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Insegnamento umano e Maestro divino (11, 36 - 14, 46)

Funzione della parola nell'insegnamento.

11. 36.Entro questi limiti hanno avuto valore le parole. Tanto per valutarle al massimo, ci stimolano alla ricerca dell'oggetto, non ce lo rappresentano alla conoscenza. Mi insegna soltanto chi mi rappresenta o alla vista o all'udito o anche alla mente gli oggetti che voglio conoscere. Dunque mediante le parole si apprendono soltanto le parole, anzi il suono frastornante delle parole. Se infatti non è possibile che ciò che non è segno sia parola, non so se è parola, sebbene sia stata già pronunciata, finché non ne conosco il significato. Con la conoscenza degli oggetti, si effettua anche la conoscenza delle parole. Al contrario con l'udire le parole non si apprendono neanche le parole. Difatti non si apprendono le parole che si conoscono e si può affermare di avere appreso quelle che non si conoscono soltanto dopo averne avuto il significato. Ed esso risulta non dalla percezione delle parole pronunziate, ma dalla conoscenza degli oggetti significati. È ragionamento e discorso innegabile che, quando si pronunciano le parole, o se ne conosce o non se ne conosce il significato; se si conosce, non si apprende, piuttosto si rievoca; se poi non si conosce, neppure si rievoca, ma forse si è invitati alla ricerca.

Limiti della parola nell'insegnamento.

11. 37.Potrai obiettare che non si possono conoscere quei copricapo, di cui si percepisce soltanto il nome come suono, se non dopo averli visti e che non si conosce perfettamente il nome stesso se non dopo averli conosciuti, ma che soltanto mediante le parole si è appreso l'episodio dei tre fanciulli, e cioè come hanno superato con fede sincera il rogo fatto preparare dal re, quali lodi hanno cantato a Dio, quale elogio hanno meritato perfino dal nemico. Rispondo che noi conosciamo già ogni oggetto significato da quelle parole. Già conoscevo che cosa sono tre fanciulli, fornace, fuoco, re, infine illesi dal fuoco e tutto il resto che quelle parole significano. Al contrario Anania, Azaria e Misael mi sono ignoti come le sarabare e a conoscerli non mi hanno giovato affatto tutti questi nomi e non potranno ormai più aiutarmi. E confesso di avere fede e non scienza che tutte le notizie contenute in quella storia sono avvenute in quel tempo così come sono state narrate. La differenza la conobbero anche coloro ai quali crediamo. Dice il Profeta: Se non crederete, non conseguirete con l'intelletto 17. Non l'avrebbe detto certamente se non avesse ritenuto che non differiscono. Dunque ciò che conseguo con l'intelletto, lo credo anche, ma non tutto ciò che credo lo conseguo con l'intelletto. E di tutto ciò che conseguo con l'intelletto ho scienza, ma non ho scienza di tutto ciò che credo. Ma non per questo non ho scienza dell'utilità di credere molte cose di cui non ho scienza. A tale utilità assegno anche la vicenda dei tre fanciulli. Dunque giacché di molte cose non posso avere scienza, ho scienza della grande utilità di crederle.

Nell'interiorità parla il Maestro divino.

11. 38.Sul mondo intelligibile poi non ci poniamo in colloquio con l'individuo che parla all'esterno, ma con la verità che nell'interiorità regge la mente stessa, stimolati al colloquio forse dalle parole. E insegna colui con cui si dialoga, Cristo, di cui è stato detto che abita nell'uomo interiore, cioè l'eternamente immutabile potere e sapienza di Dio 18. Si pone in colloquio con lei ogni anima ragionevole, ma essa si rivela a ciascuno nei limiti con cui può averne conoscenza secondo la buona o cattiva volontà. E il fatto che può sfuggire non avviene per difetto della verità con cui ci si rapporta, come non è difetto della luce sensibile che la vista spesso s'inganna. Ma noi dobbiamo,ammettere che ci si rapporta alla luce per le cose visibili perché ce le mostri secondo il limite della nostra facoltà.

