SANT'AGOSTINO: INTRODUZIONE ALLA DOTTRINA DELLA GRAZIA

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MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:33

Agostino nello Studio

(Vittore Carpaccio)

Agostino Trapè


SANT'AGOSTINO:
INTRODUZIONE
ALLA DOTTRINA
DELLA GRAZIA

Grazia e Libertà

Città Nuova Editrice

INDICE

Prefazione

Questioni preliminari

I. Premessa alla premessa: come studiare Agostino

II. Premessa storico- dottrinale

1. La lettera 194

2. Le sorti della lettera

3. La risposta di Agostino

4. La replica dei monaci di Adrumeto

5. La controreplica di Agostino

6. La reazione dei monaci provenzali

7. Ultimo intervento di Agostino

8. Interpretazione di quei monaci

9. Interpretazione predestinaziana

10. Cesareo d'Arles e il secondo concilio d'Orange

11. L'agostinismo "rigido"

Parte prima: Agostino Filosofo e Teologo della Libertà

Capitolo Primo - DIFESA DELLA LIBERTA' CONTRO I MANICHEI

1. Antropologia manichea

2. Agostino accetta l'antropologia manichea

3. Si libera dell'antropologia manichea

4. Combatte l'antropologia manichea

Capitolo Secondo - DIFESA DELLA LIBERTA' CONTRO IL FATALISMO

1. Fatalismo astrologico

2. Fatalismo filosofico

3. Fatalismo (o determinismo) teologico

4. Strana sorte di Agostino

Capitolo Terzo - LA LIBERTA' DI SCELTA

1. L'utrumque o il grande binomio

2. La libertà nella Scrittura

3. La risposta ai pelagiani

4. Ma allora perché?

Capitolo Quarto - LA LIBERTA' DAL MALE, O LA LIBERTA' CRISTIANA

1. Questione semantica

2. L'insegnamento biblico

3. Le sei grandi libertà cristiane

4. La storia vista in chiave di libertà

Capitolo Quinto - LA NATURA DELLA LIBERTA'

1. La libertà non consiste nella possibilità di peccare

2. Distinzioni necessarie e importanti

3. Alcune considerazioni

4. Ingranaggi della libertà

Parte seconda: Il Teologo della Grazia

I. L'EFFICACIA DIVINA DELLA GRAZIA

Capitolo Primo - FONDAMENTO BIBLICO E LITURGICO DELL'AZIONE DIVINA DELLA GRAZIA

1. Scrittura

2. La liturgia

3. Esempio di S. Paolo

Capitolo Secondo - IL POTERE DI DIO SULLA LIBERA VOLONTA' DELL'UOMO

1. "Voluntas Dei semper invicta est"

2. Dio può convertire in volente qualunque infedele o peccatore nolente senza lederne la libertà

3. "Indeclinabiliter et insuperabiliter"

Capitolo terzo - RAPPORTO TRA GRAZIA E LIBERTA'

1. Difficoltà del problema

2. Natura della grazia efficace o "auxilium quo"

3. Distinzione sulla natura della grazia adiuvante

1) Grazia suasiva e persuasiva

2) Grazia operante e cooperante

3) Grazia preveniente e susseguente

4) "Auxilium sine quo non" e "auxilium quo"

4. Senso profondo del mistero

Capitolo Quarto - LIBERALIS SUAVITAS AMORIS

1. L'amore centro della vita spirituale

1) Riduzione all'amore di tutta l'attività umana

2) Questioni semantiche

2. La fonte di libertà

3. L'amore fonte d'infallibile efficacia

II. LA GRATUITA' DELLA GRAZIA

Capitolo Quinto - FONDAMENTO BIBLICO DEL DONO GRATUITO DELLA GRAZIA

1. Romani 9, 10-29 nella risposta a Sempliciano

2. Un cambiamento che Agostino riconosce e confessa

3. La grazia è, per definizione, gratuita

4. La gratuità della grazia ha per fine la gloria di Dio

5. "Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?"

Capitolo Sesto - DOTTRINA PELAGIANA E RISPOSTA AGOSTINIANA

1. Pelagio e i pelagiani

2. Risposta di Agostino

Capitolo Settimo - I DONO DELLA SALVEZZA

1. La giustificazione

2. L'inizio della fede

3. La perseveranza finale

Capitolo ottavo - IL MERITO

1. Le due verità delle Scritture

2. La soluzione "meritum gratuitum"

3. Meriti e giustificazione

Capitolo Nono - TRA IL "VANTO" DEL GIUSTO E LE "SCUSE" DEL PECCATORE: PREOCCUPAZIONI PASTORALI

1. Il problema

2. I due termini del problema

3. La soluzione

Parte terza: Predestinazione

Capitolo Primo - PRECISAZIONE DOVEROSA

1. Le tre verità fondamentali

2. Agostinismo?

3. Indicazioni della storia

Capitolo Secondo - PREMESSE NECESSARIE

1. Prescienza e predestinazione

2. Dio permette il male, non lo fa

3. Passi difficili della Scrittura

Capitolo Terzo - LA PREDESTINAZIONE E' UN GRANDE MISTERO

1. Questione semantica

2. Questione di fondo: la predestinazione è un profondo mistero

3. Mistero, non fato, non parzialità, non fortuna

4. Il mistero della predestinazione ricondotto a quello della misericordia e giustizia divina

5. La predestinazione e gli altri misteri cristiani

Capitolo Quarto - LA PREDILEZIONE DI DIO VERSO GLI ELETTI

1. definizione della predestinazione

2. Cristo "praeclarum lumen praedestinationis et gratiae"

3. Il battesimo dei bambini

Capitolo Quinto - L'AMORE DI DIO VERSO TUTTI GLI UOMINI

1. Cristo è morto per tutti

2. Dio non abbandona se non è abbandonato

3. Non c'è iniquità presso Dio

Capitolo Sesto - LE GRANDI VERITA' CHE FANNO DA SFONDO AL MISTERO DELLA PREDESTINAZIONE

1. Le due città

2. Dio può cambiare in meglio ogni volere umano per quanto sia ostinato nel male

3. L'elezione "secundum propositum"

Capitolo Settimo - L'INTERPRETAZIONE DI TIM 2, 4

1. Controversia pelagiana

2. Spostamento di accento nell'argomentazione teologica posteriore

3. Interpretazione universalistica di 1 Tim 2, 4

4. Un cambiamento di esegesi, non di teologia

5. Reazione dei monaci provenzali

6. Conclusione: le due spiegazioni, in quanto al contenuto, sussistono insieme

Capitolo Ottavo - IL PUNTO FOCALE DEL MISTERO DELLA PREDESTINAZIONE

1. In che cosa non consiste

2. In che cosa consiste

3. Massa dannata e massa redenta

4. "Pauci et multi"

Capitolo Nono - LA DOTTRINA DELLA PREDESTINAZIONE E L'AZIONE PASTORALE

1. Predestinazione e preghiera

2. Predestinazione e speranza cristiana

3. Predestinazione e azione

4. Predestinazione e predicazione

5. Predestinazione e pietà cristiana

6. Predestinazione e dottrina cattolica


MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:34
prefazione

PREFAZIONE

Queste pagine nascondono una speranza; la speranza dell'autore di aver portato, dopo non pochi anni di studio, un contributo alla chiarificazione del pensiero agostiniano su un argomento tanto importante e pur tanto difficile. Se ha raggiunto lo scopo lo dirà il lettore.

Grazia e libertà sono un binomio ad alto rischio; il rischio di trasformarsi, a causa d'una imprudente e fatale scelta, in un dilemma: o la libertà senza la grazia o la grazia senza la libertà. La scelta semplifica il problema ma è, ho detto, fatale, perché deforma un insegnamento che consiste essenzialmente nella sintesi. Tale fu appunto quello del vescovo d'Ippona. Egli è il pensatore della sintesi, delle grandi sintesi, in questo argomento come in tanti altri - Dio e l'uomo, per esempio, Cristo e la Chiesa, amore e timore, ecc. -. Trasformare i suoi binomi in dilemmi significa condannarsi a non capirlo. Non bisogna scegliere, ma studiarlo, per capirlo, in quel profondo - nel caso nostro nel profondo dell'uomo -, dove s'incontrano le verità che sembrano contrarie.

Libertà e grazia. Agostino ha difeso la grazia - necessità efficacia gratuità - ma anche la libertà; ha difeso la libertà ma anche la grazia. L'insegnamento costante e la raccomandazione pressante del vescovo d'Ippona è che i due termini - libertà e grazia - siano tenuti fermi insieme, anche quando non se ne comprenda l'armonia profonda. Basta in questo caso riferirsi a Cristo che è insieme Salvatore e Giudice. Ora come può essere Salvatore se si nega la grazia? E come può essere Giudice se si nega la libertà? Essa è necessaria per essere responsabili dei propri atti ed acquisire il merito. Ed ecco una distinzione preziosa - che molti non sanno (o dimenticano) che Agostino abbia fatto -: la distinzione tra la libertà necessaria per acquistare il merito e la libertà per possedere il premio: la prima esige che si ponga un atto - è Agostino stesso che spiega - con il potere di non porlo, la seconda no, perché ha raggiunto la perfezione, possiede quindi la "beata necessità" di non venir mai meno dall'amore del bene: il poter peccare non è una prerogativa della libertà.

Posti al sicuro questi cardini dommatici intorno alla libertà di scelta, il nostro dottore spazia ampiamente e con gioia nei vasti campi della libertà cristiana. Anzitutto egli osserva che la libertà è tanto cara che affascina l'animo dell'uomo, lo attrae, lo avvince. Libertas delectat!, esclama, ed aggiunge: delectet te, et liber es: ti diletti la vera libertà e sarai libero. La vera: volere il male è libertà falsa o segno di libertà, ma come la malattia è segno della salute.

Descrive poi minutamente e con grande compiacenza le diverse libertà cristiane per esaltare il Cristo della cui redenzione sono il frutto. Le riduce tutte alla legge suprema dell'amore: la legge della libertà è appunto la legge dell'amore. Il suo celebre "ama e fa' ciò che vuoi" è vero, profondo e bello. Fa pena costatare che alcuni lo intendono maledettamente male. Per fugare ogni equivoco basta ricordare che il nostro dottore riduce la libertà alla legge dell'amore (solo chi ama veramente, come spiega con ricchezza di particolari, è libero), ma riduce l'amore alla legge suprema della giustizia, che vuol dire verità, rettitudine, perfezione.

Chi poi volesse seguirlo nella meditazione sulle libertà cristiane, si troverebbe in serio imbarazzo per la vastità del panorama. Per orientarsi potrebbe ridurle a sei, e precisamente alla libertà dall'errore, dal peccato, dal dominio delle passioni disordinate, dalla legge, dalla morte, dal tempo. Questa liberazione avviene attraverso i doni che Cristo elargisce ai credenti: la fede, la giustificazione, la grazia adiuvante - che rende possibile e reale dominare e riordinare le passioni perché non siano una forza perversa -, l'amore che osserva la legge senza essere soggetto alla legge, la vita piena della risurrezione, l'eternità.

Si potrebbe aggiungere ancora, tanto per fare un altro esempio, la libertà sociale, quella che, partendo dalla ritrovata unità interiore, crea la libertà esteriore e porta la volontà dell'uomo a coincidere con la natura dell'uomo. Nessuno è infatti più sociale dell'uomo per natura, e nessuno è più antisociale per vizio. Da questo contrasto nascono gli innumerevoli e drammatici mali sociali. La grazia cristiana, sanando progressivamente questo vizio, che è poi il vizio dell'amore disordinato di sé, rende possibile all'uomo di essere sociale di fatto come lo è per natura, cioè in grado sommo, e di godere insieme agli altri il dono ineffabile della libertà.

La predestinazione. Chi non volesse parlarne faccia pure, purché conservi la tesi di fondo che Agostino ha voluto dimostrare, che cioè la salvezza, dall'inizio della fede alla perseveranza finale, è un dono di Dio, un dono che non toglie la collaborazione umana, in particolare l'umiltà, la preghiera, la fiducia, ma prima di tutto dono di Dio. Egli non ha voluto tarpare le ali alla speranza ma fondarla, non alla preghiera ma suscitarla, non all'azione ma spronarla.

Evidentemente il discorso di Agostino non è che un momento della lunga tradizione cristiana: manca tutta la tradizione prima di lui e quella, davvero tormentata, dopo di lui, anche se di questa qualche accenno qua e là sia stato fatto. L'abbondante materia può essere oggetto di altri studi. Di libri, avverte il Manzoni, basta uno alla volta, quando non sia di troppo.

Questo (libro) può servire ad esporre quale sia, secondo l'opinione dell'autore, il pensiero di chi nella lunga tradizione cristiana ha più ex professo studiato la questione e ha impresso ad essa un indirizzo determinante.

Roma, 24 aprile 1987 - XVI centenario del Battesimo di S. Agostino

Agostino Trapè

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:36
QUESTIONI PRELIMINARI

QUESTIONI PRELIMINARI

I

Premessa alla premessa: come studiare Agostino

Grazia e libertà, tema fondamentale ed essenziale, ma anche tema difficile. Difficile in sé, perché varca le soglie del mistero e v'entra dentro, difficile in Agostino perché dovette farsi strada con le proprie forze, da pioniere; difficile nella storia della teologia, perché soggetto a tante soluzioni contrastanti. Qui più che altrove occorre trovare il giusto metodo per studiare gli scritti del vescovo d'Ippona, leggendolo con i suoi stessi occhi ed esponendolo così com'è, senza aggiungere né togliere nulla. L'ho detto altrove 1. Qui vorrei aggiungere che questo è un principio critico insostituibile, ma che non è il solo. Occorre ricordarne un altro non meno necessario: leggere tutto Agostino e cercare di concordarlo con se stesso. Principio di buon senso, si dirà. Certo, è un principio di buon senso, ma spesso dimenticato. Si deve perciò ricordarlo. E' quello stesso che il nostro dottore applicò allo studio della Scrittura, e lo difese, e ad esso richiamò continuamente i suoi avversari, dei quali il difetto dominante, a suo giudizio, era proprio quello di non tener presente tutta la Scrittura o di non fare nessuno sforzo per concordarla con se stessa. Il primo rimprovero lo fece ai manichei 2, il secondo ai pelagiani, in particolare a Celestio 3. Non è troppo chiedere che questo principio sia applicato anche a lui. Non già per stabilire un paragone tra contenuti e contenuti - nessuno ha messo più fortemente in rilievo l'essenziale differenza tra l'autorità della Scrittura e quella di un qualsiasi altro autore 4 -, ma per ravvicinare un metodo interpretativo, il quale, trattandosi d'uno scritto, non può non andare soggetto agli stessi criteri generali.
Non v'è dubbio che leggendo tutto Agostino si possano trovare, e si trovino, affermazioni contrastanti. Ma in questo caso, non infrequente, invece di ricorrere al comodo principio che egli si contraddica - e qualcuno aggiunge: di continuo -, occorre chiedersi se questi apparenti contrasti non appartengano all'insegnamento della Scrittura che il vescovo d'Ippona interpreta e vuol concordare. Se risulterà, come spesso risulta, che nella Scrittura ci siano affermazioni diverse e apparentemente contrastanti, come, per fare qualche esempio, libertà e grazia, fede e opere, giustizia e peccato, merito e dono, il problema si sposta; si sposta, dico, da Agostino alla stessa Scrittura. Allora le domande da porsi sono altre e un po' diverse: non già se il vescovo d'Ippona è caduto in contraddizioni, ma se ha interpretato bene la Scrittura, se l'ha tenuta presente in tutte le sue parti, se è riuscito a concordarla con se stessa. Dalla risposta a queste domande dipenderà il giudizio sull'omogeneità e la concordia interna del suo insegnamento.
Se invece risulterà che le affermazioni contrastanti sono sue proprie, prima di ricorrere al principio suddetto bisogna chiedersi - è l'onestà scientifica che lo suggerisce - se egli non offra un termine medio per concordare quelle affermazioni o, qualora esplicitamente non l'offrisse egli stesso, se non lo si possa ragionevolmente supporre. Di ambedue questi casi ho portato altrove esempi validi e, ritengo, convincenti 5.
Seguendo questo metodo, che non esula dalle leggi della critica e meno ancora da quelle del buon senso che ne è il fondamento, gli spazi di eventuali contraddizioni si restringono e forse spariscono affatto. Agostino apparirà non tanto un pensatore geniale ma frammentario, che lancia secondo l'occasione ora un'affermazione ora un'altra, anche se contraria, bensì piuttosto il filosofo e il teologo delle grandi sintesi che sa stringere insieme nell'unità gli aspetti più diversi dei problemi. Sulla linea di queste grandi sintesi occorre studiare il maestro d'Ippona, come, del resto, ogni grande maestro. Così mi studierò di fare, esponendo, non difendendo Agostino. Esponendo: questo è necessario prima di tutto. Non si può né difendere né criticare un autore senza averlo presente in tutte le sue parti. E' utile non dimenticare quest'ovvio principio di ermeneutica a cui cercherò di attenermi.

II

Premessa storico- dottrinale

Raccogliendo questo volume le ultime opere agostiniane sulla libertà e la grazia, la premessa non può non riguardare l'occasione e la storia della loro composizione. Questa ha una sola origine: la celebre lettera 194. Infatti, da questa lettera nacque il De gratia et libero arbitrio, dal De gratia et libero arbitrio il De correptione et gratia, dal De correptione et gratia il De praedestinatione sanctorum e il De dono perseverantiae, che erano, nell'intenzione dell'autore, due libri di una sola opera. Ecco come si svolse l'intreccio delle cause.

