00 04/07/2012 17:50
Che la perseveranza finale sia un dono di Dio, anzi un grande dono di Dio - magnum Dei munus 21 - lo aveva dimostrato, come ho detto, nell'opera scritta poco prima sulla Correzione e grazia; lo aveva dimostrato col suo solito metodo della tessitura dei testi biblici da cui scaturisce l'autentico insegnamento della Scrittura.
Ricordiamo alcuni di questi testi. Il primo è la preghiera di Cristo perché non venisse meno la fede di Pietro (Lc 22,32); Agostino commenta: con questa preghiera " che altro chiese se non la perseveranza finale? " 22; infatti non chiese altro se non che avesse nella fede una volontà " liberissima, fortissima, invittissima, perseverantissima " 23. Un altro testo è quello di S. Paolo che prega per i fedeli perché Dio, che ha cominciato in loro l'opera buona, la porti a compimento fino al giorno di Cristo Gesù (Fil 1,3-6). Agostino commenta: con queste parole " che altro promette dalla misericordia divina se non la perseveranza nel bene sino alla fine? " 24.
Un testo ancora di S. Paolo: l'inno degli eletti (Rom 8,31-39), che esprime, commenta anche qui Agostino, la forza del dono della perseveranza 25. In ultimo il testo biblico contestato dai monaci provenzali 26: Fu rapito, perché la malizia non ne mutasse i sentimenti o l'inganno non ne traviasse l'animo (Sap 4, 11). Agostino lo cita nella Correzione e grazia 27, vi torna sopra nella Predestinazione dei Santi 28, e vi accenna ancora nel Dono della perseveranza 29. Egli conosce i dubbi sull'autore e la canonicità del libro della Sapienza 30, ma la canonicità la ritiene con fermezza per l'autorità della Chiesa 31 e la lunga tradizione dei Padri 32. Il testo pertanto conserva il suo valore scritturistico. In ogni caso il suo contenuto è incontestabile. Ogni cristiano sa che, se il giusto muore nella giustizia, avrà la vita eterna; se invece cessa di essere giusto e muore nel peccato andrà in perdizione. Ora il momento della morte non sta nelle nostre ma nelle mani di Dio. Dio dunque, disponendo che il giusto muoia prima di cadere in peccato, gli elargisce il dono ineffabile della perseveranza finale. Non altro che questo dice il testo biblico, della cui appartenenza ad un libro canonico non si deve discutere, del cui contenuto meno ancora 33.
A questo punto stava la dimostrazione, quando Agostino cominciò a dettare il Dono della perseveranza, dove, fin dall'inizio, impostò ancora una volta con estrema chiarezza la tesi ricordata sopra. Per confermarla non ripete quanto aveva detto altrove sull'insegnamento biblico, ma insiste sull'argomento della preghiera.
Seguendo Cipriano commenta il Padre nostro in chiave di perseveranza - è infatti la perseveranza nel bene che il giusto chiede a Dio ripetendo la preghiera del Signore 34 -, e conclude: " Se anche non ci fossero altre testimonianze, questa orazione domenicale basterebbe da sola alla causa della grazia che noi sosteniamo, perché nulla essa ci ha lasciato in cui ci possiamo gloriare come fosse nostro. In realtà anche il fatto di non allontanarci dal Signore l'orazione dimostra che non viene concesso se non da Dio, poiché dichiara che a Dio dev'essere chiesto " 35.
La forza dell'argomentazione è sempre la stessa: non si chiede a Dio ciò che si sa che non viene donato da Dio ma è riposto nel potere dell'uomo, come non si ringrazia di ciò che si sa che non è stato donato da Dio. Ecco le sue forti parole: " E poi, perché si dovrebbe chiedere a Dio questa perseveranza se non è concessa da lui? Non sarebbe forse una richiesta beffarda, se si pregasse dal Signore quello che si sa che Egli non concede, e che quindi, se non è lui a concederlo, è in potestà degli uomini? Così pure sarebbe una beffa e non un rendimento di grazie se si rendesse grazie a Dio di una cosa che Egli non ha donato né compiuto ". Ne tira infine questa severa conclusione: " Ma quello che ho detto sopra 36 lo ripeto qui: Non ingannatevi, dice l'Apostolo, non ci si può prendere gioco di Dio " (Gal 6,737.
Perciò la Chiesa non ha bisogno di tante discussioni in proposito: consideri le sue preghiere e tiri le conclusioni. " Dunque su questo argomento la Chiesa non indugi in laboriose disputazioni, ma attenda alle sue preghiere quotidiane. Essa prega affinché gli infedeli credano: allora è Dio che converte alla fede. Essa prega perché i credenti perseverino: allora è Dio che dona la perseveranza fino alla fine " 38. La trattazione termina con un nuovo riferimento veramente stupendo al motivo cristologico: Cristo causa e modello della grazia 39.
Il discorso agostiniano sulla gratuità della grazia che, come si è visto, si apre a raggiera ed include tutta la vita cristiana dal primo sbocciare dell'amore per mezzo della fede fino all'amore giustificante e all'amore perseverante - tre doni della misericordia che salva -, si chiude o, per dir meglio, si perfeziona e si riapre con due raccomandazioni di fondo: una alla preghiera e un'altra alla fiducia. La perseveranza finale è un dono che non possiamo meritare, ma possiamo e dobbiamo ottenere con la preghiera: Hoc Dei donum suppliciter emereri potest, poiché Dio ha stabilito " di dare alcuni doni anche a chi non prega, come l'inizio della fede; altri soltanto a chi prega, come la perseveranza finale " 40. Alla preghiera vanno congiunte la fiducia e l'abbandono totale a Dio, che sono fonte della nostra sicurezza: Tutiores vivimus si totum Deo damus 41.
Ma di questo più diffusamente al termine della introduzione 42. Qui, per completare il panorama agostiniano, occorre parlare di un altro argomento che sembra opposto a quello trattato finora, eppur necessario.