Senso, parola, insegnamento.

12. 39. Dunque per i colori ci volgiamo alla luce e per gli altri sensibili che si percepiscono col corpo ci volgiamo alle proprietà delle cose, anche esse corpo, e ai sensi stessi, di cui l'intelligenza si serve come strumenti per conoscere i sensibili. Per gli intelligibili al contrario ci volgiamo mediante il pensiero alla verità interiore. Quale prova dunque si può addurre ancora per evidenziare che con le parole si conosce qualche cosa al di là del suono stesso che colpisce l'udito? Infatti tutti gli oggetti che ci rappresentiamo o ce li rappresentiamo con il senso o con l'intelligenza. Quelli sono sensibili, questi intelligibili o, per parlare nel gergo dei nostri scrittori, quelli carnali, questi spirituali. Quando ci si interroga sui primi, si può rispondere se l'oggetto è presente fisicamente, ad esempio se, mentre si sta guardando la luna nuova, ci si chiede quale o dove sia. In questo caso, chi richiede, se non vede, crede alla parola, ma spesso non ci crede, comunque non apprende se egli stesso non vede l'oggetto di cui si parla. Ma allora non apprende dalle parole ma dagli oggetti stessi e dai sensi. Le parole, mentre vede, hanno il medesimo suono che ebbero quando non vedeva. Quando poi si pone il problema non dei sensibili percepiti immediatamente, ma di quelli già percepiti, il nostro discorso non riguarda le cose in sé, ma i loro fantasmi conservati nella memoria. Allora non saprei proprio come quelle cose si possano considerar vere, poiché ce ne rappresentiamo le copie, salvo che si preferisca dire di non vederle e percepirle attualmente, ma di averle viste e percepite. Cosi noi portiamo nei repertori della memoria come mezzi d'insegnamento i fantasmi dei sensibili già percepiti. Quando li facciamo oggetto di pensiero, siamo consapevoli di non errare nel parlarne, ma essi sono mezzi di ammaestramento soltanto per noi. Chi ascolta, se li ha percepiti immediatamente, non apprende dalle mie parole, ma riconosce poiché anche egli si è rappresentato i fantasmi. Se poi non li ha percepiti da sé, chiunque capisce che, anziché apprendere, crede alle parole.

Pensiero, parole, insegnamento.