1. La lettera 194

Fu scritta al presbitero romano Sisto - divenuto poi Sommo Pontefice col nome di Sisto III -, in un momento cruciale della controversia pelagiana: verso il 418. Sisto aveva avuto fama, arrivata anche ad Agostino, di essere favorevole ai pelagiani. Non fa meraviglia: tra gli aristocratici romani non dovevano essere pochi con un tale atteggiamento. Le esitazioni di Papa Zosimo 1 potrebbero esserne una conseguenza. Ma quando questi condannò il pelagianesimo con la celebre lettera Tractoria, anche Sisto ne divenne avversario e lo combatté con tanta forza che Agostino dovette richiamarlo alla prudenza e alla mitezza 2.
Del cambiato atteggiamento Sisto ne informò il vescovo d'Ippona, il quale gli rispose con una breve lettera, rallegrandosi della sua fede e promettendogli una lettera più lunga. E' la lettera 194, che Agostino chiama anche trattato: librum vel epistulam meam (Ep. 214,2) e che comincia: " Nella lettera che ti ho fatto recapitare 3... t'avevo promesso di inviartene una più lunga... "; e afferma: " C'intratteniamo un po' più a lungo con te per raccomandarti d'insistere nell'istruire coloro che, da quanto ci risulta, hai troppo insistito ad atterrire " 4.
Basta questo inizio per rivelare l'animo di Agostino: egli vuole chiarire, approfondire, illuminare, non imporre un insegnamento; capire le Scritture e aiutare gli altri a capirle. Si vedrà meglio dalla conclusione della lettera.
Questa comincia con un luminoso presupposto, che è il seguente: predicando la grazia non si toglie, ma si rafforza il libero arbitrio. Ciò che aveva spiegato alcuni anni prima nel De spiritu et littera 5. Qui si limita a scrivere: " Quanto al fatto ch'essi credono - si riferisce evidentemente ai pelagiani -, che si toglie loro il libero arbitrio qualora ammettano che non si può avere nemmeno la stessa buona volontà senza l'aiuto di Dio, non capiscono che in tal modo non rafforzano il libero arbitrio ma lo gonfiano facendolo vagare nel vuoto invece di fondarlo in Dio come su di una solida roccia " 6.
Posto questo chiaro fondamento l'autore affronta la " difficilissima questione " della grazia 7. Si noti, di passaggio, quest' espressione. Agostino sa che la questione è molto difficile e che pochi possono comprenderla 8; perciò non vuol dire nulla di suo, ma ascoltare con umiltà e attenzione le parole dell'Apostolo, che riferisce ampiamente.
L'interpretazione che dà dell'insegnamento di S. Paolo è quella stessa che aveva dato nelle molte opere precedenti e nelle non poche che seguiranno. Eccola in breve.
- I termini del mistero sono questi: a chi si perde viene inflitta la pena dovuta, a chi si salva viene elargita la grazia non dovuta, " per cui il primo non può lamentarsi di non meritare la pena e il secondo non può vantarsi di meritare la grazia " (2,4).
- L'elezione divina non viene fatta " per la prerogativa del merito, né per l'ineluttabilità del fato, né per un cieco capriccio della fortuna, ma solo a causa dell'abissale ricchezza della sapienza e scienza di Dio " (2,5).
- E ciò perché " Dio abbia la gloria (Rom 11,36) di rendere giusti i peccatori col dar loro gratuitamente la sua grazia " (3,6).
- La fede che opera per mezzo dell'amore (Gal 5,6) è un dono di Dio (3, 9 - 15).
- La preghiera è un dono di Dio: " Perché non si pensi che precedono almeno i meriti della preghiera, in compenso dei quali sarebbe concessa una grazia non gratuita..., anche la stessa preghiera si trova tra i doni della grazia " (4,16).
- La vita eterna suppone, è vero, i meriti, ma questi suppongono la grazia, dono gratuito; perciò " quando Dio premia i nostri meriti non fa altro che premiare i suoi doni " (5,19).
- La gratuità dell'elezione divina appare dalla sorte dei bambini, dei quali solo alcuni muoiono col battesimo (7, 31 - 32).
- Di fronte al mistero della divina elezione due sole certezze illuminano il cristiano che vive di fede: 1) che in Dio non c'è iniquità; 2) che i disegni divini sono imperscrutabili (6,23).
Mentre Agostino, interpretando S. Paolo, era tutto rivolto ad esaltare la misericordia del Signore nella salvezza dei giusti, i pelagiani, guardando l'altra faccia del mistero, che è la condizione e la sorte dei peccatori che si perdono, proponevano le loro difficoltà e si avventuravano a risolvere l'argomento tratto dai bambini che muoiono senza battesimo. Le difficoltà erano soprattutto due: 1) " è ingiusto che in un processo per una medesima colpa, uno venga assolto e l'altro punito " (2,5); 2) " coloro che non vogliono vivere bene e secondo la fede si scuseranno dicendo: 'Che cosa abbiamo fatto noi che viviamo male... dal momento che nessuno può opporsi alla volontà di Dio che ci fece ostinare col rifiutarci la sua grazia?' " (6, 22 - 23). La soluzione invece della sorte diversa dei bambini viene chiesta non ai meriti che non ci sono, ma ai meriti o demeriti che ci sarebbero stati se fossero vissuti più a lungo, cioè ai futuribili: Dio punisce " le cattive azioni, non quelle compiute, ma quelle che si sarebbe potuto compiere " (9,42).
A questa soluzione e a quelle difficoltà Agostino, che non è abituato a lasciarne cadere alcuna, risponde. Dimostrare l'assurdità di questa soluzione, che ricorreva ai futuribili, non era difficile, tanto essa appare strana e incredibile (9,42 - 10,43); più difficile rispondere alle difficoltà, perché toccano da vicino il mistero.
Alla prima risponde che se è vero che la sorte di tutti gli uomini è la stessa, da questa identità risaltano però la giustizia di Dio, che retribuisce ad alcuni secondo i loro demeriti, e la misericordia di Dio che salva altri anche senza alcun merito, affinché " sia messo in risalto che cosa meriti il peccato in base alla giustizia... "e" che cosa elargisca la grazia " (2,5). Infatti " tutte le vie del Signore sono bontà e verità (Ps 24,10)... La bontà e la verità di Dio sono in pieno accordo tra loro... in modo che la bontà non rechi pregiudizio alla verità con cui è punito chi lo merita, né la verità alla misericordia con cui è salvato chi non lo merita " (3,6).
Alla seconda ricordando che Dio iniquitatem... damnare novit, non facere. Perciò " come dalla volontà di Dio proviene la natura umana degna, senza nessun dubbio, di lode; così dalla volontà dell'uomo proviene la colpa degna, senza che nessuno ricusi d'ammetterlo, di condanna " (6,30). Quelli che vivono male de suo male vivunt (6, 22); e chi non obbedisce a Dio, " perché mai non obbedisce, nisi sua pessima voluntate? " (6,24). Sono perciò inescusabili (6, 25 - 28). L'indurimento di cui parla S.Paolo (Rom 9,18) altro non è che la permissione divina, che lascia ostinare il peccatore non impertiendo malitiam sed non impertiendo misericordiam (3,14).
Concludendo chiede al destinatario della lunga lettera che, se venisse a conoscenza di altri argomenti escogitati su questo punto contro la fede cattolica, glieli comunichi, perché possa, se sarà necessario, approfondire le Scritture e contribuire da parte sua a difendere la purezza o, com'egli dice, la " verginità " della fede. " Dal turbamento che ci procurano gli eretici - scrive con profonda ragione teologica e pastorale - viene svegliato come dal sonno della pigrizia il nostro zelo affinché indaghiamo più attentamente le Scritture con le quali poter replicare ad essi perché non rechino danno all'ovile di Cristo " (10,47) 9.

2. Le sorti della lettera

La lettera ebbe una sorte che Agostino non poteva aspettarsi. S'aspettava nuove difficoltà che gli venissero dal fronte pelagiano, e aveva pregato Sisto che, se ci fossero state, gliele avesse comunicate, ma non se le aspettava dal fronte interno, e per di più monastico. Avvenne proprio questo. Quella lettera suscitò una serie di reazioni a catena, il cui ultimo anello può considerarsi la dura presa di posizione dei monaci di Marsiglia, i quali si spinsero tanto avanti, non si sa se per ignoranza o in mala fede, fino ad interpretare Agostino, a dispetto delle sue risposte, in chiave predestinaziana; interpretazione che durerà per molti secoli e dura ancora. Ecco in ogni modo come andarono le cose.
Appena pubblicata, la lettera si diffuse rapidamente nel bacino mediterraneo. Un monaco di Adrumeto, città della Bizacena (oggi Sussa, in Tunisia), di nome Floro, recatosi per motivi di carità ad Uzali, sua città natale, ve la trovò; la lesse, gli piacque, la trascrisse sotto dettatura del monaco Felice, suo compagno, e la fece portare al monastero " come un pane di benedizione ", mentre egli si trattenne qualche tempo a Cartagine. Nel monastero la lettera fu letta all'insaputa dell'abate e creò un subbuglio. Alcuni fratelli di poca o nessuna cultura (imperiti) ne furono turbati profondamente. Floro, tornato da Cartagine, cercò di spiegare e chiarire, ma inutilmente. Si ricorse ad Evodio, vescovo di Uzali, discepolo ed amico di Agostino 10; questi rispose 11, ma la pace nel monastero non tornò. Si fece appello al " santo prete Sabino ", il quale " lesse il trattato e lo spiegò nel modo più chiaro; ma neppure ciò apportò la guarigione alla ferita del loro animo ". Vollero andare ad Ippona anche contro il parere dell'abate. Vi andarono di fatto Cresconio e Felice, raggiunti poco dopo da un altro Felice 12.
Che cos'era accaduto? Quel che c'era da aspettarsi. Dimenticando il presupposto sulla grazia e la libertà da cui il discorso agostiniano partiva (2,3) e l'avvertimento che si trattava di una " questione difficilissima " (2,5) in cui è necessaria molta umiltà e la disposizione a non voler sapere più di quanto si possa sapere, non prendendo in nessuna considerazione, inoltre, la risposta di Agostino alle difficoltà dei pelagiani (vedi sopra), quei monaci, sprovvisti di teologia e di cultura, ne conclusero, semplicisticamente, che chi predicava la grazia negava il libero arbitrio e, quel che è peggio, che nel giorno del giudizio Dio non renderebbe a ciascuno secondo le sue opere 13. Essi, poi, per proprio conto, difendevano il libero arbitrio in modo da negare la grazia, affermando che la grazia ci viene data secondo i nostri meriti 14, che era, come si sa, una delle tesi fondamentali del pelagianesimo, già condannata, oltre tutto, dal sinodo di Diospoli e dallo stesso Pelagio 15.

3. La risposta di Agostino

Agostino accolse benevolmente i due monaci e poi il terzo che li raggiunse, s'informò sulla causa del dissenso e, data la loro premura di tornare in monastero per passare ivi la Pasqua, diede loro una lettera per l'abate, nella quale riassumeva i termini della questione, " difficilissima e che solo pochi possono capire " 16, ricordava che la sua lettera era stata scritta contro gli eretici pelagiani - ormai egli non temeva più di chiamarli così -, i quali sostenevano che la grazia ci viene data secondo i nostri meriti, ed era tutta impegnata a dimostrare che senza la grazia non potremmo " compiere in alcun modo opere buone, né pregare con sentimenti di pietà, né credere con retta fede " 17. Detto questo riconduceva il problema della libertà e della grazia a un motivo cristologico: Cristo è salvatore e giudice insieme. Scrive infatti: " Innanzi tutto il Signore Gesù Cristo... è venuto non per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato da lui. Ma in seguito, come scrive l'apostolo Paolo, Dio giudicherà il mondo, e lo giudicherà quando verrà a giudicare i vivi ed i morti, come confessa tutta la Chiesa nel simbolo. Se, dunque, non c'è la grazia di Dio, in qual modo Dio salverà il mondo? E se non c'è il libero arbitrio, in qual modo giudicherà il mondo? "; e conclude: " Interpretate secondo questa fede il trattato o lettera mia " 18. Scritta la lettera, i due monaci cambiarono opinione lasciandosi convincere di passare la Pasqua ad Ippona per poter tornare in monastero " meglio provvisti di argomenti contro i nuovi eretici pelagiani " 19. Agostino ne approfittò per scrivere un libro sul tema discusso della grazia e della libertà, il De gratia et libero arbitrio.
Passata la Pasqua, scrisse un'altra lettera all'abate per spiegare il ritardato ritorno dei monaci e spiegargli l'impegno che aveva messo per " rinsaldarli nella sana dottrina cattolica, la quale non nega il libero arbitrio al fine di scegliere sia la vita buona sia quella cattiva, ma, d'altra parte, non gli accorda nemmeno tanta capacità che possa fare alcunché senza la grazia di Dio, sia che si tratti di volgersi dal male al bene o di perseverare o di progredire nel bene " 20; e raccomandò, ancora una volta, di non deviare, in una questione tanto difficile, né a destra né a sinistra 21. Diede loro, poi, le due lettere, il trattato su La grazia e il libero arbitrio, tutti i documenti ecclesiastici sulla condanna del pelagianesimo - come aveva desiderato fare fin da principio 22 -, che erano molti 23, e li mandò ad Adrumeto con la preghiera all'abate di mandargli " il fratello Floro " 24.
Dell'analisi della risposta agostiniana nell'opera La grazia e il libero arbitrio, che è fondamentale per la dottrina della grazia, particolarmente a motivo della puntigliosa dimostrazione biblica dell'inseparabile binomio: grazia e libertà, come pure dell'altro: grazia operante e grazia cooperante, e dell'altro ancora: vita eterna, mercede e dono, si dirà a suo luogo. Qui continuiamo con la storia, che è ancora lunga.

4. La replica dei monaci di Adrumeto

Non molto tempo dopo Floro arrivò ad Ippona latore d'una lettera dell'abate Valentino. Questi raccontava l'origine del turbamento e gli effetti di pacificazione che erano seguiti all'intervento di Agostino: i cinque o sei che avevano seminato disordine s'erano placati. " Come talora - scrive -, dalla tristezza nasce la gioia, così noi pure adesso non siamo più afflitti a causa di quegli ignoranti, smaniosi di sapere più di quanto sono capaci, e abbiamo meritato d'essere illuminati dai graditissimi insegnamenti della Santità tua " 25.
Ma l'abate doveva essere male informato. Qualcuno in quel monastero non era restato soddisfatto: partendo dall'insistenza con cui Agostino parlava della necessità della preghiera 26, aveva concluso che non era necessaria la correzione, ma solo la preghiera. " Mi è stato annunziato che qualcuno in quel monastero - ibi quemdam - ha detto che non bisogna correggere nessuno se non osserva i comandamenti di Dio, ma pregare per lui perché li osservi " 27.

L'informatore non potrà essere stato che Floro. Agostino lo aveva trovato, riguardo alle idee sulla libertà e la grazia, " come lo desideravo " 28. Ma c'è da chiedersi: quel ibi quemdam indica solo uno o si trattava d'un gruppo, sia pur piccolo, come nel primo caso? Nella risposta, riproponendo la stessa difficoltà, viene usato il più generico dicunt, o inquiunt. " Non si illudano quelli che dicono: 'Come mai ci viene predicato ed ordinato di allontanarci dal male e di fare il bene, se non siamo noi a fare ciò, ma il volerlo e l'operarlo è in noi opera di Dio?' " 29. Ed ancora: " Dunque, dicono, quelli che ci dirigono si limitino a prescriverci ciò che dobbiamo fare e preghino per noi affinché lo facciamo; ma non ci riprendano e non c'incolpino se non lo faremo " 30. E poco dopo: " In qual maniera, si dice, è per colpa mia che non ho, se quello che non ho non l'ho ricevuto da Colui che è l'unico a darlo...? Infatti così dicono coloro che nelle loro malvagie opere non vogliono essere rimproverati dai sostenitori di questa grazia: 'Prescrivimi cosa io debba fare, e se lo farò, rendi per me grazie a Dio che mi ha concesso di farlo; se non lo farò, non bisogna rimproverare me, ma bisogna pregare Dio perché dia ciò che non ha dato' " 31.
Fosse uno o fossero più coloro che presentavano queste difficoltà, Agostino, fedele al suo proposito di spiegare l'inserimento della grazia nell'azione libera dell'uomo e nella storia della salvezza, allo scopo di difendere la fede cattolica su di un punto tanto delicato, rispose, scrivendo una delle opere più importanti e più difficili, di quante ne ha scritte - e non sono poche -, sull'argomento della grazia: il De correptione et gratia. Un'opera che probabilmente fu accolta bene ad Adrumeto, ma suscitò reazioni violente a Marsiglia. Vediamone rapidamente il contenuto. Un'analisi più ampia a suo luogo come premessa all'opera stessa.

5. La controreplica di Agostino

Il De correptione et gratia prende l'avvio dall'asserita inutilità della correzione, per difenderne la necessità e ribadire alcune tesi fondamentali intorno alla grazia, spaziando nella storia della salvezza interpretata in chiave di libertà. Della libertà dell'uomo si tratta in tutta l'opera.
Afferma prima di tutto che le tre cose necessarie per la salvezza sono: i precetti divini, la correzione fraterna e la preghiera per ottenere la grazia. Questo infatti hanno insegnato gli Apostoli e questo hanno messo in pratica. " Tutte queste cose devono essere fatte, perché gli Apostoli, dottori della Chiesa, le facevano tutte: prescrivevano quello che andava fatto, riprendevano se non veniva fatto, e pregavano perché si facesse " 32. Comincia poi, ancora una volta, a difendere appassionatamente la verità della grazia: " Lasciate, o fratelli miei, che io lotti almeno un poco non contro di voi, che avete un cuore retto nei confronti di Dio, ma contro coloro che nutrono sentimenti terreni, o addirittura contro gli stessi pensieri umani, in favore della verità della grazia celeste e divina " 33.
Messo al sicuro che il malvagio è tale per propria colpa - tuum quippe vitium est quod malus es34, dimostra che la perseveranza nel bene è un grande dono di Dio - magnum Dei munus 35 -; distingue tra la grazia di Adamo e quella di tutti gli uomini, Adamo compreso, dopo il peccato - auxilium sine quo non e auxilium quo 36 -; spiega che altra è la libertas minor che consiste in Adamo nel posse non peccare e altra è la libertas maior che consisterà nel non posse peccare 37, e insiste nel dire che Adamo deseruit et desertus est 38, e così coloro che si perdono deserunt et deseruntur 39.
In quanto al perché di questa permissione divina verso alcuni e della elezione secondo il proposito di altri confessa la sua ignoranza - me ignorare respondeo 40 - e non ha altra ragione da dare se non quella della fede: " Su tutto questo problema noi confessiamo nella maniera più salutare quello che crediamo nella maniera più retta ", e cioè: " Dio, Signore di tutte le cose, le creò tutte buone assai, seppe in precedenza che dai beni sarebbero sorti dei mali, ma conobbe che era più conveniente all'assoluta onnipotenza della sua bontà trarre il bene anche dai mali piuttosto che non permettere l'esistenza dei mali; dunque dette alla vita degli angeli e degli uomini un ordinamento tale da dimostrare in essa in primo luogo quale potere avesse il loro libero arbitrio, in secondo luogo quale potere avesse il beneficio della sua grazia e il giudizio della sua giustizia " 41.
C'è dunque nell' opera agostiniana - profonda e insieme, a causa dell'argomento, difficile -, una chiara presa di coscienza di quanto la rivelazione c'insegna sulla storia della salvezza circa la sorte ineguale delle creature razionali, angeli e uomini; un'insistenza quasi monotona sui due fattori che compongono questa storia, la grazia divina e la libertà umana, che comportano la legge, l'utilità della disciplina ecclesiastica, la necessità della preghiera; un'esaltazione della libertà dell'uomo, opera della grazia; un richiamo pressante al senso del mistero. Un'opera che richiedeva un'attenta riflessione e imponeva un atteggiamento spirituale di umile e serena fiducia in Dio. Destinata a placare le contestazioni, non fece che rinfocolarle. Non già ad Adrumeto, di cui non conosciamo le reazioni, ma possiamo supporre che fossero positive, bensì nei monasteri fondati da Giovanni Cassiano nel Sud della Francia, a Marsiglia.

6. La reazione dei monaci provenzali

Alcuni religiosi di queste comunità - non si sa quanti, ma si ha l'impressione che non fossero pochi - avevano trovato di che ridire nelle opere di Agostino contro Giuliano, ma leggendo quest'ultima opera scoppiarono in un'aperta e radicale opposizione. Di questa tam obrupta dissensio due laici delle Gallie - Prospero ed Ilario - informarono il vescovo d'Ippona 42. Un'esposizione particolareggiata di questa informazione sarà data nell'introduzione alle due opere agostiniane che provocò. Qui basti qualche breve accenno.
Per ragioni di chiarezza è bene distinguere le critiche distruttive e l'esposizione positiva: quelle facili, questa... meno.
La critica di fondo era che la dottrina agostiniana sulla vocazione degli eletti secondo il disegno divino, cioè della predestinazione, costituiva una novità nei riguardi dei Padri ed urtava contro il senso ecclesiastico: " Molti reputano contrarie al pensiero dei Padri e al sentimento della Chiesa tutte le idee che, negli scritti della Santità tua contro l'eresia di Pelagio, hai esposte riguardo alla vocazione degli eletti fondata sul decreto di Dio " 43.
In particolare avevano cinque obiezioni da fare. Quella dottrina: 1) rende inutile lo sforzo sia dei peccatori a rialzarsi sia dei giusti a progredire; 2) sopprime la virtù; 3) induce a una specie di fatalismo; 4) porta a concludere che Dio ha creato nature di specie diverse (manicheismo?) 44; 5) fa che sia inutile e dannosa la predicazione della grazia divina. " E' una novità inutile e non gioverebbe alla predicazione dire che l'elezione di alcuni avviene in virtù d'un decreto di Dio... " 45, non farebbe che dare agli uomini " motivo di disperazione " 46. " Che bisogno c'era, concludevano, di trattare problemi così oscuri e turbare in tal modo tante coscienze incapaci di capirli? " 47. Se si eccettua quest'ultima difficoltà sulla predicazione, che sembra essere propria di quei pii monaci, le altre erano le stesse che presentavano i pelagiani, dai quali essi pur si sentivano lontano su due punti essenziali di cui dirò subito.
Passando pertanto alla parte positiva ecco come concepivano la salvezza per mezzo della grazia. I due punti fermi nei quali si allontanavano dai pelagiani erano: 1) " ogni uomo ha peccato per il fatto che ha peccato Adamo ", cioè l'affermazione del peccato originale; 2) " nessuno si salva in virtù delle proprie opere, ma in virtù della grazia di Dio mediante la rigenerazione battesimale ", cioè la professione di fede nella necessità della grazia 48.
Per il resto sostenevano:
1) A tutti gli uomini senza eccezione è offerta la propiziazione, cioè il perdono e la misericordia di Dio.
2) La grazia segue pertanto la determinazione della volontà e la predestinazione la prescienza dei meriti, che sono i meriti della fede e della perseveranza finale: " Dio conosce nella sua prescienza prima della creazione del mondo quelli che crederanno e quelli che persevereranno nella fede " 49.
3) Con questi due princìpi contrastavano però due grosse difficoltà che postulavano una soluzione coerente: la sorte diversa dei bambini morti con o senza battesimo e la predicazione che è avvenuta dopo tanti secoli e non è ancora arrivata a tutti i popoli.
La prima difficoltà la risolvevano ricorrendo ai futuribili, cioè a quanto i bambini avrebbero fatto se fossero giunti alla maggiore età. " Quei bambini si perdono o si salvano secondo la previsione che la scienza di Dio ha avuto di quello che diverrebbero nella maggiore età... ". Lo stesso in sostanza dicevano per la predicazione del Vangelo: " ...non hanno avuto la grazia di ascoltare la predicazione del Vangelo solo perché non lo avrebbero accettato " 50.
Questa è la soluzione positiva del mistero della salvezza che quei monaci proponevano secondo quanto ne riferisce Prospero, il quale non tace che alcuni di essi andavano tanto avanti da allontanarsi poco o affatto dalle posizioni pelagiane quando, per esempio, parlano esclusivamente della grazia della creazione o della forza salvatrice della legge naturale, affermando tesi che Agostino aveva ampiamente confutate contro i pelagiani, dimostrando che esse " svuotano la legge di Cristo ".
Anche Ilario non riferiva solo le difficoltà che quei monaci facevano contro la dottrina del vescovo d'Ippona, ma anche la loro propria soluzione.
1) Questa si basava tutta sul merito della fede e della perseveranza finale, la cui prescienza era la ragione della predestinazione. A sostegno della loro posizione si appellavano ai Padri, Agostino compreso. Di Agostino si appellavano in particolare alla lettera 102, questione seconda: sul tempo della religione cristiana (nn. 8 - 15), e agli scritti giovanili nei quali ascriveva alla fede dell'uomo la scelta di Dio.
2) Distinguevano poi tra inizio della fede ed in cremento della medesima ascrivendo questo a Dio, quello all'uomo.
3) Adducevano, poi, un esempio suggestivo, quello dell'ammalato che chiede l'aiuto della medicina: come non si nega l'efficacia della medicina quando si afferma che l'ammalato deve cercare il medico, così " non è una negazione della grazia l'affermare che essa è preceduta dalla volontà, la quale non fa altro che cercare il medico, ma non può far nulla da sola " 51.
In conclusione, quei monaci, giustamente preoccupati di affermare la volontà di Dio di condurre tutti gli uomini alla salvezza, si affaticavano per trovare nella volontà dell'uomo il merito e il demerito su cui fondare la scelta divina. La grazia è necessaria per salvarsi, ma l'uomo può far qualcosa per meritarla: incominciare a credere e perseverare nella fede e nelle buone opere. Ma anche questa soluzione che sembra essere tanto semplice ha le sue buone difficoltà. Per scioglierle non si trova di meglio che ricorrere allo strano appiglio dei futuribili.

