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QUESTIONI PRELIMINARI

QUESTIONI PRELIMINARI

I

Premessa alla premessa: come studiare Agostino

Grazia e libertà, tema fondamentale ed essenziale, ma anche tema difficile. Difficile in sé, perché varca le soglie del mistero e v'entra dentro, difficile in Agostino perché dovette farsi strada con le proprie forze, da pioniere; difficile nella storia della teologia, perché soggetto a tante soluzioni contrastanti. Qui più che altrove occorre trovare il giusto metodo per studiare gli scritti del vescovo d'Ippona, leggendolo con i suoi stessi occhi ed esponendolo così com'è, senza aggiungere né togliere nulla. L'ho detto altrove 1. Qui vorrei aggiungere che questo è un principio critico insostituibile, ma che non è il solo. Occorre ricordarne un altro non meno necessario: leggere tutto Agostino e cercare di concordarlo con se stesso. Principio di buon senso, si dirà. Certo, è un principio di buon senso, ma spesso dimenticato. Si deve perciò ricordarlo. E' quello stesso che il nostro dottore applicò allo studio della Scrittura, e lo difese, e ad esso richiamò continuamente i suoi avversari, dei quali il difetto dominante, a suo giudizio, era proprio quello di non tener presente tutta la Scrittura o di non fare nessuno sforzo per concordarla con se stessa. Il primo rimprovero lo fece ai manichei 2, il secondo ai pelagiani, in particolare a Celestio 3. Non è troppo chiedere che questo principio sia applicato anche a lui. Non già per stabilire un paragone tra contenuti e contenuti - nessuno ha messo più fortemente in rilievo l'essenziale differenza tra l'autorità della Scrittura e quella di un qualsiasi altro autore 4 -, ma per ravvicinare un metodo interpretativo, il quale, trattandosi d'uno scritto, non può non andare soggetto agli stessi criteri generali.
Non v'è dubbio che leggendo tutto Agostino si possano trovare, e si trovino, affermazioni contrastanti. Ma in questo caso, non infrequente, invece di ricorrere al comodo principio che egli si contraddica - e qualcuno aggiunge: di continuo -, occorre chiedersi se questi apparenti contrasti non appartengano all'insegnamento della Scrittura che il vescovo d'Ippona interpreta e vuol concordare. Se risulterà, come spesso risulta, che nella Scrittura ci siano affermazioni diverse e apparentemente contrastanti, come, per fare qualche esempio, libertà e grazia, fede e opere, giustizia e peccato, merito e dono, il problema si sposta; si sposta, dico, da Agostino alla stessa Scrittura. Allora le domande da porsi sono altre e un po' diverse: non già se il vescovo d'Ippona è caduto in contraddizioni, ma se ha interpretato bene la Scrittura, se l'ha tenuta presente in tutte le sue parti, se è riuscito a concordarla con se stessa. Dalla risposta a queste domande dipenderà il giudizio sull'omogeneità e la concordia interna del suo insegnamento.
Se invece risulterà che le affermazioni contrastanti sono sue proprie, prima di ricorrere al principio suddetto bisogna chiedersi - è l'onestà scientifica che lo suggerisce - se egli non offra un termine medio per concordare quelle affermazioni o, qualora esplicitamente non l'offrisse egli stesso, se non lo si possa ragionevolmente supporre. Di ambedue questi casi ho portato altrove esempi validi e, ritengo, convincenti 5.
Seguendo questo metodo, che non esula dalle leggi della critica e meno ancora da quelle del buon senso che ne è il fondamento, gli spazi di eventuali contraddizioni si restringono e forse spariscono affatto. Agostino apparirà non tanto un pensatore geniale ma frammentario, che lancia secondo l'occasione ora un'affermazione ora un'altra, anche se contraria, bensì piuttosto il filosofo e il teologo delle grandi sintesi che sa stringere insieme nell'unità gli aspetti più diversi dei problemi. Sulla linea di queste grandi sintesi occorre studiare il maestro d'Ippona, come, del resto, ogni grande maestro. Così mi studierò di fare, esponendo, non difendendo Agostino. Esponendo: questo è necessario prima di tutto. Non si può né difendere né criticare un autore senza averlo presente in tutte le sue parti. E' utile non dimenticare quest'ovvio principio di ermeneutica a cui cercherò di attenermi.

II

Premessa storico- dottrinale

Raccogliendo questo volume le ultime opere agostiniane sulla libertà e la grazia, la premessa non può non riguardare l'occasione e la storia della loro composizione. Questa ha una sola origine: la celebre lettera 194. Infatti, da questa lettera nacque il De gratia et libero arbitrio, dal De gratia et libero arbitrio il De correptione et gratia, dal De correptione et gratia il De praedestinatione sanctorum e il De dono perseverantiae, che erano, nell'intenzione dell'autore, due libri di una sola opera. Ecco come si svolse l'intreccio delle cause.