12. 40.Quando poi si tratta degli oggetti che conosciamo con l'intelligenza, cioè con atto di puro pensiero, si esprimono concetti di cui si ha intuizione nella luce interiore della verità. Da essa viene illuminato con godimento l'uomo che è considerato interiore. Ma anche in tal caso un nostro uditore, se li contempla con il puro occhio interiore, sa quel che dico dal proprio pensiero, non dalle mie parole. Dunque pur esprimendo dei veri, non insegno neanche a lui, che ha intuizione dei veri, perché è ammaestrato non dalle mie parole ma dall'oggetto stesso che Dio gli manifesta all'interiorità. Ne potrebbe dunque parlare anche in un dialogo. Pertanto sarebbe assurdo pensare che è ammaestrato dal mio discorso se, prima che io parli, potrebbe esporli dialogando. Spesso avviene che un tale neghi in un dialogo qualche cosa e poi sia spinto ad affermarla in un altro dialogo. Il fatto si verifica a causa della debolezza di chi guarda poiché è incapace a riflettere la luce intelligibile sulla totalità dell'oggetto. Allora è esortato a farlo per parti, quando dialoga sulle parti, da cui risulta l'intero che egli non era capace di scorgere nel tutto. Se vi è condotto dalle parole dell'altro dialogante, esse non insegnano ma discernono se egli è idoneo ad apprendere allo stesso modo dell'interlocutore. Ad esempio, io ti potrei chiedere sull'argomento in esame, se cioè si può insegnare con le parole. A te dapprima sembrerebbe assurdo perché non sei capace di scorgere l'intero. Sarebbe quindi opportuno, secondo che le tue forze sono disposte ad ascoltare il maestro interiore, chiederti: " Da chi hai appreso le cose che, sulla base delle mie parole, ritieni vere, di cui sei certo e che affermi di conoscere? ". Tu risponderesti forse che te le ho insegnate io. Ed io replicherei: " E se ti dicessi che ho visto volare un uomo, le mie parole ti renderebbero cosi certo come se tu udissi che i saggi sono più perfetti degli insipienti? ". Diresti di no certamente e risponderesti che la prima affermazione non la credi o che, se proprio dovessi credere, non ne hai scienza, ma che della seconda hai scienza innegabile. Capiresti allora che dalle mie parole non hai appreso nulla, tanto riguardo alla prima, di cui non avresti scienza nonostante la mia affermazione, come riguardo alla seconda, di cui avresti la scienza più perfetta. Anche se tu fossi interrogato separatamente sull'uno e sull'altro, affermeresti decisamente che il primo enunziato ti è ignoto, il secondo noto. Dovresti ammettere allora l'assunto che precedentemente avevi negato, poiché conosceresti che son chiari e certi i principi su cui si fonda, e cioè che l'uditore o ignora che sono veri gli argomenti dei nostri discorsi, o non ignora che son falsi, o sa che son veri. Nel primo dei tre casi si danno o il credere o l'opinare o il dubitare, nel secondo il negare decisamente, nel terzo l'affermare, in nessuno dei tre casi l'apprendere. È ovvio infatti che dalle mie parole non ha appreso nulla tanto chi dopo il nostro discorso non ha acquisito scienza dell'oggetto, come chi sa di avere ascoltato il falso e chi, interrogato, sarebbe capace di fare il medesimo discorso fatto da noi.

Non si apprende dalle parole.

13. 41. Pertanto anche per quanto riguarda gli oggetti che si intuiscono con la mente, inutilmente ascolta il discorso di chi intuisce chi non è capace d'intuirli, fatta riserva che è utile ammetterli per fede finché non se ne ha scienza. Ma chi può intuirli è interiormente discepolo della verità, esternamente è giudice di chi parla o meglio delle parole perché egli stesso ha scienza degli oggetti di cui si parla, sebbene li ignori chi ne parla. Ad esempio un tale della setta degli Epicurei, che ritiene l'anima mortale, espone gli argomenti che sull'immortalità sono stati proposti dai più eccellenti pensatori alla presenza di chi è capace di comprendere l'essenza degli esseri spirituali. Questi giudica che l'altro dice il vero, ma quegli che parla non solo ignora di esporre pensieri veri, anzi li giudica assolutamente falsi. Si deve dunque pensare che insegna ciò che ignora? Eppure usa le medesime parole che se ne avesse scienza.

Difficoltà del linguaggio.

13. 42. Dunque alle parole non rimane neanche la funzione di farci per lo meno conoscere il modo di pensare di chi parla perché rimane problematico se ritiene innegabili le nozioni che esprime. Aggiungi coloro che mentono o fingono. Dal loro esempio si può facilmente comprendere che con le parole non solo non si svela il pensiero, ma si può anche occultarlo. Non metto in discussione che le parole degli individui veritieri tendono e in certo senso s'impegnano a svelare il pensiero di chi parla e, se non si permettesse di parlare a chi mente, per universale consenso, otterrebbero l'intento sebbene si esperimenta in noi e negli altri che si possono pronunciare parole senza riferimento a ciò che si pensa. Avviene in due modi, secondo me. Prima di tutto un discorso imparato a memoria e ripetuto più volte, si pronuncia pensando ad altro. Avviene spesso quando si canta un inno. In secondo luogo, senza nostra volontà esce una parola per un'altra per un errore della lingua. Anche in questo caso con l'udito non si percepiscono i segni dei concetti che si hanno nel pensiero. Anche coloro che mentiscono pensano certamente alle cose che dicono al punto che, sebbene non si sappia se dicono il vero, si sa tuttavia che hanno nel pensiero ciò che dicono, salvo che non si verifichi anche per loro uno dei due casi accennati. Se poi qualcuno sostiene che tali fenomeni si verificano raramente e, quando se ne verifica qualcuno, si manifesta, non faccio obiezioni. Comunque spesso non è manifesto e a me spesso, udendo gli altri, è sfuggito.