7. Ultimo intervento di Agostino

Queste in sostanza le difficoltà dei monaci di Marsiglia e questa la loro proposta. Interessante la reazione del vescovo d'Ippona dopo la lettura delle due missive. Il punto di partenza di tutto lo scandalo era, come si è detto, la dottrina agostiniana della predestinazione. Eppure non su questo punto si fissò l'attenzione di Agostino, bensì su quanto essi proponevano come soluzione del problema, cioè sulla fede o inizio della fede che ascrivevano all'uomo, e sulla perseveranza finale che sarebbe dipesa parimenti dall'uomo. Fa inoltre impressione il rimprovero che la dottrina della grazia, come lui la esponeva, era dannosa e non si poteva, senza pericolo per la pietà, predicare al popolo - accusa grave, questa, per Agostino, tutto proteso com'era verso la pastorale -, e quell'insistente riferirsi ai suoi scritti giovanili o in ogni modo a quelli anteriori alla controversia pelagiana. La risposta è contenuta in un'opera in due libri, che poi, non si sa perché, sono stati distinti in due opere: la Predestinazione dei santi e il Dono della perseveranza.
Di queste opere si dirà a suo luogo. Qui basterà osservare che la prima, la Predestinazione dei santi, propone e dimostra questa tesi di fondo: la fede è un dono di Dio, anche il suo inizio. " In primo luogo dobbiamo dimostrare che la fede è un dono di Dio ". Lo ha fatto, dice, tante altre volte, teme di non riuscire a farlo in modo più efficace, ma per rendere un servizio ai fratelli lo fa ancora, non senza aver notato però che questa volta l'oggetto della dimostrazione è più preciso: non si tratta solo della fede, ma dell'inizio stesso della fede. " Secondo i dissenzienti le testimonianze divine che abbiamo utilizzato su questo argomento servono a farci conoscere che la fede in sé e per sé dipende da noi stessi, ma il suo accrescimento lo riceviamo da Dio, come se la fede non ci fosse donata proprio da lui, ma Egli ce l'accrescesse semplicemente per questo merito: che l'inizio è partito da noi " 52. Perciò l'attenzione di Agostino si fissa sull'initium fidei, che è l'inizio della buona volontà di credere. Dice apertamente che con questa opinione, per quanto più sottile, " non ci si distacca da quella che Pelagio fu costretto a condannare nel sinodo episcopale di Palestina, e cioè che la grazia di Dio ci viene data secondo i nostri meriti " 53.
La seconda opera propone e dimostra quest'altra tesi riguardante il termine della vita cristiana: la perseveranza finale è un grande dono di Dio. Comincia infatti così: " E' giunto il momento di trattare con maggior cura della perseveranza, dato che già nel libro precedente, discutendo dell'inizio della fede, abbiamo introdotto il discorso su questo argomento. Dunque noi sosteniamo che la perseveranza con la quale si persevera in Cristo fino alla fine è un dono di Dio, e intendo parlare della fine che pone termine a questa vita, che è la sola nella quale esiste il pericolo di cadere " 54. Sostiene la tesi, fra l'altro, con la preghiera del Padre nostro, nella quale i fedeli, come spiega anche Cipriano, chiedono la perseveranza nel bene 55 e, in genere, con le preghiere della Chiesa la quale, come prega quotidianamente perché gli increduli credano, così prega affinché i fedeli perseverino 56.
Per il resto dimostra l'assurdità del ricorso ai futuribili per capire la sorte dei bambini che muoiono con o senza battesimo 57, spiega le parole della lettera 102 con il metodo di non dire più di quello che sia necessario 58, chiarisce quelle del De libero arbitrio cui pure quei monaci si attaccavano 59.
S'intrattiene poi a lungo a dimostrare che la predestinazione si può e si deve, quando sia necessario, predicare, come ha fatto l'Apostolo, purché si faccia nel modo giusto; altrimenti non bisognerebbe predicare neppure la prescienza divina perché qualcuno ne deduce la negazione della libertà nell'uomo 60; enuncia il principio della fiducia in Dio: tutiores vivimus si totum Deo damus 61; sostiene che la dottrina della predestinazione non esclude ma esige la preghiera, alimenta la speranza, induce all'azione: " dal vostro stesso tenore di vita, se è buono e retto, imparate che voi fate parte della predestinazione della grazia divina " 62; termina esortando alla preghiera: " non siano pronti a discutere e pigri a pregare " 63, e presentando Cristo come " il più luminoso esempio della predestinazione " 64.
Nonostante la profondità e la chiarezza dell'esposizione, la modestia con cui riconosce di aver sbagliato quando ha sbagliato e si dichiara sempre disposto ad essere corretto; nonostante il severo ammonimento che se può sbagliare lui, Agostino, possono sbagliare anche gli altri, i quali pertanto debbono pensare più e più volte se non abbiano sbagliato di fatto; nonostante, dico, queste prerogative i due libri del vescovo d'Ippona non ebbero l'effetto desiderato presso i destinatari, anzi offrirono il destro ad una campagna denigratoria a cui Agostino purtroppo non poteva più rispondere. Prima di vedere questa reazione, rileggiamo le ultime parole del Dono della perseveranza, che sono le ultime rivolte ai monaci provenzali. " Coloro che leggono queste pagine, se le comprendono, rendano grazie a Dio; quelli che non le comprendono, preghino affinché ad istruirli nell'intimo dell'animo loro sia Colui dal cui volto promana la scienza e l'intelletto. Coloro poi che pensano che io sbagli, meditino più e più volte con diligenza ciò che è stato detto, perché forse potrebbero essere loro a sbagliare. Io, da parte mia, quando grazie a coloro che leggono i miei lavori non solo m'istruisco ulteriormente, ma anche mi correggo, riconosco che Dio mi è benigno; e mi aspetto questo favore soprattutto dai Dottori della Chiesa, se quello che io scrivo giunge nelle loro mani e se essi si degnano di prenderne visione " 65.
Questa conclusione, stupenda e sincera, doveva contribuire a rasserenare gli animi e indurli alla riflessione. Invece no: la reazione fu dura e malevola. Vediamola.

8. Interpretazione di quei monaci

I libri di Agostino non sedarono dunque la tempesta. Lo sappiamo da Prospero che rispose alle accuse di quei monaci. A quanto sembra non ci fu in essi lo sforzo per capire l'impostazione che il vescovo d'Ippona dava al difficile problema della predestinazione, non la valutazione dei temi trattati - fede e perseveranza - e degli argomenti biblici addotti, non la considerazione del valore pastorale che era stato messo in luce, ma solo la volontà di partire alla controffensiva formulando una serie di accuse che, oggettivamente parlando, falsavano l'insegnamento agostiniano e lo rendevano odioso. Parlo di falsificazione e non soltanto di deformazione o di caricatura, perché non di queste ma di quella si tratta. Si tratta infatti di far dire ad un autore il contrario di quello che ha detto.
Siano di esempio i Capitula Gallorum ai quali risponde Prospero. Sono 15 proposizioni che l'ambiente monastico provenzale mise in giro come autentica dottrina agostiniana.
Ecco le più significative:
- gli uomini, spinti a peccare dalla predestinazione divina come da una fatale necessità, sono costretti ad andare verso la morte (c. 1);
- la grazia del battesimo non rimette il peccato originale a coloro che non sono stati predestinati (c. 2);
- coloro che non sono stati predestinati alla vita, anche se siano rigenerati in Cristo col battesimo e vivano con pietà e giustizia, non ne traggono nessun giovamento, ma vengono mantenuti (in questa vita) finché cadano e periscano (c. 3);
- Cristo non è morto per la redenzione di tutti gli uomini (c. 9);
- gli uomini sono spinti a peccare dalla potenza di Dio;
- la prescienza e la predestinazione in Dio sono la stessa cosa (c. 15) 66.
Queste proposizioni non sono state tratte dalle opere di Agostino, ma sono contrarie a quanto egli aveva esplicitamente e ripetutamente scritto. Si vedrà nelle pagine seguenti. A Prospero pertanto non riuscirà difficile difendere la memoria del suo maestro. Egli nota lo scopo infamante di queste proposizioni contro di lui e assicura che nel rispondere non si allontanerà in nulla dalla sua dottrina 67. Risponde infatti alle singole proposizioni con precisione e competenza non solo sulla linea del pensiero agostiniano, ma ripetendone anche, pur senza citarle ( e questo fu un male), le stesse parole.
Un altro esempio, più triste perché più cattivo, del modo di procedere di quei monaci è rappresentato dai capitula delle obiezioni vincenziane (per quanto sappiamo di lui e per il rispetto che abbiamo per lui pensiamo che non si tratti di Vincenzo di Lérins), che ripetono in sostanza quelle altre e le radicalizzano. Questa volta le proposizioni non sono 15 ma 16. Eccone qualcuna:
- Dio è autore dei nostri peccati, perché opera negli uomini la volontà cattiva e ne plasma la sostanza in modo che con il moto naturale non possa se non peccare (c. 5);
- gli adultèri, gl'incesti, gli omicidi avvengono perché Dio ha predestinato che avvenissero (cc. 10 - 11);
- i fedeli predestinati alla morte eterna quando dicono a Dio nella preghiera: sia fatta la tua volontà, non chiedono altro che la loro perdizione (c. 16).
Prospero non può fare a meno di parlare di prodigiosa mendacità 68. Tali erano infatti. Ma domandiamoci: come si è potuto giungere a tanto? Ignoranza? Cattiveria? L'una e l'altra insieme? Giudichi chi può e chi vuole. Noi ci limitiamo ai fatti.
Si può capire che quei monaci volessero accreditare la loro dottrina della salvezza o, come oggi si ama dire, la loro antropologia, molto diversa da quella del maestro d'Ippona, ma è comprensibile il metodo di ricorrere alla volgare calunnia? Prospero parla addirittura di " bestemmie ". E' vero altresì che partivano dal presupposto che Agostino avesse identificato prescienza e predestinazione, applicando, poi, questa, allo stesso modo, tanto al bene che al male. Ne tiravano perciò le conclusioni, anche se assurde, anzi appunto perché assurde; ma l'assurdità delle conclusioni non avrebbe dovuto avvertirli che il presupposto poteva essere falso? Infatti era falso.
Il vescovo d'Ippona non solo aveva affermato il contrario di quanto gli veniva attribuito nelle conclusioni, ma aveva respinto il presupposto da cui esse partivano. Aveva distinto apertamente tra prescienza e predestinazione, attribuendo la prima anche al male, la seconda solo al bene; aveva distinto con un'insistenza, che non poteva essere maggiore, tra salvezza e perdizione, ricordando che una suppone l'elezione misericordiosa di Dio, l'altra la permissione divina, misteriosa ma sempre giusta; aveva detto in tutte lettere che Dio non è l'autore dei nostri peccati, perché Dio permette, non fa il male, aveva insistito sul fatto che non si può sacrificare la libertà alla grazia, ma neppure la grazia alla libertà, perché Cristo è insieme salvatore e giudice; aveva lasciato supporre, per chi avesse voluto capirlo, che nel mistero della predestinazione (come in ogni mistero cristiano) non si può partire da una delle verità che lo compongono, quasi fosse la sola, e dedurre da essa, secondo la logica umana, che cosa pensare dell'altra. Se quelli che si salvano, si salvano per dono di Dio (e questa era la tesi fortemente difesa da Agostino), non si può concluderne: dunque quelli che si perdono si perdono per volere di Dio, che era la tesi che i monaci provenzali gli attribuivano, e che i predestinazionisti di tutti i tempi hanno fatto propria. Così pure, dal fatto che quelli che si perdono, si perdono per propria colpa, non si può concluderne che quelli che si salvano si salvano per proprio merito, sia pure per il merito della fede iniziale, che era appunto la tesi che quei monaci difendevano. Una maggiore attenzione alla difficoltà del problema - la difficillima quaestio di cui tanto spesso parlava Agostino - o, per essere più espliciti, un maggiore senso del mistero avrebbe risparmiato a quei monaci di commettere un'ingiustizia e alla teologia di avere tempi difficili: un secolo di discussioni prima che un chiarimento venisse apportato nel secondo Concilio di Orange ad opera soprattutto di Cesareo di Arles.
Prima di vedere, rapidamente, queste discussioni, vale la pena di notare che l'interpretazione calunniosa e schernitrice, che i monaci provenzali diedero della dottrina agostiniana sulla predestinazione, ebbe un'influenza deleteria: fece scuola. Con essa cominciava il " predestinazionismo ", una dottrina che interpreta la predestinazione in termini di bene e di male - predestinazione alla gloria e predestinazione al peccato e alla perdizione -, interpretazione che, rinata quasi di secolo in secolo nella storia della teologia occidentale, dura ancora. Dura, dico, attribuita al vescovo d'Ippona o confortata dall'autorità di lui, secondo il giudizio, contrario o favorevole, che su di essa pronuncia chi scrive.
La gravità di questa interpretazione, inaugurata dai provenzali attribuendola ad Agostino, sta nel fatto di credere e di far credere che tra essa e quella che quei monaci proponevano, fondata cioè sulla prescienza divina della fede e della perseveranza finale, non ci sia via di mezzo. Eppure questa via c'è: il vescovo d'Ippona l'ha indicata nei suoi scritti e la Chiesa cattolica, pur evitando d'entrare in sottili questioni, l'ha proposta ai suoi fedeli. Il dilemma: o predestinazionisti o semipelagiani, non esiste o, se esiste, è un falso dilemma. Le pagine di questa introduzione dedicate all'argomento vorrebbero essere una conferma di questa affermazione. Tra la prima tesi e la seconda c'è il veritatis medium della teologia agostiniana che indica la via da seguire, l'unica vera, anche se difficile: quella del senso del mistero che tiene ferme le due verità, anche se non riesce a comprenderne il nesso.
Altro inconveniente dell'impostazione del problema dato dai provenzali è quello di aver fissato la discussione sulla predestinazione, anziché, come aveva fatto Agostino, sulla grazia stessa. La questione che interessava e interessa prima di tutto è questa, non quella. Interessa sapere, cioè, in che cosa e fino a qual punto la grazia è necessaria alla salvezza e se essa sia o non sia un dono di Dio.

9. Interpretazione predestinaziana

Ne sono prova le lunghe discussioni che seguirono la morte di Agostino. Il tema preferito fu la predestinazione, l'interpretazione di moda il predestinazionismo. Su questa linea i provenzali lanciavano accuse contro il maestro d'Ippona. Il Papa Celestino e Prospero lo difesero, ma senza riuscire a riportare la calma. Non passarono molti decenni che il presbitero Lucido fece sua l'interpretazione predestinaziana e trasformò il biasimo in lode. Non fu difficile a Fausto di Riez convincerlo d'errore e indurlo a ritrattarsi 69. Ma il fatto era significativo. Esso non poteva non indurre gli avversari del defunto maestro ad insistere nella loro dottrina e a confermarsi nelle loro accuse.
Forse non sarà inutile ricordare più in particolare alcune di queste accuse e confrontarle a distanza ravvicinata con l'insegnamento del vescovo d'Ippona riportando le sue stesse parole. E' vero che le pagine seguenti, esponendo quest'insegnamento fanno giustizia di quelle accuse; ma penso che qualche lettore, più o meno frettoloso, voglia aver subito un prospetto e rendersi conto senza occupare troppo del suo tempo, della situazione creatasi dopo che il vecchio maestro aveva cessato per sempre di scrivere. Ecco dunque uno specimen.
1) Prescienza e predestinazione, che era l'ultimo dei capitula Gallorum e fondamento di tutti i precedenti. Dicevano: per il vescovo d'Ippona " è la stessa cosa prescienza e predestinazione " (n. 15).
Aveva scritto Agostino: " la prescienza di Dio... preconosce i peccatori, non fa che siano peccatori " 70. E nell'opera diretta a quei monaci: " La predestinazione non può esistere senza la prescienza, invece la prescienza può esistere senza la predestinazione. Per la predestinazione Dio seppe in precedenza le cose che Egli avrebbe fatto; e perciò è detto: Fece le cose che saranno. Ma Egli ha potere di sapere in precedenza anche quelle cose che non compie egli stesso, come ogni sorta di peccato " 71.
2) Dio e il peccato. Dicevano: per il vescovo d'Ippona " Dio con la sua potenza induce l'uomo al peccato ".

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:36
Aveva scritto Agostino: " ...iniquitatem, quam rectissime veritas improbat, damnare novit ipse, non facere " 72. Dio può condannare l'iniquità, non commetterla. E nelle Confessioni il principio generale tante volte ripetuto altrove: Dio è " ordinatore e creatore di tutte le cose che esistono nella natura, ma dei peccati ordinatore soltanto " 73. E altrove ancora il principio della permissione del peccato: " Ha giudicato meglio trarre il bene dal male che non permettere che non ci fosse il male: melius iudicavit de malis bene facere, quam mala nulla esse permittere " 74.
3) La morte di Cristo. Dicevano: " Il Salvatore non è stato crocifisso per la salute di tutto il mondo " (n. 9).
Agostino aveva ripetuto tante volte con S. Paolo: Se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti (2 Cor 5,14), deducendo l'universalità del peccato originale dall'universalità della redenzione. E altrove: " Per mezzo del Mediatore è stata riconciliata a Dio la massa di tutto il genere umano alienata (da Lui) per mezzo di Adamo " 75. E altrove ancora: " Giudicherà tutto il mondo perché per tutto il mondo ha dato il prezzo (del suo sangue) " 76.
4) Abbandono di Dio. Dicevano (pensando sempre d'interpretare il pensiero del vescovo d'Ippona): " Dio non dà ad alcuni la perseveranza perché nella sua prescienza e predestinazione non li ha segregati dalla massa di perdizione " (n. 7).
Aveva scritto Agostino: Deus non deserit nisi deseratur 77, e non lo aveva scritto una volta sola, ma tante e tante volte come una costante del suo pensiero. Proprio in quelle opere nelle quali è tutto proteso a spiegare la gratuità della grazia, in quella, più precisamente, che aveva suscitato le ire di quei monaci, scrive di Adamo: deseruit et desertus est, e di tutti gli uomini: deserunt et deseruntur 78. Fece bene Prospero a ricordare questo luminoso principio agostiniano, ma ebbe il torto di non citare la fonte inducendo così alcuni, anche tra i moderni, a pensare che fosse suo e non del maestro.
Come specimen d'interpretazione falsificante e di fraintendimento radicale credo che possa bastare. Per uscire dal vicolo cieco occorreva spostare la discussione dalla predestinazione alla grazia, leggere più attentamente Agostino e capire un po' meglio l'utrumque- libertà e grazia - su cui tanto egli insiste. Fu questo appunto il compito provvidenziale del secondo Concilio di Orange ad opera soprattutto di S. Cesareo.