1. La lettera 194

Fu scritta al presbitero romano Sisto - divenuto poi Sommo Pontefice col nome di Sisto III -, in un momento cruciale della controversia pelagiana: verso il 418. Sisto aveva avuto fama, arrivata anche ad Agostino, di essere favorevole ai pelagiani. Non fa meraviglia: tra gli aristocratici romani non dovevano essere pochi con un tale atteggiamento. Le esitazioni di Papa Zosimo 1 potrebbero esserne una conseguenza. Ma quando questi condannò il pelagianesimo con la celebre lettera Tractoria, anche Sisto ne divenne avversario e lo combatté con tanta forza che Agostino dovette richiamarlo alla prudenza e alla mitezza 2.
Del cambiato atteggiamento Sisto ne informò il vescovo d'Ippona, il quale gli rispose con una breve lettera, rallegrandosi della sua fede e promettendogli una lettera più lunga. E' la lettera 194, che Agostino chiama anche trattato: librum vel epistulam meam (Ep. 214,2) e che comincia: " Nella lettera che ti ho fatto recapitare 3... t'avevo promesso di inviartene una più lunga... "; e afferma: " C'intratteniamo un po' più a lungo con te per raccomandarti d'insistere nell'istruire coloro che, da quanto ci risulta, hai troppo insistito ad atterrire " 4.
Basta questo inizio per rivelare l'animo di Agostino: egli vuole chiarire, approfondire, illuminare, non imporre un insegnamento; capire le Scritture e aiutare gli altri a capirle. Si vedrà meglio dalla conclusione della lettera.
Questa comincia con un luminoso presupposto, che è il seguente: predicando la grazia non si toglie, ma si rafforza il libero arbitrio. Ciò che aveva spiegato alcuni anni prima nel De spiritu et littera 5. Qui si limita a scrivere: " Quanto al fatto ch'essi credono - si riferisce evidentemente ai pelagiani -, che si toglie loro il libero arbitrio qualora ammettano che non si può avere nemmeno la stessa buona volontà senza l'aiuto di Dio, non capiscono che in tal modo non rafforzano il libero arbitrio ma lo gonfiano facendolo vagare nel vuoto invece di fondarlo in Dio come su di una solida roccia " 6.
Posto questo chiaro fondamento l'autore affronta la " difficilissima questione " della grazia 7. Si noti, di passaggio, quest' espressione. Agostino sa che la questione è molto difficile e che pochi possono comprenderla 8; perciò non vuol dire nulla di suo, ma ascoltare con umiltà e attenzione le parole dell'Apostolo, che riferisce ampiamente.
L'interpretazione che dà dell'insegnamento di S. Paolo è quella stessa che aveva dato nelle molte opere precedenti e nelle non poche che seguiranno. Eccola in breve.
- I termini del mistero sono questi: a chi si perde viene inflitta la pena dovuta, a chi si salva viene elargita la grazia non dovuta, " per cui il primo non può lamentarsi di non meritare la pena e il secondo non può vantarsi di meritare la grazia " (2,4).
- L'elezione divina non viene fatta " per la prerogativa del merito, né per l'ineluttabilità del fato, né per un cieco capriccio della fortuna, ma solo a causa dell'abissale ricchezza della sapienza e scienza di Dio " (2,5).
- E ciò perché " Dio abbia la gloria (Rom 11,36) di rendere giusti i peccatori col dar loro gratuitamente la sua grazia " (3,6).
- La fede che opera per mezzo dell'amore (Gal 5,6) è un dono di Dio (3, 9 - 15).
- La preghiera è un dono di Dio: " Perché non si pensi che precedono almeno i meriti della preghiera, in compenso dei quali sarebbe concessa una grazia non gratuita..., anche la stessa preghiera si trova tra i doni della grazia " (4,16).
- La vita eterna suppone, è vero, i meriti, ma questi suppongono la grazia, dono gratuito; perciò " quando Dio premia i nostri meriti non fa altro che premiare i suoi doni " (5,19).
- La gratuità dell'elezione divina appare dalla sorte dei bambini, dei quali solo alcuni muoiono col battesimo (7, 31 - 32).
- Di fronte al mistero della divina elezione due sole certezze illuminano il cristiano che vive di fede: 1) che in Dio non c'è iniquità; 2) che i disegni divini sono imperscrutabili (6,23).
Mentre Agostino, interpretando S. Paolo, era tutto rivolto ad esaltare la misericordia del Signore nella salvezza dei giusti, i pelagiani, guardando l'altra faccia del mistero, che è la condizione e la sorte dei peccatori che si perdono, proponevano le loro difficoltà e si avventuravano a risolvere l'argomento tratto dai bambini che muoiono senza battesimo. Le difficoltà erano soprattutto due: 1) " è ingiusto che in un processo per una medesima colpa, uno venga assolto e l'altro punito " (2,5); 2) " coloro che non vogliono vivere bene e secondo la fede si scuseranno dicendo: 'Che cosa abbiamo fatto noi che viviamo male... dal momento che nessuno può opporsi alla volontà di Dio che ci fece ostinare col rifiutarci la sua grazia?' " (6, 22 - 23). La soluzione invece della sorte diversa dei bambini viene chiesta non ai meriti che non ci sono, ma ai meriti o demeriti che ci sarebbero stati se fossero vissuti più a lungo, cioè ai futuribili: Dio punisce " le cattive azioni, non quelle compiute, ma quelle che si sarebbe potuto compiere " (9,42).
A questa soluzione e a quelle difficoltà Agostino, che non è abituato a lasciarne cadere alcuna, risponde. Dimostrare l'assurdità di questa soluzione, che ricorreva ai futuribili, non era difficile, tanto essa appare strana e incredibile (9,42 - 10,43); più difficile rispondere alle difficoltà, perché toccano da vicino il mistero.
Alla prima risponde che se è vero che la sorte di tutti gli uomini è la stessa, da questa identità risaltano però la giustizia di Dio, che retribuisce ad alcuni secondo i loro demeriti, e la misericordia di Dio che salva altri anche senza alcun merito, affinché " sia messo in risalto che cosa meriti il peccato in base alla giustizia... "e" che cosa elargisca la grazia " (2,5). Infatti " tutte le vie del Signore sono bontà e verità (Ps 24,10)... La bontà e la verità di Dio sono in pieno accordo tra loro... in modo che la bontà non rechi pregiudizio alla verità con cui è punito chi lo merita, né la verità alla misericordia con cui è salvato chi non lo merita " (3,6).
Alla seconda ricordando che Dio iniquitatem... damnare novit, non facere. Perciò " come dalla volontà di Dio proviene la natura umana degna, senza nessun dubbio, di lode; così dalla volontà dell'uomo proviene la colpa degna, senza che nessuno ricusi d'ammetterlo, di condanna " (6,30). Quelli che vivono male de suo male vivunt (6, 22); e chi non obbedisce a Dio, " perché mai non obbedisce, nisi sua pessima voluntate? " (6,24). Sono perciò inescusabili (6, 25 - 28). L'indurimento di cui parla S.Paolo (Rom 9,18) altro non è che la permissione divina, che lascia ostinare il peccatore non impertiendo malitiam sed non impertiendo misericordiam (3,14).
Concludendo chiede al destinatario della lunga lettera che, se venisse a conoscenza di altri argomenti escogitati su questo punto contro la fede cattolica, glieli comunichi, perché possa, se sarà necessario, approfondire le Scritture e contribuire da parte sua a difendere la purezza o, com'egli dice, la " verginità " della fede. " Dal turbamento che ci procurano gli eretici - scrive con profonda ragione teologica e pastorale - viene svegliato come dal sonno della pigrizia il nostro zelo affinché indaghiamo più attentamente le Scritture con le quali poter replicare ad essi perché non rechino danno all'ovile di Cristo " (10,47) 9.

