora doni straordinari, riservati appunto, solo ai carismatici, cioè a coloro che venivano ritenuti portatori di una santità più alta rispetto agli altri cristiani, cominciando a definire il Santo, come colui che ha i carismi, in altre parole il taumaturgo. Tale lettura prosegue immutata fino al secolo scorso, quando avviene un mutamento profondo di sensibilità. Già la Mystici Corporis di Pio XII, mostra tale metamorfosi affermando che l’organicità della Chiesa non si manifesta solamente all’interno della gerarchia o di coloro che possiedono dei doni carismatici, ma in tutta la Chiesa[2]. E’ evidente l’importante passaggio, da una carismaticità relegata solamente alle figure dei “santi”, si comincia a passare ad una visione più vasta dell’opera dello Spirito, che va al di là anche della stessa Gerarchia. Sarà comunque il Vaticano II a segnare il passaggio storico, sulla scorta anche dell’esperienza carismatica propria di Giovanni XXIII, vissuta durante il suo episcopato in Cecoslovacchia[3]. Nel Vaticano II il termine appare, infatti, per ben 15 volte, nel suo significato più vero, vale a dire come dimensione permanente e continua della vita della Chiesa[4]. Da qui l’interesse per i carismi e per la loro inquadratura all’interno della teologia biblica e particolarmente quella paolina.

 

I Carismi: una questione semantica

 