10. Cesareo d'Arles e il secondo Concilio d'Orange

Non narrerò qui la storia di questo Concilio. Non è questo il luogo e, del resto, non ce n'è bisogno. Basta illustrare alcune idee maestre. Di fronte al persistente atteggiamento dei provenzali, alcuni vescovi compresi - conosceva bene la situazione per essere vissuto a Lérins -, il vescovo di Arles, Cesareo, chiese ed ottenne da Roma alcune proposizioni o capitula sulla grazia, le fece discutere ed approvare dal Concilio e ne chiese la conferma al Papa, che la diede poco dopo 79.
Il primo accorgimento fu quello di mettere da parte il tema, e il problema, della predestinazione; il secondo quello d'insistere sulla dottrina della grazia esposta dal vescovo d'Ippona nelle due opere tanto incriminate: La predestinazione dei santi e il Dono della perseveranza, particolarmente sulla necessità della grazia per l'inizio della fede, che era il punto più delicato e decisivo della controversia.
Per cominciare da questo secondo punto bisogna dire che, dopo i due canoni sul peccato originale ripresi sostanzialmente, poi, dal Concilio Tridentino 80, ne seguono altri sei, che riassumono la dottrina agostiniana della grazia preveniente. Inoltre viene riportata una lunga serie di " sentenze " (9 - 25), tratte dalle opere del vescovo d'Ippona ad opera di Prospero, che confermano ed ampliano la dottrina esposta nei canoni propriamente detti.
Sull'invocazione di Dio che non precede la grazia, ma è essa stessa frutto della grazia (c. 3) e l'altro sulla purificazione dei peccati per la quale Dio non aspetta la nostra volontà, ma con l'azione dello Spirito Santo ci dona di volere essere liberati (c. 4), ne segue un altro che è come la Predestinazione dei santi di cui riprende la tesi e le argomentazioni bibliche.
Dice infatti: " Se qualcuno afferma che come l'aumento così l'inizio della fede ipsumque credulitatis affectum con il quale crediamo in Dio e raggiungiamo la rigenerazione del sacro battesimo, non è un dono della grazia, cioè l'ispirazione dello Spirito Santo che guida la nostra volontà dall'infedeltà alla fede, dall'empietà alla pietà, ma che naturalmente è insito in noi, si dimostra contrario agli insegnamenti apostolici... " (c. 5). Seguono i testi biblici, alcuni di quelli che il vescovo d'Ippona aveva abbondantemente spiegato.
Segue un canone dove ricorre il testo paolino tanto caro al dottore della grazia: quid habes quod non accepisti? [1 Cor 4,7] (c. 6) e poi uno di indole generale: " Se qualcuno afferma che l'uomo può pensare, come si conviene, alcunché di bene che appartenga alla vita eterna o eleggerlo o consentire alla salvezza, cioè alla predicazione del Vangelo, con il vigore della natura senza l'illuminazione e l'ispirazione dello Spirito Santo che dà a tutti la soavità nel consentire e credere alla verità, è ingannato da sentimento eretico... " (c. 7).
A questo punto è inutile dire che con i canoni del secondo Concilio di Orange e la conseguente approvazione del Papa, la dottrina agostiniana sulla grazia che previene la volontà umana nell'opera della salvezza, compreso l'inizio della fede, veniva riconosciuta conforme alla Sacra Scrittura e all'insegnamento della Chiesa, mentre ne risultava difforme quanto avevano sostenuto i monaci provenzali e sostenevano ancora alcuni vescovi. Dice Bonifacio II rispondendo a Cesareo e confermando gli Atti del Concilio: " Alcuni vescovi delle Gallie, pur accettando che i doni (della salvezza) ci provengano dalla grazia di Dio, sostengono però che la fede, soltanto la fede, con la quale crediamo in Cristo, provenga dalla natura, non dalla grazia " 81. Come si vede, si tratta della grazia per l'inizio della fede e per operare il bene - è Dio che comincia l'opera della salvezza ed è Dio che la porta a compimento -, non del mistero della predestinazione. Sulla predestinazione Cesareo, tirando la conclusione dalle deliberazioni del Concilio, si limita a dire: " Che alcuni siano predestinati al male per divino potere, non solo non lo crediamo, ma anche se ci sono alcuni che vogliono credere a tanto male, con somma detestazione lanciamo loro l'anatema " 82. Molto bene, e per due ragioni: perché ha tolto il problema dalla posizione dominante che gli avevano dato i monaci provenzali, posizione che avrà molte volte, purtroppo, in seguito e perché ha ricordato la grande verità che dobbiamo fermamente credere, verità che Agostino aveva richiamato tante volte: Dio non induce nessuno al male; in Dio non c'è iniquità; Dio perché giusto non può condannare nessuno senza propria colpa; la giustizia divina non può essere crudele.
Più tardi, quando il monaco Gottschalk cedette alla tentazione di riproporre la duplice predestinazione, alla perdizione e alla salvezza, il Concilio di Quierzy (Carisiacum), partendo dal principio che coloro che si perdono Dio perituros praescivit, sed non ut perirent praedestinavit, proclama: Quod quidam salvantur, salvantis est donum; quod autem quidam pereunt, pereuntium est meritum 83. Non si poteva dir meglio: questa è la sintesi dell'insegnamento agostiniano intorno al mistero della predestinazione, insegnamento che i teologi cattolici non hanno mai dimenticato. Questo fu ed è l'agostinismo autentico.

11. L'agostinismo " rigido "

Non esiste dunque un agostinismo rigido e un altro, quello accettabile, mitigato, ma solo un agostinismo autentico. Da qualche tempo parlare di " agostinismo rigido " è diventato un luogo comune, ma è un errore; un grosso errore. Quello che altri chiama " agostinismo rigido " non è che pseudoagostinismo, e bisognerebbe chiamarlo col suo nome. Purtroppo l'espressione " agostinismo rigido " è passata nelle ultime edizioni di un manuale di larga consultazione, l'Enchiridion Symbolorum.
Sulle dispute intorno alla predestinazione nel Concilio Valentino, a proposito della " doppia predestinazione ", che alcuni difendevano al seguito di Gottschalk, si aggiunge che essa veniva difesa in sensu rigidi Augustinismi 84. No. La doppia predestinazione non sta negli scritti di Agostino, ma nelle calunnie dei provenzali. Si tratta chiaramente di pseudoagostinismo, di cui non è responsabile il vescovo d'Ippona, ma sono responsabili i suoi interessati interpreti. Molto più tardi, introducendo le proposizioni condannate di Baio, si dice che egli aderiva al rigido agostinismo: rigido Augustinismo addictus 85. No, Baio aderiva a un falso agostinismo di suo conio, a un agostinismo " fuorviato ", come ha scritto un eminente studioso 86.
Sarebbe troppo chiedere che nelle prossime edizioni di quel prezioso manuale l'accenno al rigido agostinismo venga fatto cadere? E altrettanto facciano quegli autori i quali cedono spesso alla tentazione di fare la distinzione, infondata e deviante, tra agostinismo rigido e agostinismo moderato, quando è fuori dubbio che non esiste se non un solo agostinismo, quello autentico? La storia della teologia cattolica, se non propriamente la teologia stessa, ne avrebbe molto da guadagnare. Le ragioni di questa richiesta vengono esposte nelle pagine seguenti.
La conclusione da tirarne subito è questa: gli alti elogi che i Pontefici Romani hanno fatto del vescovo d'Ippona, a cominciare da Celestinno I che lo annovera inter magistros optimos 87, a Ormisda, il quale scrive che " nel libero arbitrio e la grazia ciò che segue e custodisce la Chiesa Romana, cioè la Chiesa cattolica, benché si può trovare nei vari libri del beato Agostino soprattutto in quelli diretti a Ilario e Prospero... " 88, a Bonifacio II 89 e a tanti altri fino ai nostri giorni, da Leone XIII a Giovanni Paolo II, vanno presi come sono, senza riserva indebita, perché si riferiscono all'agostinismo autentico. Se qualcuno ha avuto l'audacia di mettere l'autorità di Agostino sopra quella della Chiesa cattolica, proprio in questo ha mostrato di non essere agostiniano. Com'è capitato ai giansenisti. Se altri, poi, hanno preso solo un aspetto dell'agostinismo e lo hanno assolutizzato o, peggio ancora, l'hanno interpretato in modo predestinaziano, come hanno fatto molti, la colpa non è dell'autore studiato, ma di chi lo ha studiato. Perciò le parole di commento all'elogio di Celestino I, nel quale si dice che " la storia insegna abbondantemente che l'autorità di Agostino qui e altrove raccomandata [dai sommi Pontefici] non dev'essere seguita se non con discrezione " 90, non hanno per fondamento se non un'errata precomprensione. In verità la storia insegna tante cose, ma soprattutto una: quanto sia facile tradire il pensiero d'un autore famoso quando non lo si legga tutto o si cerchi presso di lui non il suo ma il proprio pensiero.
In quanto alla " discrezione " che viene suggerita 91 per interpretare la proposizione o canone 22 del secondo Concilio di Orange - le parole sono prese dal Commento a S. Giovanni 92 - c'è da osservare che il richiamo alle proposizioni condannate di Baio e dei giansenisti non ha ragione di essere, perché si tratta di cose diverse, e che, se le parole agostiniane sono state " la croce dei teologi ", questo è dipeso dal fatto che, nel forte della polemica - dentro la quale si muove ancora il suggerimento dell'annotatore, come appare dal richiamo alle proposizioni condannate che non c'entrano -, le hanno interpretate in senso morale e non, come devono essere intese, in senso metafisico. Secondo questo senso è verissimo che tutto ciò che l'uomo ha di buono e di vero gli viene, per partecipazione, dalla fonte della bontà e della verità. Di suo non ha che l'essere creato dal nulla, e di conseguenza tutte le negatività proprie dell'essere dal nulla: la limitazione, la mutabilità, la defettibilità. Ma di questo parlerò altrove 93. Qui voglio notare soltanto che si sono dette troppe cose inesatte, si è perduto troppo tempo, si è troppo confuso il panorama teologico per non aver studiato a fondo il pensiero di S. Agostino.
Nutro speranza che le pagine che seguono possano contribuire a togliere dall'agostinismo ingiustificati sospetti e restituirlo, a beneficio della storia e della teologia, alla sua autenticità. Sostenuto da questa speranza intendo esporre la dottrina agostiniana della libertà e della grazia.

1 - Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, p. VII.

2 - Serm. 50, 13.

3 - De perf. iust. hom. 17, 38. Celestio a proposito dell' impeccantia di cui era acerrimo difensore, ravvicinava testi biblici di tenore diverso dimenticando di accordarli tra loro, che è un compito essenziale dell'esegeta-teologo: quarum [Scripturarum] concordiam, afferma Ag., nos debemus ostendere.

4 - Ep. 82, 3 [a Girolamo].

5 - Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, parte 3, sez. I, c. 2: Teologia della concupiscenza; Introd. gen. a Matrimonio e verginità, NBA VII/1, parte 1, c. 4, p. LIII, nota 29.

 

1 - Cf. le lettere ai vescovi africani: Magnum Pondus e Postquam nobis (Mansi, IV, 350 e 353).

2 - Ep. 194, 1, 2.

3 - Ep. 131.

4 - Ep. 194, 1, 2.

5 - De sp. et lit. 30, 52.

6 - Ep. 194, 2, 3.

7 - Ep. 194, 2, 5.

8 - Ep. 214, 6.

9 - Questa ragione viene ripetuta anche altrove: cf. De Civ. Dei 16, 2, 1.

10 - Evodio è l'interlocutore dei dialoghi su La grandezza dell'anima e su Il libero arbitrioio, e il destinatario delle Lettere 159; 162; 164; 169. Tra le agostiniane sono pubblicate quattro lettere di Evodio: 158; 160; 161; 163.

11 - La risposta di Evodio, che ripete brevemente i termini del mistero della giustizia e della misericordia divina ed esorta alla fede, fu pubblicata da G. Morin (Rev. Bén. 18 [1901], pp. 241-256).

12 - Ep. 214, 1; 215, 2.

13 - Ep. 214, 1.

14 - Retract. 2, 66.

15 - De gestis Pel. 14, 30.

16 - Ep. 214, 6.

17 - Ep. 214, 4.

18 - Ep. 214, 2.

19 - Ep. 215, 1.

20 - Ep. 215, 4.

21 - Ep. 215, 6-8.

22 - Ep. 214, 5: "Numerosi erano i documenti che desideravo inviarvi...ma poiché i vostri fratelli venuti da me hanno fretta...".

23 - Ep. 215, 2. Erano "le due lettere inviate ad Innocenzo, vescovo di Roma, l'una dal Concilio della provincia di Cartagine e l'altra dal Concilio della Numidia, quella alquanto piú particolareggiata inviatagli da cinque vescovi e la risposta del Papa stesso a queste tre lettere; inoltre la lettera scritta da un Concilio dell'Africa a papa Zosimo e la risposta inviata da questi a tutti i vescovi del mondo, infine i decreti contro l'errore suddetto da noi formulati concisamente in un successivo Concilio plenario di tutta l'Africa". "Tutti questi documenti li abbiamo letti alla presenza dei vostri fratelli e per mezzo di essi ve li inviamo".

24 - Ep. 215, 8.

25 - Ep. 216, 4.

26 - De gr. et lib. arb. 14, 29 - 16, 32.

27 - Retract. 2, 67.

28 - Ep. 215/A.

29 - De corrept. et gr. 2, 4.

30 - De corrept. et gr. 3, 5.

31 - De corrept. Et gr. 4, 6.

32 - De corrept. et gr. 3, 5.

33 - De corrept. et gr. 4, 6.

34 - De corrept. et gr. 5, 7.

35 - De corrept. et gr. 6, 10.

36 - De corrept. et gr. 17, 34.

37 - De corrept. et gr. 12, 33.

38 - De corrept. et gr. 11, 3l.

39 - De corrept. et gr. 13, 42.

40 - De corrept. et gr. 8, 17.

41 - De corrept. et gr. 10, 27.

42 - Epp. 225-226 [tra le agostiniane).

43 - Ep. 225, 2.

44 - Ep. 225, 3.

45 - Ep. 226, 2.

46 - Ep. 226, 6.

47 - Ep. 226, 8.

48 - Ep. 225, 3.

49 - Ibidem.

50 - Ep. 225, 5.

51 - Ep. 226, 2.

52 - De praed. sanct. 2, 3.

53 - Ibidem.

54 - De dono pers. 1, 1.

55 - De dono pers. 2, 4-5, 9.

56 - De dono pers. 7, 15.

57 - De dono pers. 9, 22; 12, 3l.

58 - De dono pers. 9, 23.

59 - De dono pers. 11, 26-12, 30.

60 - De dono pers. 15, 38.

61 - De dono pers. 6, 12.

62 - De dono pers. 22, 59.

63 - De dono pers. 24, 66.

64 - De dono pers. 24, 67.

65 - De dono pers. 24, 68.

66 - Responsiones ad capitula calumniantium Gallorum: PL 51, 155-174; PL 45, 1833-1844.

67 - Ibidem, Praefatio.

68 - Responsiones ad capitula obiectionum Vincentiarum, Praefatio: PL 51, 177; 45, 1843.

69 - DS 330-340; cf. FAUSTO di Riez, Ep. 2: CSEL 21, 165-168.

70 - De an. et eius or. 1, 7, 7.

71 - De praed. sanct. 10, 19.

72 - Ep. 194, 6, 30.

73 - Confess. 1, 10, 16.

74 - Enchir. 8, 26; cf. De civ. Dei 22, 1, 2.

75 - Serm. 293, 8.

76 - En. in ps. 95, 15.

77 - De nat. et gr. 26, 29.

78 - De corrept. et gr. 11, 31; 13, 42.

79 - Ep. "Per filium nostrum": PL 65, 31 s.; 45, 1790; DS 398-400.

80 - DS 1511-1512.

81 - DS 398.

82 - DS 371-397.

83 - DS 621-623.

84 - Cf. Intr. storica al Concilio Val., DS, p. 208.

85 - Cf. Intr. storica alla condanna di Baio, DS, p. 427.

86 - DE LUBAC H., Augustinisme et théologie moderne, Aubier 1965.

87 - Ep. "Apostolici verba": PL 50, 503 A; 45, 1756; DS 237.

88 - Ep. "Sicut rationi" ad Possessorem: PL 63, 493 A; CSEL 35, 700; DS 366.

89 - Ep. "Per filium nostrum": DS 399.

90 - Enchir. Symbol., p. 87.

91 - Enchir. Symbol., p. 135.

92 - DS 392; In Io. ev. tr. 5, 1: Nemo habet de suo, nisi mendacium et peccatum.

93 - Vedi sotto c. 9.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:37

PARTE PRIMA

AGOSTINO FILOSOFO E TEOLOGO DELLA LIBERTA'

Non dispiaccia questo titolo. E' così. Lo vedremo subito. Agostino difese la libertà contro i manichei, contro i fatalisti, nonostante la prescienza divina (contro Cicerone che la negava per salvare la libertà). La difese con le armi della ragione e con quelle della fede, la libertà di scelta e la libertà cristiana (o dal male); sostenne che la libertà non consiste nel posse peccare e lesse la storia umana in chiave di libertà, dall'inizio della creazione al termine escatologico della beatitudine. Ma cominciò male. Cominciò coll'aderire ai manichei, i quali, negando la responsabilità personale dell'uomo nel peccato, negavano la libertà 1. Vediamo anzitutto questo punto di partenza.

CAPITOLO PRIMO

DIFESA DELLA LIBERTÀ CONTRO I MANICHEI

Si sa che la soluzione manichea del problema del male era fondata sulla teoria metafisica dei due princìpi coeterni e contrari. Il dualismo metafisico diventava necessariamente dualismo antropologico.

1. Antropologia manichea

Due i princìpi metafisici, due le anime nell'uomo, una buona e una cattiva, in perpetuo conflitto fra loro. La vittoria dell'una o dell'altra è la vittoria del principio del bene o del principio del male operanti nell'uomo. In questa visione antropologica non poteva esserci posto, e non c'era di fatto, per la responsabilità personale, cioè per la libertà.
Ecco come Agostino riassume questa dottrina recensendo il De duabus animabus: ammettono due anime, " delle quali dicono che una è parte di Dio, l'altra è parte della gente delle tenebre, non creata da Dio e a Dio coeterna. Le due anime, una buona e l'altra cattiva, così asseriscono, appartengono insieme allo stesso uomo: quella cattiva è propria della carne la quale proviene dalla gente delle tenebre; quella buona invece dalla parte avventizia di Dio che ha ingaggiato la lotta contro la gente delle tenebre. Così le due anime si sono mescolate insieme. Di conseguenza tutto il bene che l'uomo compie l'attribuiscono all'anima buona, tutto il male all'anima cattiva " 2.
Nel De haeresibus dopo qualche anno conferma: " L'origine dei peccati non l'attribuiscono al libero arbitrio della volontà ma alla sostanza della gente avversa... La concupiscenza carnale per cui la carne ha desideri contrari allo spirito ( Gal 5,17) non ammettono che sia un'infermità derivante in noi dalla natura viziata nel primo uomo, ma che sia una sostanza contraria che aderisce a noi in modo che quando ne siamo liberati e purificati, venga separata da noi e viva nella sua natura anch'essa immortale. Asseriscono, poi, che queste due anime o due menti, una buona e l'altra cattiva, vengono in conflitto tra loro nell'unico uomo... " 3.
Nel De duabus animabus contra manichaeos concludendo esprime la convinzione che l'opposizione tra l'anima buona e l'anima cattiva rappresenti il nucleo centrale del manicheismo, quello da cui dipende il suo essere, o il buon essere. " Smettano ormai di sostenere e d'insegnare quei due generi di anime, l'uno da cui non procede nulla di male, l'altro da cui non procede nulla di bene ". Il determinismo psicologico non poteva essere espresso più efficacemente: da una solo il bene, dall'altra solo il male. E continua: " Se lo faranno, cesseranno certamente di essere manichei, poiché tutta quella sètta si basa su questa bicipite o piuttosto precipite distinzione di anime " 4.
Si può aggiungere un testo significativo tratto da un discorso al popolo, dove parlando degli eletti manichei dice: " Ma chi sono questi eletti? Sono gente che, se le vai a dire che ha peccato, subito la senti pronunziare, a sua discolpa, parole empie, peggiori e più sacrileghe di quelle che usano gli altri. Dicono: Non ho peccato io, ha peccato il popolo delle tenebre. Ma chi è questo popolo delle tenebre? Un popolo che fece guerra a Dio. E allora? Quando tu pecchi, pecca questo popolo? Certamente, rispondono, e ciò in quanto io sono mescolato con esso " 5.
Non c'è bisogno di esporre più a lungo la dottrina manichea. Basta quanto si è detto per capire l'atteggiamento, che qui interessa, di Agostino, il quale prima accettò e poi, faticosamente, si liberò da un determinismo tanto insidioso; insidioso perché comodo anche se, insieme, distruttivo; comodo per il fatto che liberava l'uomo dalla responsabilità del peccato; distruttivo, per il fatto che, privandolo della parte più profonda e più nobile di sé, la libertà - " lo maggior don che Dio fesse creando " (Dante) -, lo riduceva ad un automa, ad un campo di battaglie non sue, ma che si combattevano in lui.