2. Le sorti della lettera

La lettera ebbe una sorte che Agostino non poteva aspettarsi. S'aspettava nuove difficoltà che gli venissero dal fronte pelagiano, e aveva pregato Sisto che, se ci fossero state, gliele avesse comunicate, ma non se le aspettava dal fronte interno, e per di più monastico. Avvenne proprio questo. Quella lettera suscitò una serie di reazioni a catena, il cui ultimo anello può considerarsi la dura presa di posizione dei monaci di Marsiglia, i quali si spinsero tanto avanti, non si sa se per ignoranza o in mala fede, fino ad interpretare Agostino, a dispetto delle sue risposte, in chiave predestinaziana; interpretazione che durerà per molti secoli e dura ancora. Ecco in ogni modo come andarono le cose.
Appena pubblicata, la lettera si diffuse rapidamente nel bacino mediterraneo. Un monaco di Adrumeto, città della Bizacena (oggi Sussa, in Tunisia), di nome Floro, recatosi per motivi di carità ad Uzali, sua città natale, ve la trovò; la lesse, gli piacque, la trascrisse sotto dettatura del monaco Felice, suo compagno, e la fece portare al monastero " come un pane di benedizione ", mentre egli si trattenne qualche tempo a Cartagine. Nel monastero la lettera fu letta all'insaputa dell'abate e creò un subbuglio. Alcuni fratelli di poca o nessuna cultura (imperiti) ne furono turbati profondamente. Floro, tornato da Cartagine, cercò di spiegare e chiarire, ma inutilmente. Si ricorse ad Evodio, vescovo di Uzali, discepolo ed amico di Agostino 10; questi rispose 11, ma la pace nel monastero non tornò. Si fece appello al " santo prete Sabino ", il quale " lesse il trattato e lo spiegò nel modo più chiaro; ma neppure ciò apportò la guarigione alla ferita del loro animo ". Vollero andare ad Ippona anche contro il parere dell'abate. Vi andarono di fatto Cresconio e Felice, raggiunti poco dopo da un altro Felice 12.
Che cos'era accaduto? Quel che c'era da aspettarsi. Dimenticando il presupposto sulla grazia e la libertà da cui il discorso agostiniano partiva (2,3) e l'avvertimento che si trattava di una " questione difficilissima " (2,5) in cui è necessaria molta umiltà e la disposizione a non voler sapere più di quanto si possa sapere, non prendendo in nessuna considerazione, inoltre, la risposta di Agostino alle difficoltà dei pelagiani (vedi sopra), quei monaci, sprovvisti di teologia e di cultura, ne conclusero, semplicisticamente, che chi predicava la grazia negava il libero arbitrio e, quel che è peggio, che nel giorno del giudizio Dio non renderebbe a ciascuno secondo le sue opere 13. Essi, poi, per proprio conto, difendevano il libero arbitrio in modo da negare la grazia, affermando che la grazia ci viene data secondo i nostri meriti 14, che era, come si sa, una delle tesi fondamentali del pelagianesimo, già condannata, oltre tutto, dal sinodo di Diospoli e dallo stesso Pelagio 15.

3. La risposta di Agostino

Agostino accolse benevolmente i due monaci e poi il terzo che li raggiunse, s'informò sulla causa del dissenso e, data la loro premura di tornare in monastero per passare ivi la Pasqua, diede loro una lettera per l'abate, nella quale riassumeva i termini della questione, " difficilissima e che solo pochi possono capire " 16, ricordava che la sua lettera era stata scritta contro gli eretici pelagiani - ormai egli non temeva più di chiamarli così -, i quali sostenevano che la grazia ci viene data secondo i nostri meriti, ed era tutta impegnata a dimostrare che senza la grazia non potremmo " compiere in alcun modo opere buone, né pregare con sentimenti di pietà, né credere con retta fede " 17. Detto questo riconduceva il problema della libertà e della grazia a un motivo cristologico: Cristo è salvatore e giudice insieme. Scrive infatti: " Innanzi tutto il Signore Gesù Cristo... è venuto non per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato da lui. Ma in seguito, come scrive l'apostolo Paolo, Dio giudicherà il mondo, e lo giudicherà quando verrà a giudicare i vivi ed i morti, come confessa tutta la Chiesa nel simbolo. Se, dunque, non c'è la grazia di Dio, in qual modo Dio salverà il mondo? E se non c'è il libero arbitrio, in qual modo giudicherà il mondo? "; e conclude: " Interpretate secondo questa fede il trattato o lettera mia " 18. Scritta la lettera, i due monaci cambiarono opinione lasciandosi convincere di passare la Pasqua ad Ippona per poter tornare in monastero " meglio provvisti di argomenti contro i nuovi eretici pelagiani " 19. Agostino ne approfittò per scrivere un libro sul tema discusso della grazia e della libertà, il De gratia et libero arbitrio.
Passata la Pasqua, scrisse un'altra lettera all'abate per spiegare il ritardato ritorno dei monaci e spiegargli l'impegno che aveva messo per " rinsaldarli nella sana dottrina cattolica, la quale non nega il libero arbitrio al fine di scegliere sia la vita buona sia quella cattiva, ma, d'altra parte, non gli accorda nemmeno tanta capacità che possa fare alcunché senza la grazia di Dio, sia che si tratti di volgersi dal male al bene o di perseverare o di progredire nel bene " 20; e raccomandò, ancora una volta, di non deviare, in una questione tanto difficile, né a destra né a sinistra 21. Diede loro, poi, le due lettere, il trattato su La grazia e il libero arbitrio, tutti i documenti ecclesiastici sulla condanna del pelagianesimo - come aveva desiderato fare fin da principio 22 -, che erano molti 23, e li mandò ad Adrumeto con la preghiera all'abate di mandargli " il fratello Floro " 24.
Dell'analisi della risposta agostiniana nell'opera La grazia e il libero arbitrio, che è fondamentale per la dottrina della grazia, particolarmente a motivo della puntigliosa dimostrazione biblica dell'inseparabile binomio: grazia e libertà, come pure dell'altro: grazia operante e grazia cooperante, e dell'altro ancora: vita eterna, mercede e dono, si dirà a suo luogo. Qui continuiamo con la storia, che è ancora lunga.