Appare essenziale iniziare, soffermandoci almeno un momento sul termine greco dal quale proviene la parola italiana[5]. La parola è di per se, di formazione tardiva, e se vogliamo, è entrata nel linguaggio più comune proprio per opera del cristianesimo ed in particolar modo di Paolo, che la usa nelle sue lettere per 16 volte (contro l’unica volta della 1Pt 4,10, e le due varianti utilizzate nel Siracide, che non fanno testo), tanto da poter affermare che “L’uso della parola è certamente creazione di Paolo per indicare tutti quei particolari fenomeni e manifestazioni che derivano dalla fede espressa nelle comunità da lui fondate, specialmente a Corinto” [6], per altro “Gli specialisti del settore concordano nell’affermare che Paolo non può aver preso il termine dall’AT, poiché in questi testi vi appare solo come variante”[7]. Tale lemma proviene dal verbo charìzomai, che implica un dare qualcosa ad un altro, in maniera gratuita e spontanea. Il suffisso ma, invece, esprime, il compimento dell’azione, la sua completa compiutezza. In questo senso chàrisma, sarebbe allora traducibile come “dono gratuito”. Esso è utilizzato in italiano soprattutto come termine tecnico, indicante sia una particolare spiritualità inerente ad un certo movimento o persona (ma adesso si nota un uso anche più volgare del termine, fino ad affermare che “un politico ha un certo carisma”, intendendone le sue capacità demagogiche e trascinatorie), che, appunto i doni dello Spirito, concessi ai cristiani per l’edificazione della comunità cristiana. Nella nostra lingua, inoltre, il termine ha perso ogni somiglianza linguistica con “grazia” (cosa che aveva in greco charìs-chàrisma). Interessante è allora comprendere l’uso ed il significato di questo vocabolo tecnico a partire da Paolo, ma per farlo, bisogna prima fare qualche accenno al fatto che egli utilizza il termine “carisma” anche in altri contesti (cfr., Rm 5,15-17; 2Cor 1,11, ad esempio), mentre i passi in cui il termine è utilizzato tecnicamente sono pochi, ma mostrano una profonda competenza linguistica ed esperienziale di esso. Va rilevato inoltre che Paolo, parlando delle realtà spirituali, utilizza quattro diverse espressioni per indicare i doni che Dio offre alla sua Chiesa: “doni dello Spirito” (1Cor 12,1;14,1), “ministeri” (1Cor 12,5; 2Cor 9,12 e ss.), “operazioni” (1Cor 12,6) ed infine appunto, “carismi” (1Cor 12,4)[8], con una sinergia linguistica che in certi casi, come già dicevamo, permette di sovrapporre tra di essi i diversi vocaboli, interscambiandoli. All’interno di quest’ultimo termine, “carisma”, egli poi utilizza varie diverse designazioni per indicare il medesimo giro di significato: “manifestazioni dello Spirito Santo”, “spirituali”, “spiriti” (1Cor 12, 1.7; 12,11). Di per se, comunque, in questi testi, il termine “carisma” esprime sempre un dono particolare, gratuito, che non è uguale per tutti i fedeli, il quale di per se non sarebbe necessario alla santificazione del cristiano, ma piuttosto è donato liberamente da Dio per edificare la sua Chiesa e dunque per il bene di tutti (ma va rilevato che per esempio la glossolalia, viene definita da Paolo, come dono carismatico per il bene solo personale del singolo). In questo senso i carismi non possono essere confusi con i doni naturali o con i talenti umani, essi fanno parte dell’ordine della Grazia, per cui hanno la loro origine nella misericordia e nella gratuità del Dio che li dona. D’altro canto non possono essere nemmeno confusi con i frutti dello Spirito, poiché “Nel pensiero di Paolo, mentre i frutti dello Spirito appartengono di per sé a tutti i cristiani (cfr., Gal 5,22), i carismi sono dono dello Spirito accordati in vista del bene comune”[9]. In particolar modo l’Apostolo delle genti, esprime con tale visione dei carismi tutta una teologia profonda di essi,  attribuendone l’origine ora all’Una ora all’altra Persona della Trinità, seppure evidenzia, un legame molto forte tra lo Spirito ed i carismi, fino ad affermare chiaramente che la presenza di essi, nell’uomo è un’opera dello Spirito (cfr., 1Cor 12,11), creando una sinergia tra la Persona divina ed i suoi doni, di grande rilievo[10]. Essenziale è comunque il discernimento all’interno di essi, che viene attuato attraverso la confessione del Cristo al quale i carismi stessi, devono portare. Sarebbe infatti una contraddizione se lo Spirito di Cristo non riconoscesse in Gesù Messia, il Signore. Tra i carismi, poi, se ne trovano di più “evidenti” (quali il dono delle lingue, il dono delle guarigioni, ecc…), di gerarchici, di ministeriali, ed alcuni finalizzati esclusivamente al compimento d’alcune attività particolari nella Chiesa. Paolo ci consegna in questo senso, nelle sue Lettere,  quattro liste di essi (cfr., 1Cor 12, 8-10; 1Cor 12, 28-30; Rm 12, 6-8; Ef 4,11), ma tali elenchi si presentano tra di esse differenti, lasciando intuire il loro carattere di assoluta non esaustività (del resto nel campo dello Spirito, sarebbe impossibile quantizzare o voler misurare razionalmente ciò che è puro dono). Sono elencati in tutto 29 carismi, ma riconoscendone alcuni come ripetuti, il loro numero scende a 20. Alcuni sembrano avere particolare importanza: la profezia, per esempio, che donata ad uomini e donne, sembrerebbe indicata e finalizzata all’animazione dei fedeli, al fine di manifestare loro i progetti del Signore anche tramite rivelazioni (cfr., 1Cor 14,3.24.30); la parola di sapienza e di scienza, che si differenzierebbero tra loro per il fatto che mentre attraverso la prima si sarebbero comprese le verità sublimi di Dio potendole esprimere, tramite la seconda, invece, s’insegnava catechisticamente agli altri (cfr., 1Cor 2, 6-16) il mistero di Cristo; altro carisma particolare sarebbe stato quello della fede, la quale non è da intendersi, in questo caso, come virtù teologale, quanto e piuttosto, come la fede evangelica, che fa miracoli (cfr., 1Cor 13,2), perché totale; tra i più interessanti il discernimento degli spiriti, finalizzato alla comprensione della provenienza dei doni, se essi fossero cioè da Dio, o meno (cfr., 1Cor 14,29); infine il  dono delle lingue, consistente nella lode e adorazione a Dio in una lingua sconosciuta (cfr., 1Cor 14,5.26), il quale, evidentemente, allora come oggi, appunto per il suo carattere misterioso, era quello che colpiva di più. Sui carismi di guarigione, o del compiere miracoli, non c’è bisogno di dire molto. Va notato comunque, che man mano, ci si andrà allontanando temporalmente dalla prima comunità cristiana, l’accento verrà sopratutto posto, sui doni meno appariscenti e particolarmente (anche per l’avvento d’eresie che esaltavano i doni carismatici come prova della presenza di Dio nella vita della setta) sui doni ministeriali, che alla fine, termineranno per imporsi totalmente, anche a causa dell’impianto sempre più istituzionale che la Chiesa andava prendendo. Per altro va ricordato che “anche i diversi ministeri ecclesiali sono nati come carismi dello Spirito e poi hanno acquistato un carattere istituzionale e stabile”[11]. Dunque, anche tenendo ciò che abbiamo detto poco più sopra, non ci sarebbe vera dicotomia tra i carismi ed i ministeri, anzi, oggi i ministeri ordinati della Chiesa, ad esempio, prenderebbero forse più forza e coscienza proprio utilizzando i carismi, comunque elargiti dallo Spirito, al fine di raggiungere una migliore consapevolezza cristiana nella comunità.