2. Agostino accetta l'antropologia manichea

Può sembrare strano, ma è così: Agostino accettò questa dottrina. Ecco le sue parole: " Ero tuttora del parere che non siamo noi a peccare, ma un'altra, chissà poi quale natura pecca in noi. Lusingava la mia superbia l'essere estraneo alla colpa, il non dovermi confessare autore dei miei peccati affinché tu guarissi la mia anima rea di peccato contro di te. Preferivo scusarla accusando un'entità ignota, posta in me stesso senza essere me stesso " 6.
" Ero tuttora del parere... ". Questa dottrina l'aveva accettata sin dall'inizio. L'angosciosa domanda: unde malum? su cui i manichei intessevano il loro insegnamento e la loro propaganda, che l'aveva tormentato molto nella sua adolescenza e che lo gettò, stanco di cercare, nelle loro braccia 7, riguardava non solo il male che l'uomo soffre, ma anche - e forse principalmente - il male che l'uomo fa. Per liberarlo dalla consapevolezza di questo male, la risposta manichea era seducente. Se anche non credeva che fosse vera, Agostino volle che lo fosse. " Finii per approvare qualsiasi cosa dicessero, non perché capissi che era vero, ma perché desideravo che lo fosse " 8. Accettarla fu facile, difficile il liberarsene.

3. Si libera dall'antropologia manichea

Faticosamente, ma se ne libera. Come? Attraverso una constatazione interiore, l'esperienza personale. Egli avverte, prima timidamente e poi con fermezza, che quando vuole o non vuole è lui a volere, non un altro. " Una cosa mi sollevava verso la tua luce: la consapevolezza di possedere una volontà non meno di una vita. In ogni atto di consenso o rifiuto ero certissimo di essere io, non un altro, a consentire o rifiutare; e qui era la causa del mio peccato, lo vedevo sempre meglio " 9.
Siamo agli inizi d'una salutare constatazione. Presto diventerà certezza. Quando, poco dopo, lotterà con se stesso per prendere una difficile decisione (quella di abbandonare ogni speranza terrena, anche la speranza di formarsi una famiglia), e sente in sé un terribile conflitto tra la volontà nuova che vuol sovrastare la volontà vecchia ma non riesce perché non lo vuole completamente, scrive: " Io, mentre stavo deliberando per entrare finalmente al servizio del Signore Dio mio, come da tempo avevo progettato di fare, ero io a volere, io a non volere, ero io e io. Né pienamente volevo, né pienamente non volevo. Da questo fatto nasceva la lotta con me stesso, la scissione di me stesso, scissione che, se avveniva contro la mia volontà, non dimostrava però l'esistenza di un'anima estranea, bensì il castigo della mia " 10. La lotta tra la carne e lo spirito ( Gal 5,17) non ha una causa ontologica come volevano i manichei - presenza di due anime o due nature nell'uomo -, ma una causa teologica (peccato originale) e una psicologica (tendenza al male e volontà di bene). Agostino lo ridirà mille volte durante la controversia pelagiana 11.
Dopo questa dura esperienza personale si comprende perché egli, parlando al suo popolo, insista tanto sulla responsabilità personale nei confronti del peccato. Chi pecca non deve cercare scuse, ma deve dire soltanto: " Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato... io, io, non il fato, non la fortuna, non il diavolo... " 12. E altrove quasi con le stesse parole: " Il peccatore che si converte a Dio e vuol lodarlo dice: Ho peccato io, non la sorte, non il fato, non il popolo delle tenebre " 13.

4. Combatte l'antropologia manichea

L'azione che Agostino intraprese per chiarire ai manichei, suoi antichi correligionari, le nuove convinzioni che aveva acquisito cominciò molto presto e non durò poco. Cominciò qui a Roma, continuò a Tagaste, terminò ad Ippona verso il 400. Per l'argomento che qui ci riguarda le opere principali sono: il De libero arbitrio e il De duabus animabus contra manichaeos.
1) Il libero arbitrio. Nella prima, cominciata qui a Roma e terminata 14 a Ippona, la tesi di fondo è questa: il male deriva dal libero arbitrio. Si tratta del male che l'uomo fa, non di quello che subisce 15. Anche questo deriva dal libero arbitrio, ma da quello del primo uomo. Il discorso diverrebbe più lungo. Agostino lo farà contro i pelagiani 16. Qui ha in vista il male che l'uomo fa peccando, una questione che lo turbava già prima che incontrasse i manichei 17. Questo dipende dal libero arbitrio, non da una natura contraria, presente nell'uomo. Ragione: altrimenti Dio non potrebbe giudicarlo giustamente. " Le azioni malvagie sono punite dalla giustizia di Dio. Ma non sarebbero punite giustamente se non fossero compiute con un atto di libera volontà " 18, cioè liberamente. Si noti questa ragione: essa tornerà fino al termine della sua vita in tutta la controversia sulla grazia 19. Posta questa ragione, l'opera è tutta intenta a definire la natura della libertà e la natura del peccato, che restano tali nonostante la prescienza di Dio e le passioni dell'uomo.
La libertà è nella volontà come un " cardine " che le permette di volgersi da una parte o dall'altra. Infatti " se il movimento con cui la volontà si volge qua e là non fosse volontario e posto in nostro potere, non si dovrebbe approvare l'uomo quando torce verso l'alto il perno, per così dire, del volere e non si dovrebbe rimproverare, quando lo torce verso il basso " 20.
Nel testo citato c'è un'equazione che va messa in rilievo: se l'atto non fosse volontario e se non fosse in nostra positus potestate. Questo vuol dire che l'atto volontario o libero e atto in nostro potere dicono la stessa cosa. Ora un atto è in nostro potere quando lo poniamo se lo vogliamo, non lo poniamo se non lo vogliamo. Non è in nostro potere nisi quod cum volumus facimus 21. Concetto questo che Agostino ripete in un'importante opera della controversia pelagiana, il De spiritu et littera: " Si dice che ciascuno ha in potere ciò che fa se vuole e non fa se non vuole " 22.
La libertà dunque suppone il dominio dei propri atti, suppone la scelta, la decisione, l'autodeterminazione. Anzi volontà e libertà coincidono. Infatti " nulla è tanto in nostro potere quanto la stessa volontà " 23. " Perciò la nostra volontà non sarebbe volontà se non fosse in nostro potere. Effettivamente perché è in nostro potere, è per noi libera " 24.
Conforme alla nozione della libertà è la nozione del peccato. Non è peccato fare ciò che non si può evitare. Ecco il ragionamento agostiniano: " Non si può ragionevolmente imputare un peccato, se non a chi pecca. Quindi ragionevolmente si imputa soltanto a chi vuole " 25. " Qualunque sia la causa della volontà, se non è possibile resisterle, si cede ad essa senza peccato; se è possibile, non le si ceda e non si peccherà. Ma forse può ingannare un incauto? Dunque si guardi per non essere ingannato. Ma ha tanto potere d'ingannare che proprio non è possibile guardarsene? Se è così, non si danno peccati. Non si pecca in condizioni che è assolutamente impossibile evitare " 26.
Di questi testi si serviranno i pelagiani contro lo stesso Agostino, ma questi risponde e spiega. Qui si tratta del peccato personale, non di quello originale che è insieme peccato e pena del peccato, né, difendendo la libertà, si nega la necessità della grazia 27.
2) Le due anime contro i manichei. L'opera fu scritta, ad Ippona, da Agostino appena sacerdote. Prende in esame, direttamente, la tesi manichea delle due anime. Vi ritroviamo la stessa ragione per la difesa della libertà: il giudizio divino che condannerebbe ingiustamente chi non ha peccato. " Tutti ammettono che le anime cattive vengono condannate giustamente, mentre verrebbero condannate ingiustamente quelle che non hanno peccato " 28. Vi troviamo altresì la stessa nozione della libertà e del peccato.
Ecco la prima: " La volontà è un movimento dell'animo, esente da ogni costrizione, per non perdere o per acquistare qualcosa " 29. Esente da ogni costrizione: è il punto essenziale. Non si può insieme volere e non volere; perciò dove c'è la costrizione non c'è il volere ma il non volere, che è il suo opposto. Volere per costrizione o volere invitus è un non senso, un volere senza volere. Mentre " chiunque agisce volontariamente, agisce senza costrizione, e chiunque è esente da costrizione o agisce volontariamente o non agisce affatto " 30.
Ecco la seconda: " Il peccato è la volontà di ritenere e di conseguire ciò che la giustizia vieta e da cui ci si può liberamente astenere. Benché se non c'è la libertà, non c'è la volontà " 31. Per confermare questa sua definizione si appella al consenso del genere umano. Continua infatti: " Non è questo forse che cantano i pastori sui monti, i poeti nei teatri, gli indotti nei circoli, i dotti nelle biblioteche, i vescovi nei luoghi sacri, il genere umano nell'orbe terrestre? " 32.
Si noti di nuovo l'identificazione tra libertà e volontarietà. Nella definizione riportata Agostino ha voluto inserire il primo termine invece del secondo per offrire un'idea più facile perché meno sottile: malui grossius quam scrupolosius definire 33. Ma questa identificazione pone qualche problema di cui parlerò in seguito 34. Per ora basti ricordare che la nozione della libertà, legata essenzialmente a quella di responsabilità e perciò di giustizia, Agostino la difenderà non solo contro i manichei, ma anche nel bel mezzo della controversia pelagiana. Questa volta con argomenti non più filosofici ma teologici. Lo vedremo. Intanto è utile e importante vedere come l'abbia difesa contro il fatalismo, tanto diffuso negli ambienti culturali del tempo, e non solo allora.

CAPITOLO SECONDO

DIFESA DELLA LIBERTA' CONTRO IL FATALISMO

Il fatalismo è un'altra forma di negazione della libertà, diversa da quella dei manichei ma non meno grave; anzi, occorre dire, più grave, perché, se quella toglieva la responsabilità al singolo per attribuirla al principio cattivo, questa la toglieva all'universo per sottomettere la totalità dei fatti a una causa inflessibile che tutto determina: l'uomo, il cosmo, gli dèi. Una dottrina ampia e complessa che occupava lo spazio che nell'insegnamento cristiano è occupato dalla Provvidenza.
I trattati De fato sono numerosi nella letteratura greco - romana e non c'è bisogno di ricordarli qui 1. Tra essi quello di Cicerone, più vicino ad Agostino. Questi non poteva non intervenire, e intervenne; non solo per una ragione teorica - egli aveva fatto della Provvidenza, in cui sempre credette 2, il punto focale del suo pensiero -, ma anche per una ragione personale: in gioventù era stato vittima d'una forma di fatalismo, quello astrologico, cui aderì e da cui si liberò. Vediamo dunque per primo questo aspetto.

1. Fatalismo astrologico

Un particolare non molto conosciuto dell'animo del giovane Agostino è la sua fiducia nelle previsioni degli astrologhi o, com'egli dice, dei " matematici ". Questi, studiando gli influssi stellari sul mondo e sull'uomo, predicevano il futuro e negavano di fatto la libertà umana, in particolare la responsabilità nel peccato. " Dicevano: Dal cielo ti viene la causa inevitabile del peccato, e: E' opera di Venere, oppure di Saturno, oppure di Marte; evidentemente per rendere l'uomo senza colpa " 3. La loro dottrina, così spiega Agostino al popolo, altro non è che una difesa del peccato. " Sarai adultero, perché tale hai Venere, sarai omicida perché tale hai Marte. Marte dunque è omicida, non tu; Venere è adultera, non tu " 4.
Nella Città di Dio parla lungamente di questa concezione deterministica, che trasferisce alle stelle le sorti e le responsabilità degli uomini, ne ricorda le diverse espressioni, ne confuta le affermazioni. Quando gli uomini sentono parlare di fato " lo intendono secondo l'accezione comune come l'influsso della posizione degli astri quale si determina al momento della nascita o del concepimento " 5. Osserva poi che, " secondo l'opinione di uomini non mediocremente dotti, le stelle sono segni più che cause degli avvenimenti, quasi un linguaggio che annuncia il futuro, non lo realizza. I 'matematici' però - continua -, non intendono questo, e non dicono: Questa posizione di Marte indica un omicidio, ma: Commette un omicidio " 6. L'opinione qui ricordata era stata di Plotino, il quale, distinguendo tra annunzio e realizzazione, voleva mettere in salvo la libertà umana 7.
Ma da giovane Agostino non conosceva queste sottigliezze filosofiche: la sua adesione alle previsioni degli astrologhi fu piena e tenace. Pur decisamente avverso alle pratiche degli aruspici, i quali con sacrifici di animali proclamavano di assicurare il futuro 8, non desisteva dal consultare gli astrologhi che predicevano il futuro senza praticare sacrifici o pregare spiriti 9.
Da questa fiducia non lo ritrassero né le amabili esortazioni del dotto e nobilissimo Vindiciano che, quale proconsole, a Cartagine gli aveva messa sul capo la corona vinta nelle gare poetiche, né le amichevoli derisioni di Nebridio. Più di tutto valeva per lui l'autorità di quegli autori, né del resto, aggiunge, " avevo trovato ancora una prova certa, quale cercavo, che mi mostrasse senza ambiguità come le predizioni degli astrologhi consultati predicessero il vero per fortuna o sorte, non per l'arte di osservare le stelle " 10.
Questa ragione la troverà a Milano dopo una conversazione con l'amico Firmino, educato nelle arti liberali e buon parlatore, ma anche solerte nel consultare gli astrologhi e ricercatore avido di responsi. Era andato a trovare Agostino perché gli traesse l'oroscopo su certi suoi interessi. Agostino fece qualche previsione e poi disse che ormai era pressoché convinto della ridicola vanità di quelle pratiche. Firmino allora gli raccontò quanto era accaduto a suo padre e ad alcuni suoi amici grandi cultori, anch'essi, di astrologia; cioè degli oroscopi che avevano tratto su due bambini, nati nello stesso istante, uno da una padrona l'altro da una schiava; oroscopi uguali, data la simultaneità della nascita, ma che riuscirono fallaci perché la sorte dei due fu molto diversa.
Questa narrazione, data l'autorità del narrante, fece cadere ogni esitazione in Agostino e lo indusse a tirare questa conclusione: " I responsi veritieri ricavati dall'osservazione delle costellazioni non derivano dall'arte, ma dalla sorte; i falsi non da ignoranza dell'arte, ma da inganno della sorte " 11.
Si confermò nell'avversione a quelle ridicole vanità, cercò di dissuaderne l'amico che ne era ancora impigliato e si diede a studiare tutta la faccenda per essere in grado di rispondere alle obiezioni dei cultori di astrologia che non si davano facilmente per vinti. Studiò in particolare il caso dei gemelli 12, un caso classico per tutti gli oppositori di quella falsa scienza 13. Per il pensatore cristiano c'era l'esempio biblico di Esaù e Giacobbe, due gemelli che ebbero sorte tanto diversa. Agostino vi ricorre ogni volta che deve confutare quest'errore tanto superstizioso e pur tanto diffuso.
Oltre che nelle Confessioni, delle quali si è detto, lo confuta nelle Diverse 83 questioni 14, nella Dottrina cristiana 15, nella Genesi alla lettera 16 e, più a lungo, nella Città di Dio 17 e nella Epistola 246. Dovunque lo bolla come " un grande errore e una grande pazzia " 18, adduce in contrario l'esempio dei gemelli e ne ricorda le disastrose conseguenze per la vita etica dell'uomo. Perciò " quanto concerne i fati e tutte le sottigliezze quasi da documenazioni sperimentali dell'astrologia che chiamano apotelesmata 19, respingiamolo totalmente come alieno dall'integrità della nostra fede " 20. Ed enumera, nella Genesi alla lettera, quattro ragioni: 1) toglie la ragione stessa della nostra preghiera; 2) sopprime la giusta punizione della colpa; 3) afferma che gli uomini soli siano sottomessi agli astri; 4) tira, data l'impossibilità di precisare il momento della nascita, conclusioni senza fondamento 21.
Nella Città di Dio la confutazione diventa più lunga perché la tesi da dimostrare è più impegnativa. Si trattava della causa della grandezza dell'Impero romano. Agostino afferma che questa grandezza non fu " né fortuita né fatale, secondo la terminologia di coloro che consideravano fortuiti gli eventi che non hanno alcuna causa e non provengono da un ordinamento razionale, fatali quegli eventi che per deterministica necessità di un ordinamento si verificano indipendentemente dal volere di Dio e degli uomini. Al contrario gli imperi umani sono determinati direttamente dalla divina Provvidenza " 22. Occorreva perciò respingere tanto l'assoluta contingenza o il caso, quanto l'assoluta necessità o il fato. In quanto al fato, prima di tutto quello di origine stellare. Agostino ne descrive la natura, ricorda alcuni autori che ne hanno parlato - il famoso medico Ippocrate, Posidonio di Apamea, Nigidio il Figulo, Cicerone - ne mostra le vanità e le disastrose conseguenze, ne adduce gli argomenti in contrario - tra questi quello dei gemelli 23 - e ne conclude: " Dopo queste considerazioni si può fondatamente pensare che i molti responsi stranamente veri degli astrologhi sono dovuti all'occulta suggestione di spiriti del male... e non all'arte di leggere e scrutare l'oroscopo, che non esiste " 24.
Questa conclusione, se si prescinde dall'accenno alla suggestione degli spiriti del male - forse ha preferito questa spiegazione perché l'altra, quella della causa fortuita, gli presentava altri problemi -, contiene l'ultimo giudizio di Agostino sull'astrologia come arte divinatoria: non esiste. Vi era peró un altro fatalismo che occorreva prendere in considerazione: non più quello degli astrologhi, ma quello dei filosofi.