4. La replica dei monaci di Adrumeto

Non molto tempo dopo Floro arrivò ad Ippona latore d'una lettera dell'abate Valentino. Questi raccontava l'origine del turbamento e gli effetti di pacificazione che erano seguiti all'intervento di Agostino: i cinque o sei che avevano seminato disordine s'erano placati. " Come talora - scrive -, dalla tristezza nasce la gioia, così noi pure adesso non siamo più afflitti a causa di quegli ignoranti, smaniosi di sapere più di quanto sono capaci, e abbiamo meritato d'essere illuminati dai graditissimi insegnamenti della Santità tua " 25.
Ma l'abate doveva essere male informato. Qualcuno in quel monastero non era restato soddisfatto: partendo dall'insistenza con cui Agostino parlava della necessità della preghiera 26, aveva concluso che non era necessaria la correzione, ma solo la preghiera. " Mi è stato annunziato che qualcuno in quel monastero - ibi quemdam - ha detto che non bisogna correggere nessuno se non osserva i comandamenti di Dio, ma pregare per lui perché li osservi " 27.

L'informatore non potrà essere stato che Floro. Agostino lo aveva trovato, riguardo alle idee sulla libertà e la grazia, " come lo desideravo " 28. Ma c'è da chiedersi: quel ibi quemdam indica solo uno o si trattava d'un gruppo, sia pur piccolo, come nel primo caso? Nella risposta, riproponendo la stessa difficoltà, viene usato il più generico dicunt, o inquiunt. " Non si illudano quelli che dicono: 'Come mai ci viene predicato ed ordinato di allontanarci dal male e di fare il bene, se non siamo noi a fare ciò, ma il volerlo e l'operarlo è in noi opera di Dio?' " 29. Ed ancora: " Dunque, dicono, quelli che ci dirigono si limitino a prescriverci ciò che dobbiamo fare e preghino per noi affinché lo facciamo; ma non ci riprendano e non c'incolpino se non lo faremo " 30. E poco dopo: " In qual maniera, si dice, è per colpa mia che non ho, se quello che non ho non l'ho ricevuto da Colui che è l'unico a darlo...? Infatti così dicono coloro che nelle loro malvagie opere non vogliono essere rimproverati dai sostenitori di questa grazia: 'Prescrivimi cosa io debba fare, e se lo farò, rendi per me grazie a Dio che mi ha concesso di farlo; se non lo farò, non bisogna rimproverare me, ma bisogna pregare Dio perché dia ciò che non ha dato' " 31.
Fosse uno o fossero più coloro che presentavano queste difficoltà, Agostino, fedele al suo proposito di spiegare l'inserimento della grazia nell'azione libera dell'uomo e nella storia della salvezza, allo scopo di difendere la fede cattolica su di un punto tanto delicato, rispose, scrivendo una delle opere più importanti e più difficili, di quante ne ha scritte - e non sono poche -, sull'argomento della grazia: il De correptione et gratia. Un'opera che probabilmente fu accolta bene ad Adrumeto, ma suscitò reazioni violente a Marsiglia. Vediamone rapidamente il contenuto. Un'analisi più ampia a suo luogo come premessa all'opera stessa.

5. La controreplica di Agostino

Il De correptione et gratia prende l'avvio dall'asserita inutilità della correzione, per difenderne la necessità e ribadire alcune tesi fondamentali intorno alla grazia, spaziando nella storia della salvezza interpretata in chiave di libertà. Della libertà dell'uomo si tratta in tutta l'opera.
Afferma prima di tutto che le tre cose necessarie per la salvezza sono: i precetti divini, la correzione fraterna e la preghiera per ottenere la grazia. Questo infatti hanno insegnato gli Apostoli e questo hanno messo in pratica. " Tutte queste cose devono essere fatte, perché gli Apostoli, dottori della Chiesa, le facevano tutte: prescrivevano quello che andava fatto, riprendevano se non veniva fatto, e pregavano perché si facesse " 32. Comincia poi, ancora una volta, a difendere appassionatamente la verità della grazia: " Lasciate, o fratelli miei, che io lotti almeno un poco non contro di voi, che avete un cuore retto nei confronti di Dio, ma contro coloro che nutrono sentimenti terreni, o addirittura contro gli stessi pensieri umani, in favore della verità della grazia celeste e divina " 33.
Messo al sicuro che il malvagio è tale per propria colpa - tuum quippe vitium est quod malus es34, dimostra che la perseveranza nel bene è un grande dono di Dio - magnum Dei munus 35 -; distingue tra la grazia di Adamo e quella di tutti gli uomini, Adamo compreso, dopo il peccato - auxilium sine quo non e auxilium quo 36 -; spiega che altra è la libertas minor che consiste in Adamo nel posse non peccare e altra è la libertas maior che consisterà nel non posse peccare 37, e insiste nel dire che Adamo deseruit et desertus est 38, e così coloro che si perdono deserunt et deseruntur 39.
In quanto al perché di questa permissione divina verso alcuni e della elezione secondo il proposito di altri confessa la sua ignoranza - me ignorare respondeo 40 - e non ha altra ragione da dare se non quella della fede: " Su tutto questo problema noi confessiamo nella maniera più salutare quello che crediamo nella maniera più retta ", e cioè: " Dio, Signore di tutte le cose, le creò tutte buone assai, seppe in precedenza che dai beni sarebbero sorti dei mali, ma conobbe che era più conveniente all'assoluta onnipotenza della sua bontà trarre il bene anche dai mali piuttosto che non permettere l'esistenza dei mali; dunque dette alla vita degli angeli e degli uomini un ordinamento tale da dimostrare in essa in primo luogo quale potere avesse il loro libero arbitrio, in secondo luogo quale potere avesse il beneficio della sua grazia e il giudizio della sua giustizia " 41.
C'è dunque nell' opera agostiniana - profonda e insieme, a causa dell'argomento, difficile -, una chiara presa di coscienza di quanto la rivelazione c'insegna sulla storia della salvezza circa la sorte ineguale delle creature razionali, angeli e uomini; un'insistenza quasi monotona sui due fattori che compongono questa storia, la grazia divina e la libertà umana, che comportano la legge, l'utilità della disciplina ecclesiastica, la necessità della preghiera; un'esaltazione della libertà dell'uomo, opera della grazia; un richiamo pressante al senso del mistero. Un'opera che richiedeva un'attenta riflessione e imponeva un atteggiamento spirituale di umile e serena fiducia in Dio. Destinata a placare le contestazioni, non fece che rinfocolarle. Non già ad Adrumeto, di cui non conosciamo le reazioni, ma possiamo supporre che fossero positive, bensì nei monasteri fondati da Giovanni Cassiano nel Sud della Francia, a Marsiglia.