 
I carismi nelle lettere paoline

 

Comprendere in Paolo la problematica inerente ai carismi all’interno della vita della Chiesa, vuol dire, dunque, partire direttamente dalle sue lettere e tramite esse, da quegli stralci in cui vengono fatte citazioni più o meno esplicite su di essi[12].

La prima lettera in cui se ne fa accenno, pur senza trovarne il nome specifico e tecnico di “carisma”, è la prima ai Tessalonicesi. In essa al cap. 5, 19-20, all’interno della parte parenetica della lettera, si dice “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono”, presupponendo già, nella Chiesa di Tessalonica, una certa organizzazione carismatica. Tenendo presente che essa è stata redatta intorno al 50, questo ci permette di comprendere quanta importanza avesse per Paolo tale attività, la quale addirittura sarebbe dovuto essere posta sotto un discernimento, che poco più tardi verrà, addirittura categorizzato all’interno di un carisma specifico (cfr., 1Cor 12,10). Dicevamo un accenno appena, il quale presenta però un’intensità non indifferente, soprattutto se si riflette su un elemento che può apparire a prima vista secondario, ma ch’eppure, ha a mio avviso una sua importanza: seppure non esiste un nome tecnico per definire il dono, già in Paolo è chiaro chi elargisce i doni (lo Spirito) ed il fatto che l’interesse per essi, è concentrato soprattutto attorno al dono principale, ovvero la profezia, che tornerà come dono principe (subito dopo la Carità), in altri luoghi.