2. Fatalismo filosofico

E' quello non più legato alla posizione degli astri, ma " alla serie e alla connessione di tutte le cause per cui accade tutto ciò che accade " 25. Non più dunque la dipendenza dagli astri, ma il nesso ordinato di tutti i fenomeni che assoggetta alla necessità e determina tutte le cose. Un fatalismo molto presente nella filosofia antica - e non solo in quella -, che raggiunse la forma coerente e rigida - così si ritiene - nello stoicismo con la dottrina dell'ananke e con l'amor fati di cui la prima rappresenta la connessione necessitante delle cause, il secondo l'atteggiamento dell'uomo sapiente.
Agostino, che conosce gli stoici ed è molto contrario a diverse loro dottrine (alla nozione delle passioni 26, all'uguaglianza dei peccati 27, alla nozione della beatitudine 28 ), su questo argomento dà un'interpretazione benevola. Egli ritiene che essi attribuiscano l'ordine e il nesso delle cause al volere e al potere di Dio; perciò non trova necessario polemizzare su una controversia di parole 29. Poco prima aveva scritto: " se qualcuno chiama fato il volere e il potere di Dio, sententiam teneat, linguam corrigat " 30. Non vuole usare la parola fato, ma vuole discutere sul contenuto. A lui basta che l'ordine delle cause venga attribuito a Dio " del quale si ritiene con fede veracissima ed ottima che conosca tutte le cose prima che avvengano, che nulla lasci fuori dell'ordine e che da lui dipendono tutti i poteri, ma non il volere di tutti " 31. Con quest'ultimo inciso Agostino ribadisce una importante distinzione tra potere, che viene da Dio, e volere che, se ha per oggetto il male, non viene da Dio, ma solo dall'uomo. Tornerò subito sull'argomento, perché vi tornerà lo stesso Agostino.
Per dimostrare che gli stoici ascrivono al sommo Dio la connessione delle cause, cita le parole di Seneca, quelle celebri: ducunt volentem fata, nolentem trahunt, che nel contesto vengono riferite al " sommo padre e dominatore dell'alto cielo " 32. Cita altresì le parole di Omero, ricordate e tradotte da Cicerone: " lo spirito degli uomini è come la luce con cui Giove padre illumina la terra feconda " 33. Citando queste parole i filosofi dichiararono apertamente " la loro dottrina sul destino, perché consideravano Giove come il sommo Dio da cui, secondo loro, dipende la connessione dei destini " 34. Difatti " gli stoici si affaticarono per esimere dalla necessità delle cause alcune realtà. Fra quelle che considerarono libere dalla necessità hanno posto anche le nostre volontà perché non sarebbero libere se fossero soggette alla necessità " 35.
Agostino distingue, poi, le cause fortuite, quelle naturali, quelle volontarie; le prime sono, sì, cause ma nascoste (da qui il nome di caso o fortuna), le seconde sono necessitanti ma non sono sottratte alla volontà di Dio " perché egli è autore e principio di ogni natura ", le ultime - le cause volontarie - " sono o di Dio o degli angeli o degli uomini... ". " Quando parlo della volontà degli angeli, intendo tanto di quelli buoni che chiamiamo semplicemente angeli di Dio, come di quelli cattivi che chiamiamo angeli del diavolo o anche demoni. Altrettanto si dica degli uomini tanto dei buoni come dei cattivi " 36.
Sempre sollecito di salvare il sommo potere di Dio e la libertà dell'uomo (e degli angeli) Agostino conclude: " Nella volontà di Dio è il sommo potere, il quale aiuta le volontà buone degli spiriti creati, giudica le cattive, le ordina tutte - bonas voluntates adiuvat, malas iudicat, omnes ordinat - e ad alcune concede i poteri ad altre no ". Ripete qui, e spiega, il principio ricordato sopra che esime dalla causalità di Dio le volontà cattive. " Dio come è creatore di tutte le nature, così è datore di tutti gli influssi causali, ma non di tutti i voleri. Il volere cattivo infatti non è da lui perché è contro la natura che è da lui " 37. Avremo occasione di ricordare e di illustrare questo fondamentale principio agostiniano che illumina tutta la non facile dottrina della predestinazione e della grazia 38. Intanto vediamo la difesa della libertà contro un'altra forma di fatalismo o determinismo, quello teologico.

3. Fatalismo (o determinismo) teologico

Intendo per fatalismo o determinismo teologico quello che deriverebbe secondo alcuni, che poi non sono pochi, dalla prescienza divina, nella quale tutto è presente, anche il futuro delle nostre libere azioni. Come dunque libere se determinate? La difficoltà è ovvia; sa proporla e la propone chiunque, anche l'uomo della strada. Agostino non poteva ignorarla. La propone infatti e la risolve nel Libero arbitrio e nella Città di Dio, ivi in sede teorica, qui in sede storica; ivi dialogando con Evodio che rappresenta, per così dire, l'uomo della strada, qui confutando Cicerone, il quale, per salvare la libertà dell'uomo, non aveva trovato di meglio che negare la prescienza divina.
1) Ecco, nel Libero arbitrio, la difficoltà di Evodio: " Non veggo ancora in che modo non si escludano questi due termini: la prescienza divina dei nostri peccati e il nostro libero arbitrio nel peccare. Dobbiamo infatti innegabilmente ammettere che Dio è giusto e previdente. Ma vorrei sapere con quale giustizia punisca peccati che si commettono per necessità, o come non per necessità si verifichino eventi di cui ha prescienza che avvengano, o come non si debba imputare al Creatore tutto ciò che nella sua creatura avviene per necessità " 39.
La difficoltà di fondo è chiara: libertà e prescienza divina appaiono inconciliabili. Dunque la seconda toglie la prima. Ma se non c'è la libertà, come può esserci la giustizia quando Dio giudica il peccatore? Di nuovo una conclusione che esprime una preoccupazione dominante di Agostino e una tesi di fondo della sua antropologia: se l'uomo non è libero, non può essere giudicato giustamente. Il discorso tornerà a proposito della condanna dei reprobi. Ma per ora ascoltiamo la risposta alla difficoltà di Evodio.
Agostino osserva prima di tutto che prescienza non vuol dire costrizione. Infatti se per ipotesi uno sapesse con certezza ciò che farà un altro nel futuro, questi non sarebbe determinato a farlo dalla prescienza dell'altro. " Come dunque non sono opposti questi due termini, che tu per tua prescienza sai ciò che un altro compirà con la propria volontà, così Dio, sebbene non costringe nessuno a peccare, prevede però coloro che per propria volontà peccheranno " 40.
Ma perché non si pensasse che il ragionamento partiva da un'ipotesi impossibile, porta per esempio la memoria. Dice: " Come tu con la tua memoria non determini che si siano avverati gli avvenimenti passati, così Dio con la sua prescienza non determina che si debbano avverare gli eventi futuri. E come tu ricordi alcune azioni che hai compiute, così Dio ha prescienza di tutte le cose, di cui è autore, ma non è autore di tutte le cose, di cui ha prescienza " 41.
La conclusione non poteva essere che questa: " Perché dunque Dio non dovrebbe punire con la giustizia le azioni che non ha condizionato con la prescienza? Pertanto quorum non est malus auctor, iustus est ultor: è giusto punitore di tutte le azioni di cui non è ingiusto autore " 42.
Ma prima di passare alla Città di Dio, dove non si tratta più di una difficoltà accademica ma di una difficoltà storica, vale la pena di mettere in rilievo un'espressione su cui bisognerà tornare perché ci ritorna il nostro dottore: Dio ha la prescienza di tutte le cose di cui è autore, ma non è autore di tutte le cose di cui ha la prescienza. Si tratta, come si vede, della distinzione tra predestinazione e prescienza, per cui la seconda può essere, e di fatto è, quando v'è di mezzo il peccato, senza la prima: distinzione fondamentale per capire la dottrina agostiniana della grazia e che molti critici dimenticano o, peggio ancora, accusano il vescovo d'Ippona di averla ignorata dando occasione ad interpretazioni errate della sua dottrina 43. Ma per ora andiamo avanti e vediamolo difendere insieme libertà e prescienza contro Cicerone.
2) Cicerone è un deciso avversario del fatalismo e combatte contro gli stoici, ma ritiene che nessun argomento è valido contro di loro se non si elimina la divinazione, e con ciò la conoscenza del futuro e la prescienza di Dio. Agostino, che conosce bene le opere di Cicerone, attinge al De fato, al De divinatione e al De natura deorum 44. Ne conclude che egli " combatte apertamente la prescienza del futuro. E, come sembra, tutto il suo impegno consiste nel non ammettere il fato per non negare la libera volontà. Pensa infatti che data la premessa della conoscenza del futuro si ha la conclusione assolutamente innegabile dell'esistenza del fato " 45.
Al filosofo di Arpino premeva difendere la libertà, senza la quale, osserva giustamente: " omnis humana vita subvertitur, tutta la vita umana viene sconvolta, è inutile fare le leggi, è inutile usare punizioni e lodi, rimproveri e consigli e contro ogni giustizia sono stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi " 46.
Agostino è d'accordo nella difesa della libertà, ma non nella negazione della prescienza divina: il dilemma posto da Cicerone non è un dilemma. Negare a Dio la prescienza del futuro è lo stesso che negare l'esistenza di Dio: un Dio senza prescienza non è Dio 47. Ma l'esistenza di Dio non si può ragionevolmente negare, né a Dio si può negare la prescienza del futuro, come pure non si può negare, senza misconoscere un fatto di esperienza ed accettare disastrose conseguenze, la libertà dell'uomo. Cicerone ha voluto rendere gli uomini liberi, bene; ma li ha resi sacrileghi, e qui sta il male: dum vult facere liberos, fecit sacrilegos 48. Resta dunque il dovere di non scegliere, trasformando il falso dilemma ciceroniano in un vero binomio cristiano: libertà e prescienza. " Una coscienza religiosa sceglie l'uno e l'altro, ammette l'uno e l'altro, mediante la pietà fedele afferma l'uno e l'altro. E come? " 49. Agostino risponde dimostrando che le ragioni di Cicerone sono false e che, perciò, libertà e prescienza non sono inconciliabili. " Noi - dice egli - sosteniamo che Dio conosce tutte le cose prima che avvengano e che noi facciamo con la nostra volontà tutte le azioni che abbiamo coscienza e conoscenza di fare soltanto perché lo vogliamo... Non neghiamo però la serie delle cause in cui la volontà di Dio ha il massimo potere... " 50, ma affermiamo, riassumo le parole agostiniane, che nella serie delle cause ci sono anche quelle della libera decisione dell'uomo. L'ho ricordato sopra. Ecco le parole conclusive del nostro dottore: " Se davanti a Dio è certo l'ordine di tutte le cause, non ne segue che nulla è in potere dell'arbitrio della nostra volontà. Anche le nostre volontà rientrano nell'ordine delle cause che sono certe davanti a Dio e sono contenute nella sua prescienza, perché anche le nostre volontà sono causa di azioni umane. Così egli che ha avuto prescienza delle cause di tutti gli avvenimenti non ha potuto certamente non conoscere in quelle cause anche la nostra volontà di cui sapeva per prescienza che sarebbe stata causa delle nostre azioni " 51.
Ritroviamo l'Agostino del De libero arbitrio, con l'aggiunta che qui si trattava di combattere con un " uomo eccellente e dotto che molto e con competenza si preoccupava per la vita umana " 52. Anche il vescovo d'Ippona ne era preoccupato, ma non lo era meno di affermare la prescienza di Dio. " Noi cristiani - scrive - accettiamo l'uno e l'altro, affermiamo per fede e ragione l'uno e l'altro, la prescienza per credere bene, l'arbitrio per vivere bene ".
Il dilemma dunque è trasformato in binomio. " Non sia mai che noi, per salvare il libero volere, neghiamo la prescienza di Dio con il cui aiuto siamo o saremo liberi ". Non sono inutili le leggi, i premi e i castighi, non inutili le preghiere per ottenere ciò che Dio ha previsto di concedere; anzi influiscono molto, perché Dio ha previsto che avrebbero influito.
In quanto poi al peccato, che è sempre l'argomento più difficile perché richiama la giustizia di Dio che lo giudica e lo punisce, ecco l'affermazione e la spiegazione di Agostino: " L'uomo non pecca perché Dio ha conosciuto per prescienza che avrebbe peccato. Anzi è innegabile che pecca, quando pecca, perché Dio, la cui prescienza non può fallire, non ha conosciuto per prescienza che il fato o la fortuna o qualcos'altro di simile, ma che proprio l'uomo avrebbe peccato. Se l'uomo non vuole, certamente non pecca, ma se non vorrà peccare, anche questo Dio ha conosciuto per prescienza " 53.
In questo modo il vescovo d'Ippona combatte contro il fatalismo in difesa della libertà e contro la miscredenza in difesa della prescienza divina. Vale la pena di osservare che l'opposizione tra l'una e l'altra non fu solo Cicerone a vederla; la vide nei tempi moderni anche Lutero. E, contrariamente a quanto aveva fatto Agostino, anche Lutero scelse. Ma, da uomo religioso qual era, non scelse la libertà contro la prescienza, ma la prescienza contro la libertà 54, tornando a una forma di fatalismo o determinismo teologico che il vescovo d'Ippona aveva tanto combattuto.

4. Strana sorte di Agostino

La sorte strana è questa: un uomo come lui, che aveva difeso con tanta convinzione e tenacia la libertà umana contro ogni forma di fatalismo, e non solo nella controversia manichea, ma anche nel bel mezzo di quella pelagiana 55, è accusato di fatalismo. Ad accusarlo furono i pelagiani e i semipelagiani, e sono i moderni critici. Perché? Per la sua dottrina della grazia, in particolare per la difesa della gratuità di essa. L'affermazione che la salvezza è un dono di Dio è parsa a molti un ritorno al fatalismo. Così i pelagiani sostennero che Agostino difendeva il fato sotto il nome di grazia: sub nomine gratiae ita fatum asserunt... 56. Enunziarono poi l'affato: si compie per fato ciò che non si compie per merito. " E' vostra, non nostra, la sentenza - scrive Agostino - fato fieri quod merito non fit " 57. La stessa accusa, e in sostanza per la stessa ragione, presso i semipelagiani 58. La stessa presso i moderni critici 59. Altri poi, i predestinaziani, hanno preso per buone queste accuse e le hanno trasformate in lodi.
Ma non è questo il momento d'intrattenerci sul tema indicato. Basta averlo accennato, per offrire al lettore l'opportunità di avere subito un'idea di ciò che è capitato al dottore della grazia. E' utile invece continuare a seguirlo nella difesa della libertà. Fin qui ha difeso una verità, che è insieme di fede e di ragione, con le armi della ragione. Vediamo ora come la difenda con quelle della fede, cioè della Scrittura, trasformandosi da filosofo in teologo della libertà.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:39

CAPITOLO TERZO

LA LIBERTA' DI SCELTA

Nel forte della controversia pelagiana, lungi dal negare la libertà per difendere la grazia, come spesso e, bisogna pur dirlo, con tanta superficialità si afferma ripetendo pari pari le accuse dei pelagiani, Agostino diventa il teologo della libertà, non solo della libertà dal male o libertà cristiana, di cui è convinto assertore e inesauribile cantore, ma anche della libertà di scelta, quella che aveva difeso contro i manichei e contro il fatalismo: la grazia che dona la prima, non toglie la seconda. Parliamo dunque di questa. Non faccia meraviglia il cambiamento di argomentazione: erano cambiati gli interlocutori. Questi ammettevano la Scrittura e ne accettavano l'autorità. Era dunque metodologicamente esatto e polemicamente efficace combattere non più con le armi della ragione, ma con quelle della Scrittura. Del resto, parlando a cristiani, Agostino voleva far capire che, difendendo la libertà e la grazia, non diceva nulla di suo, ma attingeva esclusivamente alla fonte della Rivelazione.

1. L'utrumque o il grande binomio.

Fin dall'inizio della controversia pelagiana imposta il problema sui termini fissi di libertà e grazia. Questa impostazione non fu più cambiata, anzi fu continuamente ribadita e chiarita. L'insegna dunque della sua dottrina è l'utrumque che tante volte ripete. Studiamola alla luce di quest'insegna e non sbaglieremo ad interpretarla. Come nella questione della libertà e della prescienza non scelse, ma affermò l'una e l'altra, dimostrando poi che non sono inconciliabili, così qui afferma l'una e l'altra - libertà e grazia - e indica poi, sia pure con grande modestia data la profondità dell'argomento, la via per vederne, in qualche modo, la conciliabilità. Di questa si parlerà a suo luogo nelle pagine seguenti 1. Qui interessa prima di tutto esaminare le due tesi di fondo. Parliamo innanzitutto della libertà. Forse ci stupiremo dell'insistenza di Agostino. Ma egli prevedeva o sentiva le difficoltà degli avversari. Del resto, anche senza di essi non avrebbe taciuto; non poteva infatti tacere di una verità fondamentale e insostituibile dell'antropologia umana e dell'economia della salvezza.
L'utrumque si trova già nella celebre preghiera delle Confessioni: Da quod iubes, et iube quod vis 2 che tanto dispiacque a Pelagio 3. V'è in essa l'espressione breve ed efficacissima della necessità della grazia e della disponibilità dell'uomo a compiere i divini comandamenti.
Nelle prime opere antipelagiane ribadisce questo concetto e ne indica il fondamento biblico. Vale la pena di riportare un lungo passo del Castigo e perdono dei peccati, che tra le prime è la prima. Vi s'insiste insieme sui comandi che Dio dà all'uomo e sulla preghiera dell'uomo che implora la grazia per osservarli: col comando Dio interpella la volontà dell'uomo, con la preghiera l'uomo ricorre alla misericordia di Dio. " Quando Dio ci comanda: Convertitevi a me e io mi convertirò a voi, e noi gli diciamo: Convertici, o Dio, nostro Salvatore, convertici Dio degli eserciti, che altro diciamo se non: 'Dona quello che comandi'? Quando comanda: Cercate di capire, o insensati del popolo, e noi gli diciamo: Dammi l'intelligenza perché io capisca la tua legge, che altro gli diciamo, se non: 'Dona quello che comandi'? Quando comanda: Non andare dietro alle tue concupiscenze, e noi gli diciamo: Sappiamo che nessuno può essere continente se Dio non glielo concede, che altro diciamo se non: 'Dona quello che comandi'? Quando comanda: Praticate la giustizia, e noi gli diciamo: Ammaestrami nella tua giustizia, che altro gli diciamo se non: 'Dona quello che comandi'? " 4.
Quasi a conclusione di questo ricamo biblico sul da quod iubes, e iube quod vis, un commento molto opportuno alle parole del Salmo: Dio è nostro aiuto ( Ps 61,9): " Non può essere aiutato se non chi si prova a fare qualcosa anche da sé. Dio infatti non opera in noi la nostra salvezza come se fossimo delle pietre insensibili o dei viventi alla cui natura egli non abbia dato la ragione e la volontà " 5. L'esempio, efficacissimo, illumina e conferma l'insegnamento: Dio ha dato all'uomo la libera volontà e, nel condurlo alla salvezza, tiene conto di questo suo dono.
La preghiera delle Confessioni - ad Agostino gli stava proprio a cuore per la sua brevità ed efficacia - torna nella seconda opera della controversia pelagiana, lo Spirito e la lettera, dove si discorre a lungo della legge delle opere che comanda (lettera) e della legge della fede che implora la grazia di fare quello che viene comandato (spirito). " Dove la legge delle opere impera minacciando, la legge della fede impera credendo... Perciò con la legge delle opere Dio dice: 'Fa' quello che comando', con la legge della fede si dice a Dio: Da' quello che comandi. Infatti la legge comanda perché la fede ammonisca l'uomo su ciò che deve fare, di modo che colui che riceve il comando, se non può ancora fare, sappia a chi chiedere... " 6.
Ma perché nessuno pensi che questo binomio - libertà e grazia - sia stato enunciato solo nelle prime opere antipelagiane e fatto cadere poi, ecco tre opere che coprono l'ultimo periodo della vita di Agostino, dal 400 alla morte. Si tratta della Risposta alle lettere di Petiliano, delle Ritrattazioni (426-427) e dell' Opera incompiuta contro Giuliano (429-430). Dice nella prima, dopo aver ricordato la difficoltà di conciliare la libera scelta dell'uomo e l'azione divina con cui il Padre trae gli uomini al Figlio: " Eppure utrumque verum est " 7.
L' utrumque torna nelle Ritrattazioni, dove corregge un suo errore giovanile circa l'inizio della fede. Vi ribadisce ciò che aveva difeso apertamente in tante opere. Sia il credere che l'operar bene sono nostri e di Dio, di Dio per la grazia, nostri per il libero arbitrio: utrumque ergo nostrum est propter arbitrium voluntatis et utrumque tamen datum est propter spiritum fidei et caritatis 8.
Quest' utrumque rivelatore ritorna nell'opera che la morte non gli permise di portare a termine. Scrive: " Utrumque verum est e che Dio prepari i vasi per la gloria (cf. Rom 9,23) e che questi vasi preparino se stessi. Infatti perché l'uomo operi, Dio opera, per la ragione che l'uomo ama perché Dio lo ha amato per primo (1 Gv 4,19) " 9. Nell'altra opera scritta poco prima dell'Opera incompiuta, che è, poi, quella più profonda e più difficile di quante ne ha scritte sulla grazia, se non ricorre materialmente l'utrumque, ricorre il senso. Scrive: " I figli di Dio vengono mossi dallo Spirito di Dio ( Rom 8,14), perché agiscano, non perché da parte loro non facciano nulla " 10.