CAPITOLO OTTAVO

IL MERITO

E' il discorso del merito. Dopo quanto si è detto sui doni della salvezza, sembra superfluo farne uno sul merito. E lo sarebbe in realtà se il nostro dottore non lo avesse fatto egli stesso più volte e a lungo e con grande impegno, non solo per escludere che la grazia venga concessa secondo i meriti, ma anche per chiarire la nozione stessa del merito e sciogliere i problemi che pone. Del resto basta riandare alla storia della teologia per vedere quante discussioni ha suscitato. E spesso, se non sempre, legate al nome di Agostino 1. Il problema lo pone la stessa Scrittura che il nostro dottore, come al solito, si studia di concordare con se stessa 2. Vediamo dunque sia il problema cha la soluzione, e poi vedremo se questa non ponga a noi qualche problema ulteriore.

1. Le due verità della Scrittura

Nei riguardi della vita eterna vi sono nella Scrittura due serie di testi che esprimono due verità apparentemente contrarie: una serie che proclama la vita eterna una grazia, l'altra che la proclama una mercede. Grazia e mercede. Si sa quanto i concetti siano diversi. Come conciliarli? Ecco il problema.
Agostino ha raccolto i testi della prima serie e ne ha fatto il supporto biblico della grande tesi difesa contro i pelagiani: la grazia non ci viene concessa secondo i nostri meriti; perciò la vita eterna è un dono. Ne ho parlato lungamente sopra 3. Ma l'insistenza sulla grazia non fa dimenticare i testi biblici sulla mercede. Il nostro dottore non li occulta, anzi li raccoglie e li schiera in battaglia. Due soprattutto. Ambedue dell'Apostolo che ha tanto parlato della grazia: Rom 2,6: Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere - si sa che queste parole sono l'eco di quelle di Gesù nel Vangelo (Mt 16,27) - e di quelle della 2 Tim 4,8: mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà. V'è poi tante volte ricordata nel Vangelo l'idea della mercede (Mt 5,12: Lc 6,23); vi sono le parabole degli operai e dei talenti (Mt 20,1-16; 25,14-30); v'è l'ultimo giudizio che sarà tenuto sulle opere di misericordia (Mt 25,31-46), a cui Agostino si riferisce di continuo 4.
Più in generale si può dire che nel panorama dottrinale agos tiniano il ricorso alla necessità delle opere e quindi al conseguimento della mercede promessa è legato in particolare ad un libro, a un testo biblico, ad un'esortazione pastorale. Il libro ha per titolo La fede e le opere. Lo scrisse all'inizio della controversia pelagiana dopo Il castigo e il perdono dei peccati e Lo spirito e la lettera 5, le prime due opere antipelagiane e le più importanti, lo scrisse per rispondere a quelli che sostenevano che per raggiungere la vita eterna bastava la sola fede 6. Il testo biblico è quello della fede quae per dilectionem operatur (Gal 5,6) che il nostro dottore cita in continuazione; mentre l'esortazione pastorale si può riassumere in questo aforisma: Si vis sustinere laborem, attende mercedem 7, o in quest'altro ancora più forte: " Esercitati nelle opere, lavora nella vigna; finito il giorno, chiedi la mercede: finito die, pete mercedem " 8.
Non v'è dubbio che Agostino vede ed urge i due aspetti del problema: grazia e mercede. Non solo li vede, ma mette in rilievo il problema che ne deriva e ne propone la soluzione. Scrive in una delle ultime opere, La grazia e il libero arbitrio: " Da ciò nasce un problema non trascurabile, la cui soluzione dev'essere ricercata con l'intervento del Signore. Se infatti la vita eterna viene data in ricompensa delle opere buone, come dice la Scrittura in maniera estremamente chiara: Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere, in qual maniera la vita eterna può essere grazia, dato che la grazia non è assegnata in ricompensa alle opere, ma viene conferita gratuitamente? ". E dopo aver riportato alcuni testi paolini che escludono la mercede quando si tratta di grazia (Rom 4,4; 11,5-6), incalza: " Dunque la vita eterna come può essere una grazia, se si acquista in seguito alle opere? O forse non è la vita eterna che l'Apostolo chiama grazia? Al contrario, egli si è espresso in una maniera che l'identificazione non si può negare; e non c'è bisogno nemmeno di un acuto intenditore, ma soltanto di uno che dia ascolto attentamente " 9.