Molto più lungamente Paolo, si occupa invece del problema all’interno della prima lettera ai Corinzi (1Cor 12-14), la quale mostra una coscienza carismatica, non solo molto più ampia e profonda, ma perfino personale. Paolo conosceva i carismi non solo perché li vedeva nella Chiesa, ma perché li usava in prima persona, facendone esperienza. In questa lettera, per la prima volta, i carismi, appunto, ricevono il loro nome. Egli se ne occupa in tre capitoli di grande intensità. In essi, dopo aver ammonito i corinzi sull’importanza dei doni dello Spirito e sul fatto che essi sono non per la divisione ma per l’utilità comune e dunque per l’unità della Chiesa, si sofferma sul paragone tra la Chiesa ed il corpo, donando successivamente alcuni elementi sulla gerarchia dei carismi, introducendo alla fine il celeberrimo “Inno alla Carità” (cfr., 13,1 e ss.).  In particolar modo è evidente come la Comunità di Corinto avesse dato particolare importanza al dono della lingue, o glossolalia, diverso dal dono di Pentecoste fatto dallo Spirito agli Apostoli (cfr., At 2, 1 e ss.)[13], per questo egli si sofferma maggiormente su di esso. Infine si ferma pure su qualche consiglio e sulle regole pratiche da seguire nell’esercitare i carismi. Questa una lettura sommaria dei tre capitoli, adesso qualche appunto sul testo. Innanzi tutto è necessario rilevare come i doni carismatici non siano una realtà solo cristiana. Paolo, parlando ai Corinzi afferma infatti, che essi, prima della Conversione, si lasciavano trascinare “verso gli idoli muti, secondo l’impulso del momento” (1Cor 12,2). Questo fa comprendere come le esperienze estatiche e/o carismatiche, non solo erano già conosciute nell’ambiente ellenistico (come oggi sono conosciute anche in ambienti religiosi, non cristiani), ma pure erano molto seguite. Da notare pure come Paolo descriva queste esperienze: esse sarebbero frutto “dell’impulso di un momento”, ben diversamente dall’esperienza totalizzante dello Spirito, che non solo riempie di sensazioni, ma soprattutto fa progredire nell’incontro con il Signore. In questo senso è necessario un discernimento che si fonda, chiaramente, sull’unità che i carismi stessi creano all’interno della Chiesa. Nessun dono infatti proveniente dallo Spirito dell’Unità potrebbe separare la comunità. In questi termini va notato come Paolo utilizzi, per spiegare tutto questo, una formula trinitaria, di grande spessore, per affermare che chi opera non è l’uomo (che dunque potrebbe gloriarsi di ciò che vive), ma Dio, dal quale tutto è ricevuto. L’unità della Comunità nella diversità dei carismi, avrebbe dunque un fondamento all’interno dell’Unità che nella stessa diversità intratrinitaria, tra le persone divine, è realizzata dallo Spirito. L’opera dello Spirito nell’economia della salvezza, corrisponderebbe perfettamente al suo ruolo intratrinitario, anzi sarebbe garanzia stessa che Colui che guida l’attività carismatica nella Chiesa, non è il principe delle tenebre travestito magari di luce, ma solo e semplicemente lo Spirito di Dio. Anche la lista di carismi che segue, non l’unica (cfr., 12, 27-30; Rm 12, 6-8; Ef 4,11), non vuole certo presentarsi come esaustiva, ma semplicemente mettere in rilievo alcuni dei fenomeni più eclatanti presenti nella compagine ecclesiale, la quale rimane come il referente principale e l’orizzonte di senso, all’interno della teologia dei carismi, paolina. Non a caso, infatti, segue a tale lista, appunto l’apologo del corpo, per il quale la Chiesa viene paragonata al Corpo di Cristo. In realtà, ciò che Paolo “utilizza”, più che la lettura classica dello stato sociale come corpo all’interno del quale ciascuno ha un suo posto, è la sua profonda esperienza Battesimale, per la quale Egli, per mezzo del Battesimo e dell’Eucarestia, appunto, viene incorporato esistenzialmente a Cristo, il quale diviene l’unico Capo del Corpo, che formato da tutti i cristiani, è la Chiesa. Siamo ben lungi da una visione mistica del corpo di Cristo, Paolo ne ha una visione quasi sensistica, egli si sente ed è veramente membro vivo di un corpo vivo. In questi termini i doni carismatici sono ciò che edifica profondamente la comunità, poiché essi sono elargiti a coloro che, nello Spirito ricevuto nei sacramenti, sono già uno in Cristo e dunque sono viventi nel Vivente. I carismi, sono un segno evidente della vita palpitante del Regno all’interno della Chiesa. In questo senso Paolo passa, nel significato profondo della sua lettera, dalla lettura inerente ai singoli membri della Chiesa, visti come membra vive di Cristo, a ciò che essi vivono, ovvero i doni carismatici, come segno di questa vita profonda che scorre attraverso di essi e si riversa su tutta la Comunità riunita nel Nome di Cristo. E’ tanto vero ciò che andiamo dicendo Egli stesso, scriverà subito dopo l’apologo, ancora un’altra lista di carismi, questa volta cercando, in qualche maniera di ordinarli gerarchicamente. Particolare importanza riveste il fatto che i primi tre ad essere descritti