6. La reazione dei monaci provenzali

Alcuni religiosi di queste comunità - non si sa quanti, ma si ha l'impressione che non fossero pochi - avevano trovato di che ridire nelle opere di Agostino contro Giuliano, ma leggendo quest'ultima opera scoppiarono in un'aperta e radicale opposizione. Di questa tam obrupta dissensio due laici delle Gallie - Prospero ed Ilario - informarono il vescovo d'Ippona 42. Un'esposizione particolareggiata di questa informazione sarà data nell'introduzione alle due opere agostiniane che provocò. Qui basti qualche breve accenno.
Per ragioni di chiarezza è bene distinguere le critiche distruttive e l'esposizione positiva: quelle facili, questa... meno.
La critica di fondo era che la dottrina agostiniana sulla vocazione degli eletti secondo il disegno divino, cioè della predestinazione, costituiva una novità nei riguardi dei Padri ed urtava contro il senso ecclesiastico: " Molti reputano contrarie al pensiero dei Padri e al sentimento della Chiesa tutte le idee che, negli scritti della Santità tua contro l'eresia di Pelagio, hai esposte riguardo alla vocazione degli eletti fondata sul decreto di Dio " 43.
In particolare avevano cinque obiezioni da fare. Quella dottrina: 1) rende inutile lo sforzo sia dei peccatori a rialzarsi sia dei giusti a progredire; 2) sopprime la virtù; 3) induce a una specie di fatalismo; 4) porta a concludere che Dio ha creato nature di specie diverse (manicheismo?) 44; 5) fa che sia inutile e dannosa la predicazione della grazia divina. " E' una novità inutile e non gioverebbe alla predicazione dire che l'elezione di alcuni avviene in virtù d'un decreto di Dio... " 45, non farebbe che dare agli uomini " motivo di disperazione " 46. " Che bisogno c'era, concludevano, di trattare problemi così oscuri e turbare in tal modo tante coscienze incapaci di capirli? " 47. Se si eccettua quest'ultima difficoltà sulla predicazione, che sembra essere propria di quei pii monaci, le altre erano le stesse che presentavano i pelagiani, dai quali essi pur si sentivano lontano su due punti essenziali di cui dirò subito.
Passando pertanto alla parte positiva ecco come concepivano la salvezza per mezzo della grazia. I due punti fermi nei quali si allontanavano dai pelagiani erano: 1) " ogni uomo ha peccato per il fatto che ha peccato Adamo ", cioè l'affermazione del peccato originale; 2) " nessuno si salva in virtù delle proprie opere, ma in virtù della grazia di Dio mediante la rigenerazione battesimale ", cioè la professione di fede nella necessità della grazia 48.
Per il resto sostenevano:
1) A tutti gli uomini senza eccezione è offerta la propiziazione, cioè il perdono e la misericordia di Dio.
2) La grazia segue pertanto la determinazione della volontà e la predestinazione la prescienza dei meriti, che sono i meriti della fede e della perseveranza finale: " Dio conosce nella sua prescienza prima della creazione del mondo quelli che crederanno e quelli che persevereranno nella fede " 49.
3) Con questi due princìpi contrastavano però due grosse difficoltà che postulavano una soluzione coerente: la sorte diversa dei bambini morti con o senza battesimo e la predicazione che è avvenuta dopo tanti secoli e non è ancora arrivata a tutti i popoli.
La prima difficoltà la risolvevano ricorrendo ai futuribili, cioè a quanto i bambini avrebbero fatto se fossero giunti alla maggiore età. " Quei bambini si perdono o si salvano secondo la previsione che la scienza di Dio ha avuto di quello che diverrebbero nella maggiore età... ". Lo stesso in sostanza dicevano per la predicazione del Vangelo: " ...non hanno avuto la grazia di ascoltare la predicazione del Vangelo solo perché non lo avrebbero accettato " 50.
Questa è la soluzione positiva del mistero della salvezza che quei monaci proponevano secondo quanto ne riferisce Prospero, il quale non tace che alcuni di essi andavano tanto avanti da allontanarsi poco o affatto dalle posizioni pelagiane quando, per esempio, parlano esclusivamente della grazia della creazione o della forza salvatrice della legge naturale, affermando tesi che Agostino aveva ampiamente confutate contro i pelagiani, dimostrando che esse " svuotano la legge di Cristo ".
Anche Ilario non riferiva solo le difficoltà che quei monaci facevano contro la dottrina del vescovo d'Ippona, ma anche la loro propria soluzione.
1) Questa si basava tutta sul merito della fede e della perseveranza finale, la cui prescienza era la ragione della predestinazione. A sostegno della loro posizione si appellavano ai Padri, Agostino compreso. Di Agostino si appellavano in particolare alla lettera 102, questione seconda: sul tempo della religione cristiana (nn. 8 - 15), e agli scritti giovanili nei quali ascriveva alla fede dell'uomo la scelta di Dio.
2) Distinguevano poi tra inizio della fede ed in cremento della medesima ascrivendo questo a Dio, quello all'uomo.
3) Adducevano, poi, un esempio suggestivo, quello dell'ammalato che chiede l'aiuto della medicina: come non si nega l'efficacia della medicina quando si afferma che l'ammalato deve cercare il medico, così " non è una negazione della grazia l'affermare che essa è preceduta dalla volontà, la quale non fa altro che cercare il medico, ma non può far nulla da sola " 51.
In conclusione, quei monaci, giustamente preoccupati di affermare la volontà di Dio di condurre tutti gli uomini alla salvezza, si affaticavano per trovare nella volontà dell'uomo il merito e il demerito su cui fondare la scelta divina. La grazia è necessaria per salvarsi, ma l'uomo può far qualcosa per meritarla: incominciare a credere e perseverare nella fede e nelle buone opere. Ma anche questa soluzione che sembra essere tanto semplice ha le sue buone difficoltà. Per scioglierle non si trova di meglio che ricorrere allo strano appiglio dei futuribili.