2. La soluzione: " meritum... gratuitum "

Dopo la chiara posizione del problema ecco la soluzione agostiniana, non meno chiara: " Una tale questione non mi sembra che si possa sciogliere in nessun modo, se non intendendo che anche le nostre stesse opere buone, alle quali si conferisce la vita eterna, appartengono alla grazia di Dio " 10. Dimostra lungamente, testi della Scrittura alla mano, questa affermazione, e conclude: " Pertanto, o carissimi, se la nostra vita buona altro non è che grazia di Dio, senza dubbio anche la vita eterna, che viene data in contraccambio alla vita buona, è grazia di Dio; ed essa pure viene data gratuitamente, perché è stata data gratuitamente la vita buona per la quale quella eterna viene concessa ". Spiegando poi l'espressione giovannea di gratia pro gratia (Gv 1,16), termina così: " Ma questa vita buona per cui viene concessa, è semplicemente grazia; in definitiva questa vita eterna che viene concessa per essa, poiché di essa è premio, è grazia per grazia, come una ricompensa che contraccambia la giustizia. E così si dimostra vero, perché è vero, che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere (Rom 2,6) " 11.
Da questa soluzione nasce l'effato ripetuto molte volte, con vera compiacenza, dal dottore della grazia: Dio, coronando i tuoi meriti, non corona che i suoi doni; effato che ne La grazia e il libero arbitrio, dove problema e soluzione sono proposti esplicitamente, suona così: " Se dunque i tuoi meriti nel bene sono doni di Dio, Dio non corona i tuoi meriti come tuoi meriti, ma come suoi doni " 12. Nella stessa opera, parlando della corona di giustizia che l'apostolo Paolo attendeva, se ne esce in queste interrogazioni che hanno una straordinaria forza persuasiva: " A chi il giudice giusto renderebbe la corona, se il Padre misericordioso non avesse donato la grazia? E come ci sarebbe questa corona della giustizia, se non l'avesse preceduta la grazia che giustifica l'empio? In qual modo si renderebbe come dovuta la corona, se prima la grazia non fosse stata donata come gratuita? " 13.
Ma si avrebbe torto a credere che questa dottrina sui meriti che sono, sì, meriti, ma anche doni della grazia, il vescovo d'Ippona l'abbia maturata gli ultimi anni della sua vita o comunque durante la controversia pelagiana. La troviamo invece, sostanzialmente, nella prima opera in cui approfondì il tema della grazia 14, di cui ho detto sopra 15. La troviamo con la stessa formula delle opere posteriori, nelle Confessioni, per esempio, ove leggiamo: " Chi enumera innanzi a te i suoi veri meriti, che altro ti enumera se non i tuoi doni? " 16. Con la controversia pelagiana questa o formule simili diventano, com'era naturale, più frequenti sia nei libri che nelle lettere che nei discorsi.
Per i libri basti il più volte citato su La grazia e il libero arbitrio. Per le lettere vanno menzionate la celebre 194 e l'altra, meno celebre ma non meno importante, a Paolino di Nola, la 186: nella prima c'è la formula che ho ricordato or ora: " quando Dio corona i nostri meriti non corona altro che i suoi doni " 17; nella seconda c'è una formula semanticamente ancora più felice, quella di merito gratuito: ipsum hominis meritum donum est gratuitum 18. Nei discorsi poi l'insistenza è continua e le formule le stesse 19. Qualche volta prendono un tono più tagliente, come questo: " Dio ti dice: Discuti bene i tuoi meriti, vedrai che sono miei doni " 20. Infine nel commento ai Salmi il testo biblico offre l'occasione di tornare spesso nell'argomento. Un esempio sono le parole del Salmo 102,4: qui coronat te in miseratione et misericordia 21. La ragione di questa insistenza è sempre la stessa, quella che ho ricordato sopra: impedire che l'uomo si glori in se stesso e non in Dio. " Non vantare in alcun modo i tuoi meriti, perchè anche questi tuoi meriti sono doni suoi " 22. " Tuoi sono i peccati, i meriti sono di Dio. A te si deve il castigo; quando invece ti viene dato il premio, Dio corona i doni suoi, non i meriti tuoi " 23.