2. La libertà nella Scrittura

Il grande binomio, libertà e grazia, tante volte ripetuto da Agostino prima della controversia pelagiana e dopo, nasceva da una profonda convinzione filosofico-teologica. Perché la convinzione teologica trovasse lo spazio per esprimersi ci voleva un'occasione. Questa gliela offrirono i monaci di Adrumeto; questi, letta la famosa lettera 194, ne conclusero che tra libertà e grazia non c'è possibilità di conciliazione, occorreva scegliere. Essi, manco a dirlo, sceglievano la libertà 11. Agostino lo seppe e rispose, dando, con maggiore ampiezza di quanto non avesse fatto fino allora, le ragioni bibliche del binomio che gli stava a cuore o, per usare ancora una volta la sua espressione preferita, dell' utrumque, e inviò il libro a quei monaci.
La visione teologica agostiniana appare già dal titolo: De gratia et libero arbitrio. Non poteva essere più significativo, precisamente come quello di molti anni prima: De natura et gratia, che dimostrava, contro Pelagio, che aveva scritto il De natura, quale dovesse essere l'atteggiamento del cristiano: non scegliere, ma abbracciare in una visione unitaria l'una e l'altra verità, perché l'una e l'altra ci è stata rivelata da Dio.
Per ciò che riguarda la libertà, ecco la tesi e gli argomenti di Agostino.
1. La tesi. Il Signore " ci ha rivelato per mezzo delle sue sante Scritture che c'è nell'uomo il libero arbitrio della volontà. In qual maniera poi lo abbia rivelato, ve lo ricordo non con le mie parole umane, ma con quelle divine " 12. La tesi è chiara: non meno chiaro il metodo. Parlando a cristiani, Agostino non si attarda ad usare argomenti di ragione ma si appella immediatamente alla fede: chi crede non potrà negarli. Farà lo stesso poco dopo per l'altra verità di fondo, la grazia. " Fin qui, carissimi, abbiamo provato con le testimonianze citate sopra dalle sante Scritture che per vivere bene ed agire rettamente c'è nell'uomo il libero arbitrio della volontà; ma adesso vediamo anche quali siano le testimonianze divine sulla grazia di Dio, senza la quale nulla di buono possiamo compiere " 13.
2. Gli argomenti. Vediamo gli argomenti della prima tesi. Si possono ridurre a tre: 1) le affermazioni esplicite sulla libertà dell'uomo; 2) i precetti della legge che la suppongono e l'includono; 3) il giudizio divino che non s'intenderebbe senza che ci fosse in noi la responsabilità nel compiere il bene e il male.
1) Per le affermazioni esplicite viene citato il celebre passo dell' Ecclesiastico (Siracide) 15, 11-18, dove nel bel mezzo si dice: " Il Signore creò l'uomo all'inizio e lo lasciò in mano del proprio consiglio. Se vorrai, osserverai ciò che ti viene prescritto e la completa fedeltà a ciò che a lui piace ". Questo testo biblico è commentato con le seguenti parole: " Ecco che vediamo espresso nella maniera più lampante il libero arbitrio della volontà umana " 14.
2) L'argomento tratto dai precetti divini è preceduto da questa premessa che, attraverso interrogativi retorici, ne indica la conclusione. " E che significa il fatto che Dio ordina in tanti passi di osservare e compiere tutti i suoi precetti? Come lo può ordinare, se non c'è il libero arbitrio e quel beato di cui il Salmo dice che la sua volontà fu nella legge del Signore, non chiarisce forse abbastanza che l'uomo perdura di propria volontà nella legge di Dio? " 15. Dopo questa premessa il nostro dottore cita una lunga serie di testi - oltre venti - in cui Dio si rivolge all'uomo interpellando la sua volontà con la formula imperativa: non volere... non vogliate, o condizionale: chi vuole... se vuoi... 16.
Al termine questo commento: " Quando si dice: non voler fare questo e non fare quello, e quando negli ammonimenti divini a fare o non fare qualcosa si richiede l'opera della volontà, il libero arbitrio risulta sufficientemente dimostrato. Nessuno dunque, quando pecca, accusi Dio nel suo cuore, ma ciascuno incolpi se stesso; e quando compie un atto secondo Dio, non ne escluda la propria volontà " 17.
Spiega poi per quale scopo vengono dati i comandamenti divini, affinché, cioè, nessuno porti la scusa dell'ignoranza e questa, in ogni caso, non abbia altra ragione se non la volontà di non apprendere per non agire bene (Rom 12,21); cita ancora un testo dell'Apostolo: Non ti lasciar vincere dal male, ma vinci il male con il bene (Rom 12,21), e conclude: " Appunto se a uno è detto: Non voler essere vinto, si fa richiamo senza dubbio all'arbitrio della sua volontà. Infatti volere e non volere appartengono alla volontà dell'individuo " 18.
3) La terza ragione, dedotta dal giudizio di Dio, nell'opera che sto commentando viene accennata qua e là, mentre la si trova esposta apertamente in una lettera che la precede e la riguarda. Agostino, come fa per molti altri problemi, riduce la questione della libertà e della grazia ad un motivo cristologico: Cristo è salvatore e giudice. Scrive ai monaci di Adrumeto: " Innanzitutto il Signore Gesù, come sta scritto nel Vangelo dell'apostolo Giovanni, è venuto non per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato da lui. Ma in seguito, come scrive l'apostolo Paolo: Dio giudicherà il mondo e lo giudicherà quando verrà a giudicare i vivi ed i morti, come confessa tutta la Chiesa nel Simbolo. Se, dunque, non c'è la grazia di Dio, in qual modo Dio salverà il mondo? E se non c'è il libero arbitrio, in qual modo giudicherà il mondo? " 19. Non c'è bisogno di ricordare che questo pensiero del giudizio di Dio dominava l'animo di Agostino: Dio è giusto e non può condannare nessuno se non ha commesso liberamente il male.

3. La risposta ai pelagiani

Sul tema della libertà - la libertà di scelta - Agostino ebbe una forte polemica con i pelagiani. Questi ponevano al centro del loro sistema la difesa della libertà 20. Come emblema della loro dottrina si possono prendere queste parole che furono contestate a Pelagio dal sinodo di Diospoli in Palestina: Tutti sono governati dalla propria volontà. Pelagio rispose: " Questo l'ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene. Quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, dotato com'è di libero arbitrio ". I vescovi approvarono la risposta. Agostino commenta: " Chi infatti condannerebbe o negherebbe il libero arbitrio, se insieme ad esso si sostiene l'aiuto di Dio? " 21. Ma il modo col quale i pelagiani ammettevano l'aiuto di Dio era parziale e insufficiente. Il dottore della grazia precisa: non basta parlare di aiuto divino o di grazia solo a proposito della creazione, della rivelazione e della remissione dei peccati; occorre parlarne anche in un quarto modo, a proposito cioè dei peccati da evitare. Infatti senza l'aiuto di Dio non si possono evitare i peccati 22.
Questa dottrina i pelagiani non vogliono accettarla e passano al contrattacco accusando Agostino di negare la libertà. Questi risponde energicamente: " Ma chi di noi dice che col peccato del primo uomo è perito il libero arbitrio del genere umano? La libertà certo è perita per mezzo del peccato, ma quella che ci fu in paradiso, cioè quella di avere la giustizia e l'immortalità. Perciò la natura umana ha bisogno della grazia secondo le parole del Signore: Se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi (Gv 8,36) " 23. Anche dopo il peccato e nonostante il peccato il libero arbitrio dell'uomo resta. Né la grazia si oppone ad esso, ma lo libera perché possa operare la giustizia e raggiungere la salvezza. Anche nel forte della polemica a favore della grazia non dimentica mai l'altro polo del problema: la libertà.
Possiamo concludere questo importante argomento sul grande binomio che egli tenne sempre strettamente unito come un'esigenza fondamentale della ragione e della fede, con le parole della lettera ad Ilario siracusano, dove scrive, a proposito della libertà e della grazia: " L'arbitrio della volontà non viene tolto per il fatto che viene aiutato, ma viene aiutato proprio perché non viene tolto: Neque enim voluntatis arbitrium ideo tollitur, quia iuvatur; sed ideo iuvatur, quia non tollitur " 24. Queste parole riassumono e fissano in modo epigrafico una dottrina costantemente ritenuta e chiaramente proposta. Da esse si può giudicare se abbia ragione lo Jaspers, che pur ha scritto belle cose su Agostino, quando dice che " la sua dottrina della libera volontà finisce quasi per spegnersi interamente nella dottrina della grazia " 25.

4. Ma allora perché?

A questo punto non ci si può non fermare un momento per fare una riflessione. Se la dottrina agostiniana è questa - e i testi riportati dicono chiaramente che è questa - come si è potuto ripetere con tanta frequenza, e con parole anche più forti dello Jaspers, che Agostino difendendo la grazia ha finito per negare la libertà?
La domanda è legittima, ma la risposta non è facile. Non lo è, perché le ragioni sono molte, e riguardano sia la storia dell'agostinismo sia il testo agostiniano. L'agostinismo ha una storia, come tutti sanno, molto singolare, dovendo registrare interpretazioni da destra e da sinistra: le accuse dei pelagiani e le lodi dei predestinaziani, ripetute, le une e le altre, dai moderni.
Ma per restare al testo agostiniano e confermare sia pure sommariamente un'affermazione fatta all'inizio di questo argomento e ripetuta qui sotto forma appunto di questione, si può dire che le ragioni di questo fenomeno singolare e grave si possono ridurre a tre:
1) l'insistenza su la libertà cristiana, di cui il nostro dottore parlò a lungo e sempre con l'entusiasmo d'un innamorato;
2) la natura della libertà di scelta le cui radici sono nascoste nel profondo del nostro essere;
3) la difficoltà di comprendere la grazia, la quale toccando le soglie del mistero richiede, per essere compresa, non solo l'acume teologico e l'assiduo studio della Scrittura, ma anche l'umiltà della mente e l'assiduità della preghiera.
L'argomento tornerà nelle pagine seguenti. Qui si può dire brevemente così:
1) l'insistenza di Agostino sulla libertà dal male o libertà cristiana, che indubbiamente nel quadro dei suoi pensieri sta al primo piano, ha potuto far dimenticare ad alcuni e portarli a non vedere, che nel sottofondo fosse presente, sempre supposta e di quando in quando esposta, la libertà di scelta, tanto più che questa nelle discussioni posteriori, quelle scolastiche e moderne, è diventata prevalente e ha portato chi scrive o legge a identificare libertà e libertà di scelta;
2) la libertà di scelta richiede il concorso dell'intelletto e della volontà, va soggetta all'influsso delle passioni ed è destinata alla beata necessitas del non posse peccare: tutte questioni che sono ben lungi dall'essere a tutti chiare;
3) la grazia opera negli ingranaggi della libertà umana, interiormente, profondamente. Nella convinzione di Agostino, Dio ha in potere la nostra volontà più di quanto non l'abbiamo in potere noi stessi e, avendola creata, opera in essa dal di dentro, con tanta soavità da volgerla al bene quando vuole e come vuole, senza violarne peraltro la natura. Dico: al bene, perché al male purtroppo la volontà si volge da se stessa. Ora quest'azione di Dio tocca le soglie del mistero. E' più facile la soluzione di chi, come Giuliano, considera la volontà " emancipata " da Dio; più facile, ma difforme, metafisicamente e religiosamente, dalla verità 26.
Le pagine che seguono cercheranno di chiarire il significato e il valore di queste ragioni. Comincerò dalla prima.

CAPITOLO QUARTO

LA LIBERTA' DAL MALE, O LA LIBERTA' CRISTIANA

Diciamo subito che se Agostino, attingendo alla luce della ragione e della fede, difende con fermezza la libertà di scelta come un postulato essenziale della persona umana, parla più a lungo, con insistenza e passione, di un'altra libertà, quella che ci viene da Cristo, la libertà dal male. Ne parla più a lungo per ragioni pastorali, per ragioni polemiche, per ragioni esperienziali. Infatti: 1) occorreva insistervi presso il popolo cristiano perché imparasse ad amare, a cercare, a invocare questa preziosa libertà che prelude a quella suprema e definitiva dei tempi escatologici, assicura il pacifico sviluppo della persona umana e anima la preghiera con l'ultima petizione del Padre nostro: ma liberaci dal male; 2) contro i pelagiani poi, che negavano la necessità della grazia per evitare il peccato, occorreva insistere sulla schiavitù che proviene dal peccato e dalla concupiscenza disordinata e sul male della morte: da questi mali può liberarci solo la grazia di Cristo; 3) il ricordo della dura servitus 1 che aveva sofferto in gioventù quando, scoperta la verità attraverso la fede cattolica, voleva dedicarsi totalmente alla ricerca della sapienza: questa circostanza rendeva più efficace, se ce ne fosse stato bisogno, il suo insegnamento colorendolo con la luce della sua esperienza.
Parliamo dunque di quest'aspetto essenziale dell'opera redentrice di Cristo della quale Agostino sentì il dovere di esporre e chiarire e difendere la necessità, la centralità, l'insostituibilità.

1. Questione semantica

Prima di tutto si pone una questione semantica: l'uso dei termini liberum arbitrium e libertas. Si è visto sopra che Agostino, rispondendo ad una accusa dei pelagiani, distingue tra l'uno e l'altro termine, attribuendo il primo al potere che la volontà ha nei propri atti, il secondo al possesso della giustizia e dell'immortalità. Vale la pena di ripetere le sue parole. " Chi di noi dice che col peccato del primo uomo il libero arbitrio è perito dal genere umano? La libertà, certo, è perita col peccato, ma quella che l'uomo ebbe in paradiso, quella di avere la piena giustizia congiunta all'immortalità " 2. La distinzione semantica sarebbe stata preziosa se Agostino vi fosse restato fedele. Ma purtroppo questo non è avvenuto.
Vi resta fedele, per esempio, quando, esponendo la visione universale della storia umana, parla di libertas minor e di libertas maior 3, o parla della libertà necessaria per vincere gli errori, i terrori, gli amori di questo mondo 4, o afferma che " la prima libertà è quella di esser privi di peccati gravi (crimina) " 5, o enuncia il principio generale che dopo il peccato la vera libertà ci viene dalla grazia 6, o sostiene che la libertà perfetta è quella che importa la desideranda necessitas di volere il bene e di non poter non volerlo 7, o ricorda che l'immutabile libertà dell'uomo è quella di voler essere beati 8.
Invece non vi resta fedele altre volte quando usa il termine liberum arbitrium mentre ci si aspetterebbe libertas. Primum liberum arbitrium posse non peccare, novissimum non posse peccare 9. In questo caso non si può risolvere la questione sul piano semantico: occorre ricorrere a quello contenutistico, che non presenta del resto grosse difficoltà, almeno per chi legge tutti i testi di Agostino e vuole, come si è detto cominciando, concordarli tra loro.

2. L'insegnamento biblico

In questo come negli altri argomenti teologici Agostino prende l'avvio dalla Scrittura e ad essa si richiama di continuo per controllare le affermazioni e i giudizi. Sulla libertà i testi principali che cita e commenta sono tre: 1) Gv 8,32: cognoscetis veritatem, et veritas liberabit vos 10; 2) Gv 8,36: Si vos Filius liberaverit, vere liberi eritis 11; 3) Mt 6,13: l'ultima petizione del Padre nostro: sed libera nos a malo 12.
Sul primo testo vale la pena di citare, in parte almeno, un commento agostiniano: " Il premio [per chi rimane fedele alla parola di Cristo] qual è? Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. O premio! Conoscerete la verità. Forse dirà qualcuno: e che mi giova conoscere la verità? E' la verità a farvi liberi. Se non vi attrae la verità, vi attragga la libertà... Essere liberato vuol dire propriamente essere reso libero; come salvato, fatto salvo; sanato, reso sano... Nella lingua greca questo significato è più evidente e non può essere inteso in un altro modo. Perché sappiate che non può essere inteso in un altro modo, [sentite] che cosa rispondono i giudei alle parole del Signore: Noi non abbiamo mai servito a nessuno, come tu dici: la verità vi farà liberi? Cioè, come puoi dire a noi: la verità vi farà liberi, se noi non abbiamo mai servito a nessuno? " 13. La verità che libera non vuol dire soltanto, dunque, osserva Agostino, la verità che ci scampa da un pericolo, ma che da servi che eravamo ci fa liberi.
Sul secondo testo giova ricordare una polemica con Giuliano. Questi replica al testo agostiniano riportato sopra 14 e interpreta il liberabit vos come liberazione dai peccati commessi personalmente, che costituiscono l'unica servitù dell'uomo. Agostino controreplica intendendo il qui facit peccatum (non qui fecit come leggeva Giuliano) servus est peccati in un senso più universale includendo in esso anche la servitù dalle passioni disordinate e quindi intende in senso più universale la liberazione che ci viene da Cristo 15.
Sul terzo testo val la pena di osservare che il nostro dottore nell'ampio quadro della vita spirituale che traccia mettendo in relazione beatitudini, doni dello Spirito Santo e petizione del Padre nostro 16, ravvicina il libera nos a malo alla sapienza, che è il più alto dei doni di Dio, e alla beatitudine della pace, che è la più alta delle beatitudini 17. La liberazione dal male coincide con la giustificazione ed ha lo stesso raggio d'azione: dalla Chiesa peregrinante alla Chiesa escatologica 18, quando " la creazione... [sarà] liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio " (Rom 8,21).