Subiettività del linguaggio.

13. 43.Ma ad essi si aggiunge un altro caso, molto comune e sorgente di innumerevoli aspri dissensi. È il caso di chi parla ed esprime il proprio pensiero, ma soltanto per sé e per qualche altro; per l'interlocutore e alcuni altri intende un'altra cosa. Supponiamo che un tale alla nostra presenza dica che l'uomo è inferiore per valore ad alcune bestie. Noi immediatamente diamo segni di insofferenza e con grande energia attacchiamo un'opinione cosi falsa e pericolosa. Quegli invece forse considera valore le forze fisiche ed esprime con questa parola il proprio pensiero, non mentisce, non erra nei concetti, non formula un discorso affidato alla memoria pensando ad altro e non proferisce, per errore di lingua, parole in disaccordo col proprio pensiero; soltanto definisce l'oggetto del suo pensiero con una parola che noi non useremmo. Glielo accorderemmo subito se potessimo scorgere il suo pensiero, sebbene, manifestandoci la propria teoria con quella parola, non è riuscito ancora a chiarircela. Affermano che a questo errore possono rimediare le definizioni. Nell'argomento in parola, se si definisse che cos'è la virtù, apparirebbe, dicono, che la controversia non riguarda il concetto ma la parola. E sia pure, voglio ammetterlo. Ma quanti uomini capaci di definire si trovano? Per di più sono state fatte molte obiezioni contro l'arte del definire. Ma non è opportuno trattarle qui ed io non le approvo del tutto.

Disattenzione di chi ascolta.

13. 44.Ometto che molte cose non le udiamo bene e ne discutiamo a lungo e molto come se le avessimo udite. Ad esempio, poco fa, riguardo ad una parola punica, mentre io dicevo che significa misericordia, tu sostenevi di avere udito dai migliori intenditori di questa lingua che significa pietà. Ed io, contrastandoti, affermavo che ti era sfuggito quanto avevi udito. Mi sembrava che non avevi detto pietà ma fede. Eppure eri seduto molto vicino a me e le due parole non possono assolutamente ingannare l'udito per somiglianza di suono. Eppure a lungo ho sospettato che non eri cosciente di ciò che ti era stato detto. Ero io invece ad essere incosciente di ciò che avevi detto. Se ti avessi bene udito, certamente non mi sarebbe sembrato assurdo che misericordia e pietà in punico sono designate da un solo nome. Cose che spesso succedono. Ma, come ho detto, lasciamo perdere. Non deve sembrare che svalorizzo le parole per la disattenzione di chi ascolta o anche per la sordità degli individui. Preoccupano di più i casi che ho esposto precedentemente perché in essi non si riesce ad affermare i pensieri di chi parla, sebbene le parole siano state percepite chiaramente e dette in latino. Eppur siamo della stessa lingua.

Il discepolo non apprende ascoltando il maestro ....

13. 45. Ma alla fin fine voglio concedere senza riserve che quando le parole sono state afferrate dall'udito di chi le capisce, possa esser noto a lui che chi parla aveva nel pensiero i concetti da esse significate. Ma forse viene a sapere anche, e questo è ora il problema, se ha detto il vero?