3. Meriti e giustificazione

Questa dottrina, che riassume, come si è detto, i due aspetti dell'insegnamento biblico, ha per fondamento tutta la dottrina della grazia. Il merito dunque non precede ma segue la grazia, la grazia, dico, che dona la fede e dona la giustificazione. E' la giustificazione, dono di Dio, che costituisce il fondamento del merito: lo fonda, non lo esclude. Ecco un testo breve e perentorio: " I giusti, allora, non hanno merito alcuno? Sicuro che ne hanno, poiché sono giusti, ma non ne hanno avuto alcuno per diventare tali, essendolo divenuti quando sono stati giustificati, come dice l'Apostolo: Sono stati giustificati senza alcun merito precedente e solo per la grazia di lui (Rom 3,24) " 24.
Non ci sono dunque meriti prima della giustificazione, ci sono - e debbono esserci - dopo. E sono meriti certi, perchè legati alla promessa di Dio. Parlando ai fedeli, dopo aver detto che " Dio si è fatto nostro debitore non accettando qualcosa da noi, ma promettendo ciò che gli è piaciuto ", Agostino suggerisce loro di chiedere a Dio il compimento delle sue promesse con queste coraggiose parole: " Rendi ciò che hai promesso, perché abbiamo fatto ciò che hai comandato ". Ma aggiunge subito: " E questo lo hai fatto tu, perché hai aiutato coloro che faticavano " 25. Le parole di questo brano oratorio, soprattutto le prime, sembrano aliene dal dottore della grazia, eppure sono sue. Il discorso poi dev'essere inserito tra quelli pronunciati nel forte della controversia pelagiana 26. Un caso di contraddittorietà? No, un caso, un altro, di sintesi. Il discorso è tutto dedicato a esaltare i doni di Dio: predestinazione, vocazione, giustificazione, glorificazione, ma anche il merito che il giusto acquista presso Dio, per la promessa di Dio, operando il bene. E' la corona iustitiae fondata sul dono della misericordia, di cui si è detto poco sopra.
Altre volte mette a fondamento dei meriti il dono della fede: " ...quel dono da cui partono tutti gli altri doni che si dicono ricevuti da noi per nostro merito, e cioè il dono della fede, lo riceviamo senza nostro merito " 27. Altrove scrive contro i pelagiani: " Non mi resta dunque che attribuire... la stessa fede, che costoro esaltano, non già alla volontà dell'uomo né ad alcun merito precedente, perché da essa hanno origine tutti i meriti buoni, nessuno escluso... " 28.
In uno splendido discorso dommatico sulla fede e le opere o più precisamente " della grazia di Dio e della nostra giustificazione " 29 - si sa che nessuno è tanto dottore come Agostino quando parla - fra i tanti memorabili effati espone anche questo: " Non presumere di conseguire il Regno per la tua giustizia, e non presumere della misericordia di Dio per peccare " 30. Parole cui seguono come spiegazione queste altre: " Nessuno vanti le sue opere prima della fede, nessuno sia pigro nel compiere le buone opere dopo che ha ricevuto la fede. Dio dunque concede il perdono a tutti gli empi, e li giustifica con la fede " 31.
In realtà il testo parla delle opere buone e non, direttamente, delle opere meritorie. Ma si applica molto bene anche a queste. Solo che esso pone due problemi: sulle opere buone, quello della possibilità dell'uomo di compierle senza la fede, di cui ho parlato altrove 32, e sulle opere meritorie, se hanno per fondamento la fede e la giustificazione, di cui è utile fare un cenno qui.
I testi sulla fede ricordati sopra sembrano supporre che basti la fede per meritare davanti a Dio e non sia necessaria la giustificazione come dicono altri testi. Occorre concordare Agostino con se stesso. Non è difficile. Egli intende la fede quae per dilectionem operatur (Gal 5,6) e quindi, parlando dei meriti, non la distingue dalla giustificazione. Tanto è vero che il lungo e bel discorso da cui son tratte le ultime espressioni ha per argomento, come ho detto, la grazia di Dio e la giustificazione.