sono quello riguardanti gli “apostoli”, i “profeti” ed i “maestri” (cfr., 12, 28), che si presentano come i carismi innestati direttamente alla Parola. In realtà il primo dono fatto alla Chiesa, dicevamo già prima, è proprio quello dello Spirito, il quale annunzia Cristo, poiché prende dal suo e lo dona alla Chiesa (cfr., Gv 16,15). E’ evidente che i carismi più importanti saranno allora appunto quelli collegati con Cristo stesso e con il suo annunzio. Una sottolineatura ed anche un’ipotesi. Il fatto che sia data quest’importanza a tali carismi, lascia presupporre già nella Chiesa dei primi decenni, una qualche formulazione scritta della vita di Cristo esistesse, costituendo come il fondamento del Carisma, essendo frutto di esso. In questo senso è facile intuire come questi doni particolari divengono poi presupposto dell’essere istituzionale della Chiesa, rispetto agli altri, che lentamente andranno svanendo, in parte risucchiati dai primi, in parte sempre più non visti nella loro semplicità, ma come fenomeni particolari e rari. A questi ultimi però (forse troppo eccessivamente ricercati nella comunità di Corinto del tempo di Paolo, anche a causa del prestigio e della leadership che davano all’interno della compagine ecclesiale) Paolo oppone quasi, la Carità, l’Amore, interpretato come il carisma più grande, quello che da tutti andrebbe ricercato. E’ questo uno degli “elogi” più bello della Sacra Scrittura, conosciuto universalmente, come una delle pagine più belle della Sacra Pagina e forse di tutta intera la letteratura umana. Inserito nel genere letterario classico dell’elogio, appunto, l’inno alla Carità, probabilmente redatto in altra occasione, viene inserito qui da Paolo, a partire dall’argomento trattato. In esso si evidenzia come esista una progressione carismatica che procede dal dono meno importante a quello più essenziale, dalle lingue, cioè, ai doni intellettuali, alla fede, fino all’Amore, appunto, che tra i doni resta l’unico che è eterno, perché compatibile, anzi essenza stessa della visione di Dio nel Regno. L’Amore come carisma dei carismi, dunque, come criterio di discernimento all’interno di tutti gli altri e come discernimento all’interno della stessa comunità cristiana, riconosciuta proprio a partire dai legami che tengono unite le persone. Un Carisma che non è solo dono, ma è anche contemporaneamente il Donatore di tutti gli altri, la causa stessa per la quale tutti gli altri possono esistere. Il più silenzioso e nascosto, ma contemporaneamente il più evidente ed arricchente. Il cristianesimo tutto potrebbe racchiudersi all’interno di esso, esso potrebbe essere definito come una fede carismatica, perché fondata sul carisma più grande, dal quale lo stesso Dio è informato, e del quale Egli vuole informare tutti i suoi figli. E’ il mistero: Dio si dona agli uomini, nella Rivelazione, nel Figlio, culmine di essa, ma pure tramite il carisma dell’Amore che sfugge ad ogni categorizzazione, ad ogni denominazione, che si presenta come una sorta di Rivelazione Universale e atematica, perché non racchiudibile all’interno di una professione di fede, se non nello stesso Amore. Il cristianesimo, in quest’ottica, forse e più che in quella dei “cristiani anonimi”, può essere letto come il fondamento di ogni altra religione e di ogni altro credo esistenziale, poiché nessun uomo è esente da questo carisma, che è dono dello Spirito, che sfugge perfino allo stesso Battesimo, effondendosi in ogni essere che viene al mondo. In questo senso, tale carisma, nel Cristianesimo e nell’accettazione della professione di Fede in Cristo come Signore e Salvatore, raggiunge la sua pienezza e tematizzazione. Per altro la superiorità del carisma dell’Amore rispetto agli altri “va valutata non solo secondo il suo oggetto, che è Dio ed il prossimo, ma anche secondo la sua natura: esso è infatti partecipazione dello Spirito Santo e da li proviene in modo particolare”[14] . A questo punto Paolo pone una precisa sistematizzazione della problematica, all’interno di una nuova gerarchia dei carismi. Si diceva già poco più sopra che probabilmente Paolo era a conoscenza del fatto che il dono delle lingue, appunto per la sua misteriosità, era ritenuto fin troppo in considerazione dalla comunità, e questo a scapito dell’unità, visto che esso, facendo pregare la persona, in maniera individuale ed incomprensibile gli altri, la separava in effetti dal resto della comunità, tanto che Paolo parla di un essere, come stranieri all’interno della medesima chiesa (cfr., 14,11). A questo dono, Paolo oppone quello ben più essenziale della profezia, la quale è data per l’edificazione di tutta intera la comunità, anzi le lingue stesse possono ricevere una certa importanza quando e qualora esse siano interpretate, allora e solo allora esse divengono paritarie per importanza alla profezia stessa. Per altro la profezia, mettendo in luce ed in evidenza la Rivelazione, perciò essendo in ultima analisi centrata sulla Parola, si accomunava ai doni