7. Ultimo intervento di Agostino

Queste in sostanza le difficoltà dei monaci di Marsiglia e questa la loro proposta. Interessante la reazione del vescovo d'Ippona dopo la lettura delle due missive. Il punto di partenza di tutto lo scandalo era, come si è detto, la dottrina agostiniana della predestinazione. Eppure non su questo punto si fissò l'attenzione di Agostino, bensì su quanto essi proponevano come soluzione del problema, cioè sulla fede o inizio della fede che ascrivevano all'uomo, e sulla perseveranza finale che sarebbe dipesa parimenti dall'uomo. Fa inoltre impressione il rimprovero che la dottrina della grazia, come lui la esponeva, era dannosa e non si poteva, senza pericolo per la pietà, predicare al popolo - accusa grave, questa, per Agostino, tutto proteso com'era verso la pastorale -, e quell'insistente riferirsi ai suoi scritti giovanili o in ogni modo a quelli anteriori alla controversia pelagiana. La risposta è contenuta in un'opera in due libri, che poi, non si sa perché, sono stati distinti in due opere: la Predestinazione dei santi e il Dono della perseveranza.
Di queste opere si dirà a suo luogo. Qui basterà osservare che la prima, la Predestinazione dei santi, propone e dimostra questa tesi di fondo: la fede è un dono di Dio, anche il suo inizio. " In primo luogo dobbiamo dimostrare che la fede è un dono di Dio ". Lo ha fatto, dice, tante altre volte, teme di non riuscire a farlo in modo più efficace, ma per rendere un servizio ai fratelli lo fa ancora, non senza aver notato però che questa volta l'oggetto della dimostrazione è più preciso: non si tratta solo della fede, ma dell'inizio stesso della fede. " Secondo i dissenzienti le testimonianze divine che abbiamo utilizzato su questo argomento servono a farci conoscere che la fede in sé e per sé dipende da noi stessi, ma il suo accrescimento lo riceviamo da Dio, come se la fede non ci fosse donata proprio da lui, ma Egli ce l'accrescesse semplicemente per questo merito: che l'inizio è partito da noi " 52. Perciò l'attenzione di Agostino si fissa sull'initium fidei, che è l'inizio della buona volontà di credere. Dice apertamente che con questa opinione, per quanto più sottile, " non ci si distacca da quella che Pelagio fu costretto a condannare nel sinodo episcopale di Palestina, e cioè che la grazia di Dio ci viene data secondo i nostri meriti " 53.
La seconda opera propone e dimostra quest'altra tesi riguardante il termine della vita cristiana: la perseveranza finale è un grande dono di Dio. Comincia infatti così: " E' giunto il momento di trattare con maggior cura della perseveranza, dato che già nel libro precedente, discutendo dell'inizio della fede, abbiamo introdotto il discorso su questo argomento. Dunque noi sosteniamo che la perseveranza con la quale si persevera in Cristo fino alla fine è un dono di Dio, e intendo parlare della fine che pone termine a questa vita, che è la sola nella quale esiste il pericolo di cadere " 54. Sostiene la tesi, fra l'altro, con la preghiera del Padre nostro, nella quale i fedeli, come spiega anche Cipriano, chiedono la perseveranza nel bene 55 e, in genere, con le preghiere della Chiesa la quale, come prega quotidianamente perché gli increduli credano, così prega affinché i fedeli perseverino 56.
Per il resto dimostra l'assurdità del ricorso ai futuribili per capire la sorte dei bambini che muoiono con o senza battesimo 57, spiega le parole della lettera 102 con il metodo di non dire più di quello che sia necessario 58, chiarisce quelle del De libero arbitrio cui pure quei monaci si attaccavano 59.
S'intrattiene poi a lungo a dimostrare che la predestinazione si può e si deve, quando sia necessario, predicare, come ha fatto l'Apostolo, purché si faccia nel modo giusto; altrimenti non bisognerebbe predicare neppure la prescienza divina perché qualcuno ne deduce la negazione della libertà nell'uomo 60; enuncia il principio della fiducia in Dio: tutiores vivimus si totum Deo damus 61; sostiene che la dottrina della predestinazione non esclude ma esige la preghiera, alimenta la speranza, induce all'azione: " dal vostro stesso tenore di vita, se è buono e retto, imparate che voi fate parte della predestinazione della grazia divina " 62; termina esortando alla preghiera: " non siano pronti a discutere e pigri a pregare " 63, e presentando Cristo come " il più luminoso esempio della predestinazione " 64.
Nonostante la profondità e la chiarezza dell'esposizione, la modestia con cui riconosce di aver sbagliato quando ha sbagliato e si dichiara sempre disposto ad essere corretto; nonostante il severo ammonimento che se può sbagliare lui, Agostino, possono sbagliare anche gli altri, i quali pertanto debbono pensare più e più volte se non abbiano sbagliato di fatto; nonostante, dico, queste prerogative i due libri del vescovo d'Ippona non ebbero l'effetto desiderato presso i destinatari, anzi offrirono il destro ad una campagna denigratoria a cui Agostino purtroppo non poteva più rispondere. Prima di vedere questa reazione, rileggiamo le ultime parole del Dono della perseveranza, che sono le ultime rivolte ai monaci provenzali. " Coloro che leggono queste pagine, se le comprendono, rendano grazie a Dio; quelli che non le comprendono, preghino affinché ad istruirli nell'intimo dell'animo loro sia Colui dal cui volto promana la scienza e l'intelletto. Coloro poi che pensano che io sbagli, meditino più e più volte con diligenza ciò che è stato detto, perché forse potrebbero essere loro a sbagliare. Io, da parte mia, quando grazie a coloro che leggono i miei lavori non solo m'istruisco ulteriormente, ma anche mi correggo, riconosco che Dio mi è benigno; e mi aspetto questo favore soprattutto dai Dottori della Chiesa, se quello che io scrivo giunge nelle loro mani e se essi si degnano di prenderne visione " 65.
Questa conclusione, stupenda e sincera, doveva contribuire a rasserenare gli animi e indurli alla riflessione. Invece no: la reazione fu dura e malevola. Vediamola.