CAPITOLO NONO

TRA IL " VANTO " DEL GIUSTO " E LE SCUSE " DEL PECCATORE:
PEROCCUPAZIONI PASTORALI

Né il giusto deve vantarsi della sua giustizia, né il peccatore scusarsi del suo peccato. Passare incolumi in questa strettoia non era facile, ma era pur necessario; necessario per il teologo, più necessario per il pastore. Si sa che il vescovo d'Ippona, quando fa il teologo, pensa sempre al pastore. Non è mai un teologo da tavolino, mai uno " scolastico ".
Ho detto nelle pagine precedenti e in molte altre come egli abbia tenuto stretti, in forma di binomi, termini che sembravano e sembrano dilemmatici, da quelli più generali - ragione e fede, Dio e l'uomo, libertà e prescienza divina - a quelli più vicini al nostro argomento: natura e grazia, grazia e libertà, dono e mercede. Ci resta di vedere l'ultimo binomio, che sembra un dilemma, forse il più difficile, che tocca il fondo della controversia pelagiana, la quale aveva - occorre ricordarlo - una prospettiva eminentemente pratica, pastorale.
Pelagio infatti era tutto preoccupato di togliere al peccatore ogni scusa. Una preoccupazione dunque da saggio moralista che sferza vizi e promuove le virtù. Per questo scopo aveva scritto il De natura. Di quest'opera dice Agostino nella risposta: " Ho letto di corsa, ma non con scarsa attenzione, e da cima a fondo, il libro che mi avete mandato... Ho visto nel libro un uomo acceso di zelo ardentissimo contro coloro che, invece d'accusare nei propri peccati la volontà umana, cercano piuttosto di scusarla, accusando la natura umana " 1.
Il vescovo d'Ippona invece era tutto preoccupato di togliere al giusto ogni motivo di vanto. Due parallele dunque? Un dialogo in cui ognuno non faceva che ripetere i suoi argomenti? No. E la ragione sta in questo: mentre Pelagio, volendo indurre il peccatore a riconoscere il suo peccato, dimenticava la grazia o la riconduceva alla stessa natura dotata di libero arbitrio - per questo il nostro dottore chiama il suo zelo poco illuminato: non secundum scientiam (Rom 10,2) -, Agostino non dimenticava l'altra parte del problema: toglieva, sì, al giusto ogni motivo di vanto, ma non offriva al peccatore motivi di scusa. In conclusione: la visione di Pelagio, come quella di tutti coloro che hanno suscitato eresie nella Chiesa - Ario, Nestorio, Lutero -, era unilaterale, quella di Agostino no: egli vedeva i due aspetti del problema e li riaffermava e li riconduceva all'unità mediante la sintesi che cerca e trova il veritatis medium. Vediamo come.

1. Il problema

La difficoltà è ovvia: ognuno la vede. Se i peccati sono dell'uomo, perché i meriti sono di Dio? Eppure abbiamo inteso il nostro dottore riaffermare drasticamente l'uno e l'altro: " i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio " 2. Se è giusto che siano dell'uomo i peccati, perché non attribuire ad esso anche i meriti? Era la conclusione dei pelagiani, i quali, facendo perno sul libero arbitrio, attribuivano appunto all'uomo il merito per potergli attribuire, senza possibilità di replica, anche la responsabilità del peccato. Nessuno vorrà dire che mancassero di logica. Nelle parole di Agostino, ricordate or ora, abbiamo colto la preoccupazione dominante di Pelagio. Nel sinodo di Diospoli gli fu contestata questa proposizione: Tutti sono governati dalla propria volontà. Pelagio si difese con queste parole: " Questo l'ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene. Quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, dotato com'è di libero arbitrio " 3. La cura e l'attenzione di Pelagio erano tutte raccolte su quest'ultima affermazione. Perciò sosteneva l' impeccantia, negava la necessità della grazia, insegnava - se non lui, certamente i suoi - che la grazia segue non precede i meriti 4. La linea dottrinale era logica e chiara: se è propria dell'uomo la colpa quando pecca, è proprio dell'uomo il merito quando opera il bene.
Al lato opposto la conclusione opposta: se di Dio è il merito, perché non attribuire a Dio anche la colpa, liberando l'uomo dalla scomoda responsabilità del peccato? La conclusione, come si sa, la tiravano i manichei, dei quali il giovane Agostino aveva accettato la dottrina 5.
Egli dunque, ritornato alla fede cattolica e diventatone per dovere di ministero e per impegno pastorale difensore, non si trovò solo di fronte ad insegnamenti diversi della Scrittura che bisognava pur riconoscere e concordare, ma anche di fronte a correnti diverse di pensiero, una apertamente opposta alla Chiesa, un'altra sorta dentro di essa. E' facile immaginare quale fu il suo atteggiamento; duplice: riaffermare i due insegnamenti biblici e mostrare come non fossero inconciliabili tra loro. Questo esigevano le sue convinzioni teologiche e le sue responsabilità pastorali. Infatti, solo accettando insieme i due insegnamenti, quello che esclude il " vanto " del giusto e quello che esclude a sua volta le " scuse " del peccatore, i fedeli possono vivere una vita autenticamente morale e cristiana. Se per assicurare la responsabilità del peccatore nel peccato si dovesse indurre il cristiano a considerare merito proprio l'essere stato giustificato e il vivere nella giustizia, non solo si negherebbe una verità fondamentale della fede ma si fomenterebbe anche il detestable vizio dell'orgoglio, che è la negazione di ogni religione. Se poi, al contrario, per dare a Dio la gloria delle opere buone che l'uomo compie, si dovesse attribuirgli anche i peccati che questi commette, si negherebbe sia la giustizia divina che l'ordine morale.