apostolici e magisteriali, di cui più sopra. In questo senso l’esercizio delle lingue è valido e veramente utile solo quando è accompagnato pure all’esercizio della mente. Tale interessante notazione collega subito il discorso con certo fideismo che poteva nascere (e potrebbe nascere anche oggi) dall’uso delle lingue e forse anche un certo magismo. E’ evidente come Paolo spazzi vie questa possibilità, assumendo invece come canone di bontà del dono, appunto l’utilizzazione della mente, che mai può rifiutarsi. In questo senso egli si ricollega anche alla missionarietà della Chiesa, affermando che mentre la profezia è conoscibile e riconoscibile da tutti, non così il dono delle lingue che dunque non ha nemmeno, come si sarebbe potuto pensare dalla citazione di Isaia (cfr., 28, 8-11), usata probabilmente nella comunità di Corinto a scopo encomiastico, un senso apologetico, poiché il non credente potrebbe essere convinto del suo bisogno di Cristo, solo dalla testimonianza della Parola, percepita, celebrata ed intuita dalla comunità, intesa intellettualmente, e non da suoni incomprensibili. L’ultimo passaggio di Paolo è dunque, quello di fondare qualche regola pratica sull’uso dei Carismi ad evitare soprattutto la confusione, la quale renderebbe il culto cristiano vicino a quelli ellenici. Interessante inoltre il fatto che il discernimento venga compiuto sicuramente ed in primo luogo dai profeti, ma non solo e non esclusivamente. Tutti possono partecipare ad esso. E’ la comunità intera che è invitata a discernere, tenendo presente che “il criterio essenziale per giudicare il valore dei carismi non è il loro carattere più o meno spettacolare e l’intensità dell’esperienza spirituale ad essi presupposta, bensì la loro utilità in vista dell’edificazione della comunità”[15]. Penso che attraverso la lettera ai Corinzi è già possibile dare una definizione sistematica del carisma che con H. Schlier può dirsi come “ciò in cui lo Spirito si manifesta, aprendo a sua volta l’uomo e la comunità degli uomini, alla comunione con Dio e tra di loro”[16], che può essere ancora meglio chiarita attraverso l’esperienza che Paolo descrive nella sua lettera ai Romani (12, 1-13),  dove torna ad occuparsi dei carismi e in una maniera specifica ed interessante. Il contesto in cui si muove è sempre quello della parenesi, all’interno della quale, anche questa volta, egli si sofferma soprattutto su  alcuni punti già visti: l’unità della Chiesa (ed in questo riprende l’apologo del corpo), ed il culto da donare a Dio inteso come culto spirituale. In questa sede egli mette ancora bene in evidenza come i carismi siano necessariamente doni comunitari, aperti ad ogni cristiano e per il bene della Chiesa, per tale motivo essi non devono far sorgere invidie o gelosie nell’ambito ecclesiale, appunto perché sono per tutti. I carismi, infatti “hanno un obiettivo: tutti quanti se sono veramente tali servono all’edificazione (…) Ciò significa semplicemente alla costruzione della Chiesa come corpo di Cristo, alla comunione -per formare un solo corpo- di coloro che sono in Cristo[17].Interessante è il fatto che egli ne citi in questa lettera sette, ma in maniera duplice, in un primo momento in termini astratti, in seguito poi riferendoli alle persone che li esercitano, come a dire che non esiste carisma senza persona concreta. Questo potrebbe essere uno spunto per intuire che una “teologia dei carismi” o una sistematizzazione di essi all’interno di una struttura fissata, si rivela impossibile. Del carisma si fa esperienza, descriverlo è come limitarlo, mortificarlo entro i ristretti ambiti della concettualizzazione umana. Questo, tornando un attimo indietro, ci rivela che anche l’Amore, come carisma dei carismi, piuttosto che annunziato va vissuto all’interno della realtà ecclesiale. Tale affermazione vale anche per tanti nostri sforzi vocazionali, che dovrebbero basarsi più su una vita che dovrebbe gridare il carisma (qui in senso lato), che su volantini, tentativi vari e banali, che parlano tanto quanto potrebbe definire l’Amore un intero trattato di teologia. Un rilevamento interessante sul testo, il dono della profezia deve essere esercitato secondo la misura della fede, cioè in riferimento alla confessione di essa, alla capacità, donata da Cristo stesso, poi di confessarlo come solo Signore e Salvatore. I doni, comunque, in questa lettera sembrano più esposti in una versione formalizzata, rispetto a quella presentata nella lettera ai Corinzi. Notiamo cioè un passaggio di comprensione di essi. Un ultimo rilevamento ancora, vada notato che la presidenza della comunità, ed i compiti di responsabilità, nascono all’interno di un carisma che viene riconosciuto alla persona. Tale passaggio mi sembra non poco importante, poiché non tutti coloro che percepiscono una vocazione, soprattutto nell’ambito maschile, devono essere “invitati” ad abbracciare il Ministero Ordinato, come invece purtroppo in questo momento storico di profonda crisi vocazionale, è avvenuto.