8. Interpretazione di quei monaci

I libri di Agostino non sedarono dunque la tempesta. Lo sappiamo da Prospero che rispose alle accuse di quei monaci. A quanto sembra non ci fu in essi lo sforzo per capire l'impostazione che il vescovo d'Ippona dava al difficile problema della predestinazione, non la valutazione dei temi trattati - fede e perseveranza - e degli argomenti biblici addotti, non la considerazione del valore pastorale che era stato messo in luce, ma solo la volontà di partire alla controffensiva formulando una serie di accuse che, oggettivamente parlando, falsavano l'insegnamento agostiniano e lo rendevano odioso. Parlo di falsificazione e non soltanto di deformazione o di caricatura, perché non di queste ma di quella si tratta. Si tratta infatti di far dire ad un autore il contrario di quello che ha detto.
Siano di esempio i Capitula Gallorum ai quali risponde Prospero. Sono 15 proposizioni che l'ambiente monastico provenzale mise in giro come autentica dottrina agostiniana.
Ecco le più significative:
- gli uomini, spinti a peccare dalla predestinazione divina come da una fatale necessità, sono costretti ad andare verso la morte (c. 1);
- la grazia del battesimo non rimette il peccato originale a coloro che non sono stati predestinati (c. 2);
- coloro che non sono stati predestinati alla vita, anche se siano rigenerati in Cristo col battesimo e vivano con pietà e giustizia, non ne traggono nessun giovamento, ma vengono mantenuti (in questa vita) finché cadano e periscano (c. 3);
- Cristo non è morto per la redenzione di tutti gli uomini (c. 9);
- gli uomini sono spinti a peccare dalla potenza di Dio;
- la prescienza e la predestinazione in Dio sono la stessa cosa (c. 15) 66.
Queste proposizioni non sono state tratte dalle opere di Agostino, ma sono contrarie a quanto egli aveva esplicitamente e ripetutamente scritto. Si vedrà nelle pagine seguenti. A Prospero pertanto non riuscirà difficile difendere la memoria del suo maestro. Egli nota lo scopo infamante di queste proposizioni contro di lui e assicura che nel rispondere non si allontanerà in nulla dalla sua dottrina 67. Risponde infatti alle singole proposizioni con precisione e competenza non solo sulla linea del pensiero agostiniano, ma ripetendone anche, pur senza citarle ( e questo fu un male), le stesse parole.
Un altro esempio, più triste perché più cattivo, del modo di procedere di quei monaci è rappresentato dai capitula delle obiezioni vincenziane (per quanto sappiamo di lui e per il rispetto che abbiamo per lui pensiamo che non si tratti di Vincenzo di Lérins), che ripetono in sostanza quelle altre e le radicalizzano. Questa volta le proposizioni non sono 15 ma 16. Eccone qualcuna:
- Dio è autore dei nostri peccati, perché opera negli uomini la volontà cattiva e ne plasma la sostanza in modo che con il moto naturale non possa se non peccare (c. 5);
- gli adultèri, gl'incesti, gli omicidi avvengono perché Dio ha predestinato che avvenissero (cc. 10 - 11);
- i fedeli predestinati alla morte eterna quando dicono a Dio nella preghiera: sia fatta la tua volontà, non chiedono altro che la loro perdizione (c. 16).
Prospero non può fare a meno di parlare di prodigiosa mendacità 68. Tali erano infatti. Ma domandiamoci: come si è potuto giungere a tanto? Ignoranza? Cattiveria? L'una e l'altra insieme? Giudichi chi può e chi vuole. Noi ci limitiamo ai fatti.
Si può capire che quei monaci volessero accreditare la loro dottrina della salvezza o, come oggi si ama dire, la loro antropologia, molto diversa da quella del maestro d'Ippona, ma è comprensibile il metodo di ricorrere alla volgare calunnia? Prospero parla addirittura di " bestemmie ". E' vero altresì che partivano dal presupposto che Agostino avesse identificato prescienza e predestinazione, applicando, poi, questa, allo stesso modo, tanto al bene che al male. Ne tiravano perciò le conclusioni, anche se assurde, anzi appunto perché assurde; ma l'assurdità delle conclusioni non avrebbe dovuto avvertirli che il presupposto poteva essere falso? Infatti era falso.
Il vescovo d'Ippona non solo aveva affermato il contrario di quanto gli veniva attribuito nelle conclusioni, ma aveva respinto il presupposto da cui esse partivano. Aveva distinto apertamente tra prescienza e predestinazione, attribuendo la prima anche al male, la seconda solo al bene; aveva distinto con un'insistenza, che non poteva essere maggiore, tra salvezza e perdizione, ricordando che una suppone l'elezione misericordiosa di Dio, l'altra la permissione divina, misteriosa ma sempre giusta; aveva detto in tutte lettere che Dio non è l'autore dei nostri peccati, perché Dio permette, non fa il male, aveva insistito sul fatto che non si può sacrificare la libertà alla grazia, ma neppure la grazia alla libertà, perché Cristo è insieme salvatore e giudice; aveva lasciato supporre, per chi avesse voluto capirlo, che nel mistero della predestinazione (come in ogni mistero cristiano) non si può partire da una delle verità che lo compongono, quasi fosse la sola, e dedurre da essa, secondo la logica umana, che cosa pensare dell'altra. Se quelli che si salvano, si salvano per dono di Dio (e questa era la tesi fortemente difesa da Agostino), non si può concluderne: dunque quelli che si perdono si perdono per volere di Dio, che era la tesi che i monaci provenzali gli attribuivano, e che i predestinazionisti di tutti i tempi hanno fatto propria. Così pure, dal fatto che quelli che si perdono, si perdono per propria colpa, non si può concluderne che quelli che si salvano si salvano per proprio merito, sia pure per il merito della fede iniziale, che era appunto la tesi che quei monaci difendevano. Una maggiore attenzione alla difficoltà del problema - la difficillima quaestio di cui tanto spesso parlava Agostino - o, per essere più espliciti, un maggiore senso del mistero avrebbe risparmiato a quei monaci di commettere un'ingiustizia e alla teologia di avere tempi difficili: un secolo di discussioni prima che un chiarimento venisse apportato nel secondo Concilio di Orange ad opera soprattutto di Cesareo di Arles.
Prima di vedere, rapidamente, queste discussioni, vale la pena di notare che l'interpretazione calunniosa e schernitrice, che i monaci provenzali diedero della dottrina agostiniana sulla predestinazione, ebbe un'influenza deleteria: fece scuola. Con essa cominciava il " predestinazionismo ", una dottrina che interpreta la predestinazione in termini di bene e di male - predestinazione alla gloria e predestinazione al peccato e alla perdizione -, interpretazione che, rinata quasi di secolo in secolo nella storia della teologia occidentale, dura ancora. Dura, dico, attribuita al vescovo d'Ippona o confortata dall'autorità di lui, secondo il giudizio, contrario o favorevole, che su di essa pronuncia chi scrive.
La gravità di questa interpretazione, inaugurata dai provenzali attribuendola ad Agostino, sta nel fatto di credere e di far credere che tra essa e quella che quei monaci proponevano, fondata cioè sulla prescienza divina della fede e della perseveranza finale, non ci sia via di mezzo. Eppure questa via c'è: il vescovo d'Ippona l'ha indicata nei suoi scritti e la Chiesa cattolica, pur evitando d'entrare in sottili questioni, l'ha proposta ai suoi fedeli. Il dilemma: o predestinazionisti o semipelagiani, non esiste o, se esiste, è un falso dilemma. Le pagine di questa introduzione dedicate all'argomento vorrebbero essere una conferma di questa affermazione. Tra la prima tesi e la seconda c'è il veritatis medium della teologia agostiniana che indica la via da seguire, l'unica vera, anche se difficile: quella del senso del mistero che tiene ferme le due verità, anche se non riesce a comprenderne il nesso.
Altro inconveniente dell'impostazione del problema dato dai provenzali è quello di aver fissato la discussione sulla predestinazione, anziché, come aveva fatto Agostino, sulla grazia stessa. La questione che interessava e interessa prima di tutto è questa, non quella. Interessa sapere, cioè, in che cosa e fino a qual punto la grazia è necessaria alla salvezza e se essa sia o non sia un dono di Dio.