2. I due termini del problema

Agostino dunque riafferma energicamente i due termini del problema. Lo abbiamo visto sopra sia nella difesa contro i manichei della responsabilità del peccatore nel suo peccato 6, sia nella difesa contro i pelagiani del dono della grazia che impedisce all'uomo di gloriarsi delle opere buone 7. Forse non è inutile ricordare alcune espressioni, tra le più drastiche e le più forti, di questa duplice difesa.
Ecco le parole che suggerisce al peccatore nei riguardi del proprio peccato. Non cerchi scuse, gli dice, ma dica soltanto: " Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato... io, io; non il fato, non la fortuna, non il diavolo, perché neppure esso mi ha costretto, ma io ho acconsentito a chi tentava di persuadermi " 8. Queste parole non ricorrono una volta sola nei discorsi agostiniani 9. Non c'è bisogno, poi, ricordare né la dura esperienza personale di Agostino descritta drammaticamente nelle Confessioni 10, né le opere, tra le prime, come Il libero arbitrio e Le due anime contro i manichei.
Per quanto riguarda le opere buone, che sono, sì, frutto del libero arbitrio, ma prima di tutto e soprattutto della grazia, basta ricordare l'insistenza e la compiacenza con le quali ripete le parole di Cipriano: Non dobbiamo gloriarci di nulla, perché nulla è nostro 11.
Per stringere, poi, più da vicino le due affermazioni, oltre le parole citate poco sopra - " i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio " 12 - si possono ricordare queste altre: " Per volontà propria cade chi cade, per volontà di Dio sta in piedi chi sta in piedi: Voluntate sua cadit, qui cadit; et voluntate Dei stat, qui stat " 13, e queste altre ancora, scritte in una lettera a Firmo, scoperta e pubblicata di recente: " Se ubbidisci ai veri e salutari precetti [del Signore] è opera della sua grazia, se non ubbidisci è tua colpa: veris salubribusque praeceptis si obtemperes, eius est gratiae, si non obtemperes tuae culpae " 14.
A questo punto urge sapere quale via di conciliazione indichi il vescovo d'Ippona a queste due affermazioni tanto fra loro contrastanti e tanto spesso ricordate a distanza ravvicinata quasi a metterne in rilievo, con la forza dell'antitesi, il contrasto.