Ancora un'altra lettera in cui Paolo affronta tale problema è la lettera agli Efesini (4, 1-16), che presenta particolari elementi degni di nota. Al di là della questione sulla paternità, certo è che in questa lettera, quegli elementi più formalizzati di cui parlavamo già per la lettera ai Romani, divengono ancora più evidenti. Sembrerebbe di intuire, infatti, che la fede alla quale ci si riferisce e che sta a fondamento del corpo della Chiesa, tema questo ormai del tutto  evidenziato all’interno della teologia paolina, non è più quella legata a dei messaggeri che hanno visto o conosciuto il Verbo della Vita Incarnato, ma piuttosto ad una tradizione autoritativa che si impone alla Chiesa stessa, tramite l’uso dei Sacramenti. La citazione del Battesimo penso vada letta, infatti sotto questa particolare ottica. In ultima analisi infatti, il Battesimo è l’esposizione sacramentale di ciò che si crede, in questo si può comprendere il legame con il Signore, che Paolo fa.  Per altro il Battesimo è pure centro di unità, in quanto ciò che è professato e celebrato costituisce la base dell’unità ecclesiale, all’interno della quale è possibile vivere le virtù cristiane. In questi termini viene inserito il discorso sui carismi, il quale si basa su una lettura rabbinica che Paolo fa del Salmo 68 (v.19). Se Cristo è asceso al cielo, è perché prima era disceso al fine di portare doni agli uomini, doni che per Paolo sono appunto i carismi, letti questa volta, esclusivamente all’interno dei ministeri ecclesiali, fin quasi a non potersi distinguere più la differenza tra carisma e ministero.Anzi l’unione carisma-ministero, diviene la cifra per comprendere il rapporto fortemente unitario che intercorre all’interno della Chiesa, dove ciascuno deve crescere accanto all’altro per raggiungere la piena maturità  di Cristo. Tale realtà diverrà poi ancora più evidente nelle lettere pastorali, delle quali però in questa sede non mi occupo, per il fatto che viene presupposta un’evoluzione della Chiesa, in senso più istituzionale, che non rientra all’interno del discorso che man mano sto svolgendo, in quanto, a quel punto, l’identificazione tra carisma e ministero è talmente avanzata da non permettere una speculazione teologica singolare in riferimento al carisma stesso.  Ciò che va evidenziato è che, comunque, non si vuole assolutamente nelle lettere paroline, porre in maniera discordante l’attività istituzionale della Chiesa, con la sua attività carismatica, tutt’altro, ciò che viene evidenziato sembrerebbe appunto il contrario. I due aspetti non solo sono tra di loro connessi, ma pure si evidenzia la stessa maniera con la quale Paolo si pone nei confronti dei carismi, egli non pensa ad una Chiesa nella quale essi possono avere valenza autonoma senza essere stati prima sotto il discernimento della Comunità in quanto tale. In questi termini si può ben affermare che Paolo “prende posizione sui fatti spirituali delle sue comunità in maniera molto equilibrata. Laddove vede il pericolo di un facile ed equivoco entusiasmo non cristiano o trova stravaganti spontaneismi che non mirano all’unità e all’armoniosa edificazione della carità…interviene drasticamente… La sua preoccupazione, tuttavia… è anche indirizzata a non mortificare assolutamente la realtà di questi doni che vede concretamente realizzati e suscitati dallo Spirito in vista del bene comunitario”[18].