9. Interpretazione predestinaziana

Ne sono prova le lunghe discussioni che seguirono la morte di Agostino. Il tema preferito fu la predestinazione, l'interpretazione di moda il predestinazionismo. Su questa linea i provenzali lanciavano accuse contro il maestro d'Ippona. Il Papa Celestino e Prospero lo difesero, ma senza riuscire a riportare la calma. Non passarono molti decenni che il presbitero Lucido fece sua l'interpretazione predestinaziana e trasformò il biasimo in lode. Non fu difficile a Fausto di Riez convincerlo d'errore e indurlo a ritrattarsi 69. Ma il fatto era significativo. Esso non poteva non indurre gli avversari del defunto maestro ad insistere nella loro dottrina e a confermarsi nelle loro accuse.
Forse non sarà inutile ricordare più in particolare alcune di queste accuse e confrontarle a distanza ravvicinata con l'insegnamento del vescovo d'Ippona riportando le sue stesse parole. E' vero che le pagine seguenti, esponendo quest'insegnamento fanno giustizia di quelle accuse; ma penso che qualche lettore, più o meno frettoloso, voglia aver subito un prospetto e rendersi conto senza occupare troppo del suo tempo, della situazione creatasi dopo che il vecchio maestro aveva cessato per sempre di scrivere. Ecco dunque uno specimen.
1) Prescienza e predestinazione, che era l'ultimo dei capitula Gallorum e fondamento di tutti i precedenti. Dicevano: per il vescovo d'Ippona " è la stessa cosa prescienza e predestinazione " (n. 15).
Aveva scritto Agostino: " la prescienza di Dio... preconosce i peccatori, non fa che siano peccatori " 70. E nell'opera diretta a quei monaci: " La predestinazione non può esistere senza la prescienza, invece la prescienza può esistere senza la predestinazione. Per la predestinazione Dio seppe in precedenza le cose che Egli avrebbe fatto; e perciò è detto: Fece le cose che saranno. Ma Egli ha potere di sapere in precedenza anche quelle cose che non compie egli stesso, come ogni sorta di peccato " 71.
2) Dio e il peccato. Dicevano: per il vescovo d'Ippona " Dio con la sua potenza induce l'uomo al peccato ".