3. La soluzione

La soluzione la trova nella creaturalità dell'uomo e nella sua mutabilità. Vale la pena di riportare un testo, anche se un po' lungo, della prima opera scritta contro i pelagiani. " A peccare non veniamo aiutati da Dio, ma senza essere aiutati da Dio non possiamo fare quello che è giusto o adempiere in pieno la legge della giustizia ". E aggiunge un esempio chiarificatore: " Come infatti l'occhio corporale non è aiutato dalla luce perché chiudendosi si distolga e si allontani da lei, ma per vedere viene aiutato dalla luce e non può vedere se la luce non l'aiuta, così Dio, che è la luce dell'uomo interiore, aiuta l'intuito della nostra mente perché operiamo alcunché di buono, non secondo la nostra giustizia, ma secondo la sua. Viceversa allontanarci da Dio dipende da noi: allora seguiamo i desideri della carne, allora acconsentiamo alla concupiscenza della carne per atti illeciti. Dio dunque ci aiuta, se convertiti a lui; ci abbandona, se convertiti ad altro ". Ma aggiunge concludendo e riassumendo gran parte della dottrina della grazia: " Ma ci aiuta pure perché ci convertiamo a lui: un aiuto che certamente questa luce terrena non presta agli occhi del corpo " 15.
Chi poi volesse trovare la radice metafisica della dottrina illustrata qui con un esempio, dovrebbe riferirsi alla Città di Dio. Tutti sanno con quanto impegno filosofico-teologico sia stata scritta quest'opera. In essa ricorda ancora una volta il luminoso principio della salvezza che quando s'incontra nelle opere agostiniane - e si trova moltissime volte 16 - bisogna metterlo in rilievo, perché molti pensano che non sia suo, mentre è suo ed è fondamentale. Il principio è questo: " L'anima non abbandona Dio perché è stata abbandonata da Lui, ma al contrario: è abbandonata perché ha abbandonato; non v'è dubbio che la sua volontà è la prima nei confronti del male mentre è prima nei confronti del bene la volontà del suo creatore, sia nel crearla dal nulla, sia nel rianimarla quando si era perduta nel cadere " 17. Ne segue dunque che quando la volontà pecca, la colpa è sua, quando opera il bene è dono di Dio.
La stessa idea viene ribadita e approfondita altrove, là dove raccomanda alla " città celeste, pellegrina sulla terra ", d'imparare a non riporre la sua fiducia nel proprio libero arbitrio che può allontanarsi dal bene, ma nell'invocare il nome del Signore. Ed eccone la ragione metafisica. " La volontà infatti, nella sua natura, creata buona da Dio buono, ma mutabile... in quanto tratta dal nulla, può anche allontanarsi dal bene per fare il male, e ciò lo compie [solo] il libero arbitrio, e può allontanarsi dal male e fare il bene, e questo non è possibile senza l'aiuto di Dio " 18.
Ho sottolineato le parole su cui vorrei richiamare l'attenzione del lettore, perché contengono, a mio giudizio, la radice della soluzione agostiniana. L'uomo ha di suo l'essere creato dal nulla, e quindi la limitazione, la mutabilità, la defettibilità da cui deriva per necessaria conseguenza la possibilità (la possibilità, non la necessità) della defezione dal bene, ché questo è il peccato. Scrive in una delle ultime opere: " Ci si chiede [dai manichei] - Agostino aveva ripetuto ancora una volta che tutte le cose sono buone - allora da dove l'origine del male? Rispondiamo: dal bene, ma non dal sommo, immutabile Bene. Il male è derivato dai beni inferiori e mutevoli... La natura è la stessa sostanza capace di bontà o di malizia. E' capace di bontà per la partecipazione al Bene da cui è stata fatta; è capace invece di malizia non per la partecipazione al male, ma per la privazione di un bene. In altre parole, la natura acquisisce un male non in quanto si mescola ad una natura che è un male - nessuna natura infatti in quanto tale è male -, bensì in quanto deflette dalla natura che è sommo ed immutabile Bene, e questo perché non da essa è stata tratta, ma dal nulla. Se non fosse mutevole, d'altronde, la natura non potrebbe neppure avere la cattiva volontà. La natura, in verità, non avrebbe potuto essere mutevole se fosse derivata direttamente da Dio e non fosse stata tratta dal nulla. Per questo, Dio creatore delle nature è creatore di cose buone; la loro spontanea defezione dal bene indica non da chi sono state create, ma da che cosa sono state tratte. E questo non è un qualche cosa perché è assolutamente nulla " 19.
Peccando dunque la volontà indica non da chi è stata creata, ma da dove è stata creata: questa la ragione perché la volontà può da sola (non senza, si capisce, che Dio la conservi nell'essere) tutto ciò che è negativo, e perché non può compiere il bene, che è positivo, senza l'aiuto di Dio. La metafisica dà conforto all'espressione oratoria: i peccati son tuoi, i meriti sono di Dio 20 e assicura l'unità del pensiero.
Questa stessa filosofia, che gli era sempre presente a causa della controversia manichea, unita ad un testo evangelico che dice: Chi proferisce menzogne parla del suo (Io 8,4421, gli suggerirono parole che intese nel vero senso, quello metafisico, sono splendide; prese invece in un senso che non è il loro, quello morale, hanno suscitato timori, distinzioni ed interminabili discussioni 22.
Agostino dunque voleva spiegare al suo popolo che quando l'oratore parla - e si riferiva anche a se stesso -, se dice ciò che viene da Dio, è utile a chi parla e a chi ascolta; le cose invece che vengono dall'uomo non sono che menzogne, perché nessuno ha di suo se non menzogna e peccato.