 

Conclusione

 

Concludere un lavoro sui carismi, non si presenta di certo facile, poiché molto ci sarebbe da dire, anche da un punto di vista puramente pastorale, sul loro uso, sul loro significato nelle assemblee liturgiche, sul senso della loro presenza oggi nella Chiesa. Forse sarebbe interessante leggerne anche il significato nel contesto di questo secolo presente così carico di spiritualità e di “segni dal cielo”, ma si comprende bene come tutto questo esula da un elaborato di Teologia Paolina.

Preferisco perciò concludere con le parole del noto teologo Karl Rahner SJ, che mi sembrano racchiudere tutto il senso di questo elaborato e del significato, anche teologico, della presenza dei carismi nella Chiesa, in questo nostro oggi “L’elemento carismatico appartiene alla essenza della Chiesa in un modo che è tanto necessario e permanente quanto lo sono il ministero gerarchico ed i sacramenti”[19]. Possiamo noi, Corpo di Cristo vivo e vero, prenderne sempre più coscienza, per rendere continuamente e più visibilmente verace la Parola del Signore “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a Colui che hanno trafitto” (Zc 12,10). Dal suo costato aperto, ancora oggi, per noi, il dono dello Spirito.

Bibliografia



[1] cfr, F.LAMBIASI, Lo Spirito Santo: mistero e presenza, Bologna 1987, p. 275-281

[2] cfr., AAS, 35 (1943), p.200

[3] Per un approfondimento, si veda la testimonianza di Anna Mariea Schimidt, <<New Convenant>>, Novembre 1995, pp. 20-25

[4] LG 12:EV 1,317

[5] Per farlo mi servirò di A. VANHOYE, “Carisma”, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica (a cura di P ROSSANO, G.RAVASI, A. GHIRLANDA) Cinisello Balsamo 1988, p.245-250

[6] A. ROMANO, “Carisma”, in Dizionario Enciclopedico di Spiritualità (a cura di  E.ANCILLI e del PONTIFICIO ISTITUTO DI SPIRITUALITA’ DEL TERESIANUM), Roma 1990, p. 422

[7] cfr., ivi

[8] cfr., ivi

[9] C.A. BERNARD, Teologia Spirituale, Roma 1982, p. 519

[10] cfr., M.BALAGUE’, “Carismi”, in Enciclopedia della Bibbia  (vol. 2), Torino 1969, p.135-140

[11] C.MOLARI, “Mezzi per lo sviluppo spirituale”, in Corso di Spiritualità. Esperienza- Sistematica-Proiezioni, B.SECONDIN-T. GOFFI (edd.), Brescia 1989, p.509

[12] Per farlo mi servirò in questa sede, del Nuovo Grande Commentario Biblico (a cura di  R.E.BROWN, J.A. FITZMYER, R.E. MURPHY e nell’edizione italiana di F. DELLA VECCHIA, G.SEGALLA, M. VIRONDA), Brescia 1998.

[13] La differenza tra i due doni sarebbe basata sul fatto che mentre il primo, quello fatto agli apostoli si manifesterebbe come un vero e proprio parlare in lingue straniere, la glossolalia sarebbe un paralare “lingue sconosciute”, ovvero permettere al cuore, toccato dallo Spirito di esprimersi liberamente, così come sente, attraverso un linguaggio metalinguistico.

[14] C.A. BERNARD, op. cit., p.519

[15] C.A. BERNARD, op. cit., p.519

[16] H. SCHLIER, Linee fondamentali di una teologia paolina, Brescia 1985, p.163

[17] ivi

[18] A. ROMANO, in op. cit., p.423

[19] citato in  P.G.MANSFIELD, Come una Nuova Pentecoste, Milano 1997, p.9

  1. BERNARD C.A., Teologia Spirituale, Roma 1982
  1. LAMBIASI F., Lo Spirito Santo: mistero e presenza, Bologna 1987
  2. GALLAGHER MANSFIELD P., Come una Nuova Pentecoste, Milano 1997
  3. Nuovo Dizionario di Teologia Biblica (a cura di ROSSANO P., RAVASI G.,  GHIRLANDA A.), Cinisello Balsamo 1988
  4. Dizionario Enciclopedico di Spiritualità (a cura di  ANCILLI E. e del PONTIFICIO ISTITUTO DI SPIRITUALITA’ DEL TERESIANUM), Roma 1990
  5. Enciclopedia della Bibbia  (vol. 2), Torino 1969
  6. Corso di Spiritualità. Esperienza- Sistematica-Proiezioni, SECONDIN B.- GOFFI T. (edd.), Brescia 1989
  7. Nuovo Grande Commentario Biblico (a cura di  BROWN R.E, FITZMYER J.A, MURPHY R.E. e nell’edizione italiana di DELLA VECCHIA F., SEGALLA G., VIRONDA M.), Brescia 1998.
  1. SCHLIER H., Linee fondamentali di una teologia paolina, Brescia 1985
[Modificato da MARIOCAPALBO 19/04/2013 12:47]