14. 45. E i maestri dichiarano forse che siano ritenuti per l'apprendimento i loro pensieri anziché le stesse discipline che pensano di trasmettere con la parola? E chi è cosi scioccamente amante del sapere da mandare a scuola il proprio figlio perché apprenda ciò che pensa il maestro? Piuttosto, quando hanno esposto con parole tutte le discipline che dichiarano d'insegnare, comprese quelle della morale e della filosofia, allora i così detti discepoli considerano nella loro interiorità se le nozioni sono vere, sforzandosi, cioè, d'intuire la verità ideale. Soltanto allora apprendono e quando scopriranno nell'interiorità che le nozioni sono vere, lodano, senza pensare che non lodano i docenti ma i dotti se, tuttavia, anche costoro sanno quel che dicono. S'ingannano dunque gli uomini nel chiamare maestri quelli che non lo sono perché il più delle volte fra il momento del discorso e quello della conoscenza non v'è discontinuità; e poiché dopo l'esposizione dell'insegnante immediatamente apprendono nell'interiorità, suppongono di avere appreso da colui che ha esposto dall'esterno.

... ma riportandosi nell'interiorità.

14. 46. Ma un'altra volta, se Dio lo concede, esamineremo l'utilità della parola in generale. A ben considerarla, non è trascurabile. Ho già premesso di non concederle al momento più del necessario. Non dobbiamo infatti soltanto aver fede, ma cominciare anche ad avere intelligenza della verità di ciò che per divino magistero è stato scritto, che cioè non dobbiamo considerare nessuno come nostro maestro sulla terra poiché l'unico maestro di tutti è in cielo 19. Che cosa significhi poi in cielo ce lo insegnerà quegli, dal quale, per mezzo degli uomini con segni dall'esterno, siamo avvertiti a farci ammaestrare rientrando verso di lui nell'interiorità. Amarlo e conoscerlo è felicità. Tutti gridano di cercarla, pochi si allietano di averla veramente trovata. Ed ora vorrei che tu mi dica che ne pensi di tutto questo mio discorso. Se conosci che è vera la tesi esposta, interrogato sull'una o l'altra, avresti dovuto averne scienza. Puoi comprendere dunque da chi le hai apprese. Non da me certamente perché avresti risposto ad ogni mia domanda. Se poi non sai che la tesi è vera, non ti ho insegnato né io né lui: io perché non sono mai capace d'insegnare, lui perché tu non sei ancora capace d'apprendere.
Ad. - Io invece ho appreso dall'avvertimento contenuto nelle tue parole che l'uomo mediante le parole è soltanto avvertito ad apprendere e che è molto poco un certo manifestarsi, mediante il discorso, del pensiero di chi parla. Ho appreso inoltre che insegna se si può esprimere il vero quegli soltanto che, mentre parlava dal di fuori, ci ha avvertito che abita nell'interiorità. Con la sua grazia tanto più lo amerò quanto più progredirò nell'apprendere. Tuttavia ti ringrazio della tua esposizione non dialogata, soprattutto perché ha dissolto completamente tutte le obiezioni che ero pronto ad opporti. Non hai proprio lasciato nessuna delle difficoltà che mi rendevano dubbioso e su cui non mi rispondesse la parola interiore, come era affermato dalle tue parole.

1 - Mt 6, 6.

2 - 1 Cor 3, 16.

3 - Ef 3, 17.

4 - Sal 4, 5-6.

5 - Mt 6, 9-13.

6 - VIRGILIO, Aen. 2, 659.

7 - TERENZIO, Andria 204.

8 - 2 Cor 1, 19.

9 - 2 Cor 11, 6.

10 - CICERONE, In Verr. act. sec. 2, 42, 104.

11 - CICERONE, Tusc. 1, 7, 14.

12 - VIRGILIO, Aen. 2, 659.

13 - Rm 16, 18; Fil 3, 19.

14 - PERSIO, Sat. 3, 32.

15 - PERSIO, Sat. 3, 35-38.

16 - Dn 3, 94.

17 - Is 7, 9 (sec. LXX).

18 - Ef 3, 16-17; 1 Cor 1, 24.

19 - Mt 23, 8-10.