Ecco quelle parole: Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum. E, spiegando, continua: " Quanto l'uomo possiede di verità e di giustizia, proviene da quella fonte, di cui dobbiamo essere assetati in questo deserto, se vogliamo come da alcune gocce di rugiada esserne irrorati e ristorati durante la nostra peregrinazione, e così non venir meno nel cammino, e pervenire là dove la nostra sete sarà placata e saziata. Se dunque chi proferisce menzogne, parla del suo (il testo evangelico lo aveva citato anche poco prima), chi proferisce la verità, parla di ciò che è di Dio: qui loquitur veritatem de Deo loquitur " 23.
A chi legga queste parole senza preoccupazioni estranee, risulta chiaro che hanno un significato metafisico. Lo confermano il principio di partecipazione che viene esplicitamente ricordato e il testo biblico che fece sempre grande impressione ad Agostino, perché in una maniera incisiva e drastica conferma il principio suddetto e ricorda una grande luminosa verità sull'uomo; sull'uomo che deve salutarmente convincersi di avere da Dio tutto ciò che ha - l'essere, la verità, l'amore 24 - e che non ha di suo se non quanto è negativo: il nulla, la menzogna, il peccato.
Agostino torna spesso sul testo biblico 25 e qualche volta con tanta ricchezza di eloquio, con tanta chiarezza e profondità di pensiero da stupire 26. Del resto egli ne è tanto convinto e ne tira profondamente le conseguenze per se stesso, tanto che, terminando la celebre opera su La Trinità, fa a Dio questa umile, commovente preghiera: " Signore, Dio unico, Dio- Trinità, tutto ciò che ho detto in questi libri di tuo, riconoscilo tu e lo riconoscano i tuoi; se ho detto qualcosa di mio, perdonalo tu, lo perdonino i tuoi. Amen. " 27: se ho detto qualcosa di mio, ho bisogno del tuo perdono e di quello dei tuoi figli. Nulla di più bello, nulla di più profondo!
Eppure l'effato ricordato sopra -- Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum -, che il Concilio Arausicano II fece proprio nel can. 22 il quale parla appunto de iis, quae hominum sunt propria 28, ha dato occasione ad accese quanto inutili discussioni e a ingiustificati timori. Questi sono arrivati fino ai nostri giorni 29.
Chi ne volesse sapere la ragione non la cerchi nel testo agostiniano che, preso nel suo significato metafisico, tanto nel Commento a S. Giovanni, da cui il Concilio l'ha tratto, quanto altrove, è limpido e chiaro; ma la cerchi nelle controversie baiane e gianseniste nelle quali il senso del testo fu trasferito dal piano metafisico a quello morale quasi in esso si trattasse delle capacità naturali dell'uomo di operare il bene senza la grazia. Questo spostamento ha falsato il testo e ha dato occasione a discussioni senza fine e senza conclusioni. E' uno dei tanti incidenti capitati all'agostinismo.
Riportare qui quelle discussioni è inutile. Basta dire che non hanno nulla a che fare col nostro testo. Chi volesse conoscere il pensiero di Agostino sulla questione posta dal giansenismo deve ricorrere ad altri testi 30.
E' fuorviante pertanto citare le proposizioni baiane o gianseniste che insistono nel dire che tutte le opere degli infedeli sono peccati o che il libero arbitrio senza la grazia non vale se non a peccare, quasi per ammonire che le parole agostiniane potrebbero ma non debbono essere intese in quel senso; questo vuol dire che si continua su di un filone interpretativo che non è quello agostiniano ed è senza uscita.
La questione dunque è tutt'altra, e precisamente quella che ci tiene occupati: perché l'uomo debba incolpare sé del peccato e lodare Dio del bene che compie. Agostino chiede la soluzione proprio alle parole evangeliche: de suo loquitur. Se l'uomo non ha di suo che la menzogna - e ogni peccato è menzogna - non può non sentirsi in colpa se pecca, non può non lodare Dio se opera il bene.
Ma è forse meglio, concludendo, rileggere un testo agostiniano, anche se lungo. L'ho già ricordato. " Dice il Vangelo: Chi dice menzogna parla del suo. E ogni peccato è menzogna, poiché tutto quanto è contro la legge e contro la verità è menzogna. Che significa allora: Chi dice menzogna parla del suo? Significa: Chi pecca, pecca usando sue risorse. State attenti alla conclusione opposta! Se chi dice menzogna parla del suo, chi dice verità parla per dono di Dio. Per questo altrove è detto: Solo Dio è verace; ogni uomo è menzognero. Con questa sentenza non ti si dice: Avanti pure! Sei uomo, quindi puoi mentire tranquillamente. Al contrario ti si dice: Se ti riscontri menzognero renditi conto che sei uomo. E se vuoi essere verace bevi alla fonte della verità, e così usciranno dalla tua bocca parole di Dio e non sarai più menzognero. Siccome da te stesso non puoi avere la verità, non ti resta altro che berla alla sua sorgente ". Aggiunge poi due esempi efficacissimi suggeriti e confermati anch'essi dai testi biblici: " Pensa alla luce. Se te ne allontani tu piombi nelle tenebre. Immagina una pietra. Non appena l'allontani dal calore diventa fredda, poiché non ha un calore suo proprio ma è riscaldata dal sole o dal fuoco. E' chiaro, quindi, che non era una sua risorsa innata ciò che la rendeva calda, ma il suo calore proveniva o dal sole o dal fuoco. Così anche tu, se ti allontanerai da Dio ti raffredderai; se ti avvicinerai a Dio ti riscalderai ". Questa infine la conclusione: " E allora, se è vero che non puoi compiere nulla di buono se non sei illuminato dalla luce di Dio e riscaldato dallo Spirito di Dio, tutte le volte che avrai la consapevolezza di compiere il bene, confessalo a Dio e, per non insuperbirti, di' anche tu ciò che diceva l'Apostolo: Che cosa hai tu che non l'abbia ricevuto? (1 Cor 4,731 ".