3. Le sei grandi libertà cristiane

L'ampio discorso che Agostino fa sulla libertà cristiana si può ridurre a sei temi fondamentali: la libertà dall'errore, dal peccato, dal disordine delle passioni, dalla legge, dalla morte, dal tempo. Queste sei libertà vengono elargite agli uomini - soggetti appunto all'errore, al peccato, alle passioni, alla legge, alla morte e al tempo - dai doni divini della fede, della giustificazione, della grazia adiuvante, dell'amore, della risurrezione, dell'eternità.
Sei libertà che il vescovo d'Ippona, capace ed amante delle grandi sintesi, riduce ad una sola, a quella dell'amore: lex libertatis, lex caritatis 19. Ora il cuore di tutta la Scrittura è per Agostino l'amore 20. Perciò la libertà cristiana altro non è che la libertà dell'amore: libertas caritatis 21: quando l'amore sarà pieno e perfetto, sarà piena e perfetta anche la libertà.
Il panorama qui riassunto è immenso. Esso induce a meditare lungamente sulla redenzione di Cristo e sui frutti che ne derivano all'umanità. Agostino vi meditò molto e ne ridisse i risultati nei suoi scritti; vi meditò e ne scrisse per molte ragioni: teologiche, polemiche e mistiche, ed anche filosofiche. Egli, anche come filosofo, non sa capire la storia dell'umanità senza l'influsso negativo del peccato e l'influsso positivo della redenzione di Cristo 22. Giova seguirlo su questo campo, sia pur brevemente.
1) La libertà dall'errore. La libertà di errare è da lui considerata come la peggiore morte dell'anima: Quae peior mors animae - esclama - quam libertas erroris? 23. Questa interrogazione retorica esprime con efficacia la triste esperienza dell'errore che egli stesso aveva fatto fuori della fede cattolica. Questa esperienza ne fece l'assertore convinto e indefesso dell'utilità della fede. Ma prima di tutto gli suggerì l'affermazione di fondo: la nostra libertà è questa: essere soggetti alla verità. Alla luminosa affermazione fanno seguito le prove, quella biblica con la citazione di Io 8, 31 - 32 e quella filosofica con la nozione della beatitudine che non può essere vera se non è sicura. " La stessa Verità, che è anche Uomo in dialogo con gli uomini, ha detto a coloro che lo credono: Se rimarrete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli e conoscerete la verità e la verità vi libererà. L'anima infatti non gode di un bene con libertà, se non ne gode con sicurezza. Ora non si è sicuri di quei beni che si possono perdere indipendentemente dalla volontà " 24.
Per quel principio e per queste ragioni la difesa dell'utilità della fede diventava obbligatoria e naturale. Il vescovo d'Ippona la intraprese subito dopo la conversione 25 e, appena all'inizio del suo sacerdozio, scrisse un'opera dal titolo significativo e programmatico: L'utilità del credere. La fede è utile per tutti, anche per il filosofo. Essa è la fortezza inespugnabile che assicura e difende chiunque dalla molteplicità degli errori 26, è il nido dove mettiamo le penne per poter volare con sicurezza verso gli orizzonti del vero 27, è la medicina che sana l'occhio dello spirito perché possa fissarsi nelle verità più alte 28, è l'accorciatoia che permette di conoscere presto, senza grande sforzo e senza errori, quelle verità essenziali che sono indispensabili affinché l'uomo possa condurre una vita sapiente 29.
2) La libertà dal peccato. E', insieme alla liberazione dall'errore, la grande libertà che proviene da Cristo. Prima libertas - esclama Agostino parlando al popolo - est carere criminibus 30. Inutile ricordare che qui crimina sta per " peccati gravi ", cioè quei peccati che escludono dal regno di Dio, dei quali parla l'Apostolo in Gal 5,19 - 21 31. L'insistenza su questa libertà è pari alla profonda convinzione che gli veniva dall'esperienza personale e dalle parole del Vangelo ricordate sopra: Omnis qui facit peccatum, servus est peccati (Gv 8,34). " Oh, miserabile schiavitù! - esclama Agostino - Accade che uomini schiavi di duri padroni chiedano di essere venduti, non per non avere più padrone, ma almeno per cambiarlo. Che farà chi è schiavo del peccato?...La cattiva coscienza non può fuggire da se stessa...Ricorriamo tutti a Cristo, invochiamo contro il peccato l'intervento di Dio liberatore, chiediamo di essere venduti, ma per essere ricomprati con il suo sangue " 32. Non c'è bisogno di dire che per Agostino il peccato è vera alienazione dell'uomo e che l'uomo non si ritrova se non trovando Dio.
La liberazione dal peccato avviene per opera di Colui che non ha conosciuto il peccato: " Solo il Signore ci può liberare da questa schiavitù: egli che non la subì, ce ne libera; perché egli è l'unico che è venuto in questa carne senza peccato " 33; avviene nella giustificazione nella quale la remissione dei peccati è " piena e totale ", " piena e perfetta " 34 e l'uomo da servo del peccato diventa servo della giustizia: liber peccati, servus iustitiae 35. Ma mentre la remissione dei peccati è totale ed immediata, il rinnovamento interiore è vero e reale in quanto viene restaurata l'immagine di Dio nell'anima e operata la " deificazione " attraverso l'inabitazione dello Spirito Santo; è vero e reale, ma non perfetto: la nostra giustizia qui in terra è sempre imperfetta, la pretesa pelagiana dell'impeccantia non è conforme all'insegnamento della Scrittura 36. Perciò abbiamo bisogno di un'altra libertà.
3) Libertà dalle passioni disordinate. Questo bisogno deriva dal fatto che la nostra giustificazione, se è immediata in quanto alla remissione dei peccati, è progressiva in quanto al rinnovamento interiore 37. Resta infatti la lotta tra la carne e lo spirito, resta la infirmitas (la iniquitas è stata rimessa nel battesimo), che dev'essere curata per tutta la vita, restano le passioni disordinate che devono essere ricondotte all'ordine, affinché l'uomo possa vivere nella giustizia. Si sa, e Agostino lo afferma perentoriamente, solo il giusto è libero: solus iustus est liber 38. Perciò la libertà cresce col crescere della giustizia che qui vuol dire rettitudine morale, santità, ordine.
Dice parlando al suo popolo, dopo aver ricordato i crimini o peccati gravi quali l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, ecc.: " Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà; ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta. Perché, domanderà qualcuno, non è la libertà perfetta? Perché sento nelle mie membra un'altra legge in conflitto con la legge della mia ragione ". E subito dopo: " Libertà parziale, parziale schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà ". E poi ancora: " Siamo liberi, in quanto ci dilettiamo nella legge di Dio: è la libertà che ci procura questo diletto; dilectio enim delectat " 39.
Questa libertà s'identifica con la sanità dell'anima: ipsa sanitas est vera libertas, s'identifica, cioè, con l'equilibrio interiore che permette all'uomo di dominare le sue passioni e di farle rientrare nell'ordine. Perciò " la libera volontà sarà tanto più libera quanto più sarà sana e tanto più sana quanto più sarà sottomessa alla misericordia e alla grazia divina " 40.
Inutile dire che questa progressiva libertà è opera dell'uomo, ma è prima di tutto e soprattutto, opera della grazia adiuvante della cui necessità ha tanto scritto Agostino nella controversia pelagiana 41. Quella controversia egli la sostenne, e senza risparmio di tempo e di energie, non solo per conservare integro l'insegnamento della fede, ma anche per difendere la libertà dell'uomo, quella vera.
4) La libertà dalla legge. E' un tema caro a S. Paolo. Agostino, grande studioso delle lettere paoline, non poteva ignorarlo. Lo tratta infatti e con grande compiacenza. Scrive a proposito della giustificazione: " Giustificati gratuitamente per la sua grazia (Rom 3,24). Dunque non giustificati per la legge, non giustificati per la propria volontà, ma giustificati gratuitamente per la sua grazia. Non che ciò avvenga senza la nostra volontà, ma la nostra volontà si dimostra inferma davanti alla legge, perché la grazia guarisca la volontà, e la volontà guarita osservi la legge, non più soggetta alla legge, né bisognosa della legge " 42. Non bisognosa della legge: è l'eco delle parole della lettera prima a Timoteo: la legge non è fatta per il giusto, parole che Agostino commenta spesso 43. Spiega: " Non è lo stesso essere nella legge o sotto la legge; colui che è nella legge, opera in conformità ad essa; chi è sotto la legge, è costretto a muoversi secondo essa. Il primo è libero, il secondo è servo. Di conseguenza una cosa è la legge scritta e imposta al suddito, un'altra la legge accolta nell'anima da colui che non ha bisogno del precetto scritto " 44.
In un'opera tra le prime, scritta da presbitero, chiarisce che questa libertà - la libertà dalla legge - è propria di chi non vive più la propria vita, ma la vita di Cristo, ed è, come l'apostolo Paolo, in alto nella perfezione. Scrive infatti: " La legge non è posta per il giusto, cioè non gli è imposta quasi fosse sopra di lui. In realtà il giusto è nella legge piuttosto che sotto la legge, perché non vive di se stesso per il cui freno è imposta la legge. Per dir così, egli vive in qualche modo con la stessa legge quando vive giustamente con l'amore della giustizia e gode non del bene proprio e transitorio, ma del bene comune e stabile ". Porta l'esempio di S. Paolo che diceva di sé: Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (Gal 2,20), cui pertanto non si poteva imporre la legge, e conclude: " Chi oserebbe imporre la legge a Cristo che vive in Paolo? " 45.
In un'opera della maturità più brevemente: " La legge è buona... ma non è fatta per il giusto, perché questi non ha bisogno della lettera che l'atterrisca dato che si diletta della stessa giustizia " 46. Questa preziosa libertà, propria dei cristiani perfetti che hanno trasformato il dovere in bisogno e son divenuti legge a se stessi, è la preparazione di un'altra libertà che non è meno preziosa, che anzi, sotto l'aspetto teologico, lo è molto più.
5) La libertà dalla morte. Questo argomento ha tanta ampiezza e profondità che un breve accenno non può che impoverirlo. Si tratta della grande verità, vanto dei cristiani, della risurrezione. Agostino ne ha parlato molto, come catechista che spiega il Simbolo della fede al suo popolo 47, come pastore che commenta i grandi misteri cristiani 48, come teologo che precisa e illustra l'oggetto proprio del domma 49, come filosofo e apologeta che risponde alle difficoltà e difende l'insegnamento cristiano 50.
Qui basti l'enunziazione generale nei confronti della libertà: " La libertà piena e perfetta, dono del Signore che ha detto: Se il Figlio vi libererà, allora sarete veramente liberi (Gv 8,36), ci sarà quando non ci saranno più nemici, quando sarà distrutta l'ultima nemica che è la morte (1 Cor 15,26) " 51. La libertà piena dunque è la vittoria sulla morte.
Questo non vuol dire che lo spirito la raggiunge quando si sarà liberato dal corpo, come volevano i platonici, particolarmente Porfirio col suo sbandierato omne corpus fugiendum - contro questa opinione Agostino combatte con somma energia 52 -, ma vuol dire che sarà pienamente libero solo quando, nella risurrezione, si sarà rivestito non più del corpo corruttibile, quello che ne appesantisce il volo, bensì del corpo incorruttibile, il quale, anche se corpo, essendo spirituale e perciò docile ai suoi voleri, ne asseconda e ne perfeziona ogni movimento 53.
A questa sublime libertà ne va congiunta un'altra, l'ultima, la più alta.
6) La libertà dal tempo. Congiunta alla libertà dalla morte, ne è il compimento. Cristo, Verbo del Padre, è entrato nel tempo per rendere eterni coloro che vivevano nel tempo. " O Verbo - esclama Agostino dopo aver confrontato tempo ed eternità - o Verbo che esisti prima di ogni tempo, per mezzo del quale furono fatti i tempi, eppure nato nel tempo perché sei tu la vita eterna che chiami gli uomini viventi nel tempo e li rendi eterni " 54. Li rendi eterni. Proprio così. Quale libertà sia questa, lo intende, sia pure nel barlume della ragione e della fede, chiunque sente il logorio del tempo, che risucchia ed annulla la vita, e ne geme. Che cos'è appunto la vita nel tempo? Una voce tra due grandi silenzi, tra il silenzio del passato che non è più e il silenzio dell'avvenire che non è ancora 55. Vivere nel tempo è un continuo morire. Solo l'eternità è vita. Qual è dunque la via per vivere senza morire? Trascendere il tempo: ut ergo et tu sis trascende tempus. Ma chi può trascenderlo senza il Cristo? 56 " Dobbiamo dunque amare Colui per mezzo del quale fu creato il tempo, se vogliamo essere liberati dal tempo e immersi nell'eternità, dove non ci sarà più alcun movimento temporale " 57. Chi vuol sapere quanto Agostino abbia amato questa libertà, legga il molto che ha scritto sul tempo 58.
Dal poco che si è detto appare chiaro che il vescovo d'Ippona fu della libertà cristiana un cantore innamorato e un teologo acuto. Se si vuole una conferma, la si può trovare nella visione della storia.

4. La storia vista in chiave di libertà

Essa si svolge, come ho già accennato, tra la libertas minor e la libertas maior ed ha per oggetto il peccato, le passioni (disordinate), la morte, secondo che potevano non esserci, non possono non esserci, non potranno esserci. Tre momenti essenziali senza i quali non si comprende la storia.
All'inizio dei tempi l'uomo ebbe una grande libertà anche se non somma. Essa consisteva essenzialmente in tre invidiabili poteri: 1) poter non peccare; 2) poter non avere passioni ribelli alla ragione; 3) poter non morire.
Col peccato di Adamo, incommensurabilmente grande, seguì la perdita di quei poteri e di quella libertà. L'uomo per giusto giudizio di Dio si ritrovò con tre mali: 1) il non poter agire bene (in ordine alla salvezza); 2) il non poter non sentire il disordine delle passioni; 3) il non poter non morire. Della libertà che aveva ricevuto non restava che l'ombra. Ma Cristo è venuto per restituirla, anzi per portare l'uomo " oltre l'antico onor " sia pure, come si è accennato, col metodo della progressività.
Perciò alla fine dei tempi l'uomo riavrà nel Cristo una libertà maggiore, quella somma, cioè: 1) il non poter peccare; 2) il non poter sentire passioni disordinate; 3) il non poter morire.
I testi agostiniani più sintetici sono due. " La prima libertà del volere era poter non peccare; l'ultima sarà molto maggiore: non poter peccare. La prima immortalità era poter non morire; l'ultima sarà molto maggiore: non poter morire. La prima potestà della perseveranza era poter non abbandonare il bene; l'ultima felicità della perseveranza sarà non poter abbandonare il bene " 59. " Come la prima immortalità, che l'uomo perdette peccando, fu poter non morire, così il primo libero arbitrio fu di poter non peccare, l'ultimo di non poter peccare. Sarà infatti inamissibile la volontà del bene e dell'equità, com'è inamissibile quella della felicità... Dunque quella città [celeste] avrà una volontà libera, una in tutti e inseparabile in ciascuno; liberata da ogni male e ricolma di ogni bene... " 60.
Non si può negare che la concezione agostiniana della libertà - libertà di scelta e libertà dal male - sia davvero grandiosa e che, penetrando nei tessuti della persona umana e della storia, esprima l'antropologia cristiana nel modo più alto e più bello, ed offra il valido fondamento per ogni altra libertà, compresa quella sociale ed economica. Ma occorre seguirlo ancora. Questa volta non nell'esposizione ma nella difesa della sua concezione.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:40
CAPITOLO QUINTO

LA NATURA DELLA LIBERTA'

Da quanto si è detto or ora sulla libertas minor e sulla libertas maior risulta chiaro che la perdita del posse peccare non è una perdita ma un guadagno: non toglie la libertà, ma la perfeziona, e a tal punto che la rende piena e totale. Ma in che consiste dunque la libertà secondo Agostino? La risposta non può essere che articolata. Certamente, non consiste nel poter peccare e poter non peccare. Questa era l'opinione di Giuliano, cui Agostino risponde per le rime. Ma la questione non è chiusa. Ci si chiede: consiste forse nel potere della volontà di volere o non volere, come si è detto sopra parlando della libertà di scelta, o consiste nel volere il bene con tanta forza e in modo tale da non poterlo non volere?
Anche qui come altrove il nostro dottore è per l'esclusione dei facili aut aut. Alla questione così posta risponde ricusando, ancora una volta, di scegliere. Non ha scelto tra prescienza e libertà, non ha scelto tra libertà e grazia, non sceglie neppure qui: proposta un'importante ( e necessaria) distinzione, sostiene che l'uno e l'altro è vero: è libertà il potere di volere e non volere, ma è anche libertà il volere il bene senza il potere di non volerlo. Anzi questa è la forma più alta ed ultima della libertà perché pienamente conforme alla natura stessa della volontà, la quale, creata per amare il bene, non può non trovare la sua perfezione nel volerlo in modo pieno, totale, irreversibile.

1. La libertà non consiste nella possibilità di peccare o di non peccare

Era la nozione che ne dava ripetutamente Giuliano. Ecco le sue parole: " La libertà dell'arbitrio, con la quale l'uomo è emancipato da Dio, consiste nella possibilità di commettere il peccato o di astenersi dal peccare " 1. Giuliano v'insiste: " L'uomo non poteva esser capace del proprio bene, se non fosse stato capace anche del male " 2. In questa definizione Agostino trova due gravi difetti.
Il primo riguarda il particolare dell'uomo che con il libero arbitrio sarebbe emancipato da Dio. Egli osserva: " Dici l'uomo emancipato da Dio, e non ti rendi conto che con l'emancipazione si ottiene che l'emancipato non appartenga alla famiglia del padre " 3. Osservazione breve ma significativa. Il libero arbitrio non rende l'uomo estraneo a Dio, indipendente dalla sua azione o, peggio ancora, in concorrenza con essa. La concezione agostiniana della libertà e quella di Giuliano erano davvero molto lontane. Questo fatto rendeva incomprensibile il discorso sulla grazia. Lo vedremo nelle pagine seguenti.
Il secondo grave difetto toccava la definizione stessa della libertà: " T'inganna, gli dice Agostino, la definizione che hai dato del libero arbitrio. Hai detto: 'Il libero arbitrio non è altro che la possibilità di peccare e di non peccare...'. Con questa definizione tu togli il libero arbitrio a Dio... Inoltre gli stessi santi nel regno di Lui perderebbero, poiché non possono peccare, il libero arbitrio " 4. E altrove: " ...tu ritieni che appartenga alla natura del libero arbitrio potere l'uno e l'altro, cioè peccare e non peccare, e pensi che per questo l'uomo sia stato fatto ad immagine di Dio. Eppure Dio non può l'uno e l'altro. Infatti nessuno, neppure se pazzo, dirà mai che Dio possa peccare, né tu osi dire che Dio non ha il libero arbitrio..., in Dio, che non può peccare, il libero arbitrio è sommo " 5.
La forza dell'argomentazione agostiniana sta nei due esempi addotti: Dio e i beati. Ma hanno valore questi esempi? In che senso Dio è libero? In che senso lo sono i beati? Sulla libertà divina non ci sono né dubbi né difficoltà quando si tratti delle opere ad extra, per esempio l'opera della creazione. Intorno alla creazione si sa che Agostino difese tenacemente e acutamente la creazione nel tempo e la piena libertà di Dio nel creare: Dio ha creato perché ha voluto, e poteva non volere senza per questo diventare mutabile. Lo fece contro i neoplatonici che sostenevano e la creazione ab aeterno e la necessità della creazione. Dio non crea, sentenzia in contrario Agostino, per indigentiae necessitatem, ma per abundantiam beneficentiae 6; e crea liberamente, nel tempo, anzi col tempo. Nella Città di Dio spiega, con profonda intuizione metafisica, come ciò non appaia impossibile anche tenuta presente l'immutabilità divina 7.
Ma la difficoltà nasce dal secondo esempio. In che senso i beati sono liberi? Occorre premettere che contro la beatitudine ciclica proposta dai neoplatonici Agostino difese con forza due affermazioni di fondo: 1) la beatitudine non è vera se non è eterna; 2) i beati non sono beati se non sanno che la beatitudine raggiunta è inamissibile; se invece la beatitudine fosse amissibile ed essi lo ignorassero, la loro beatitudine sarebbe fondata sull'ignoranza, che è un assurdo 8. Ma posti questi due princìpi dov'è la libertà dei beati? Qui per spiegarsi bisognava fare alcune distinzioni.

2. Distinzioni necessarie e importanti

La prima corre tra la libertà di voler essere beati e la libertà di volere il bene per giungere alla beatitudine: quella è congenita all'uomo ed è assolutamente inamissibile, questa no; quella infatti non l'abbiamo perduta neppure col peccato - " la volontà di esser beati non l'abbiamo perduta neppure dopo aver perduto la felicità " 9 -, questa abbiamo bisogno che ci venga restituita dalla grazia di Cristo. " Se cerchiamo il libero arbitrio dell'uomo a lui congenito e assolutamente inamissibile, è quello con il quale tutti vogliono essere beati, anche coloro che non vogliono ciò che conduce alla beatitudine " 10. E poco dopo, insistendo sullo stesso concetto, scrive: " La libertà immutabile della volontà, con la quale l'uomo è stato creato ed è creato, è quella per cui tutti vogliamo essere beati e non possiamo non volerlo; ma questa libertà non basta perché ognuno sia beato, perché non è congenita all'uomo l'immutabile libertà della volontà con la quale voglia e possa agir bene come gli è con genita quella di voler essere beato: questo lo vogliono tutti, anche quelli che non vogliono agire rettamente " 11.
A questa prima distinzione ne segue una seconda che riguarda la libertà del merito e la libertà del premio. E' molto importante. La enuncia il nostro dottore al termine della Città di Dio. " Dio non può peccare per natura, ma la creatura partecipe di Dio, riceve da Lui il non poter peccare. Nel dono divino doveva osservarsi come una graduazione: prima il libero arbitrio con il quale l'uomo potesse non peccare, poi, per ultimo, il libero arbitrio con il quale non potesse peccare; quello per acquistare il merito, questo per ricevere il premio: illud ad comparandum meritum, hoc ad recipiendum praemium " 12. Va osservato che per Agostino tra la libertà del merito e la libertà del premio c'è una profonda differenza: quella richiede il potere di volere e di non volere ed è propria dell'uomo in via verso la beatitudine, questa propria dell'uomo che ha raggiunto la beatitudine. " Si deve ritenere piuttosto - risponde a Giuliano, sempre sul tema della natura della libertà - che l'uomo sia stato creato all'inizio capace del bene e del male, affinché, amando il bene, acquistasse il merito col quale fosse poi capace o del solo bene o del solo male " 13, secondo i debiti fines delle due città.
Alla seconda distinzione se ne aggiunge quindi una terza. Agostino la propone sempre in polemica con Giuliano sulla natura della libertà: riguarda la virtus minor e la virtus maior; distinzione configurata semanticamente a quella di libertas minor e libertas maior che abbiamo visto. Giova riportare le sue parole: " Quando ci sarà concesso di non allontanarci dal Signore perché non potremo non vederlo, neppure allora vivremo senza virtù... Ora non ci sarebbe in noi la virtù altrimenti che in questo modo: non avere la volontà cattiva e avere il potere di averla; ma in merito di questa virtù minore doveva esserci data, come premio, la virtù maggiore, quella di non avere la volontà cattiva e non avere il potere di averla ".
Dopo queste parole Agostino esclama: O desideranda necessitas! 14. Esclamazione che dice da sola quanta importanza egli annettesse a questa libertà definitiva, che è necessità, perché la volontà vuole il bene senza poter volere il male; ma è una necessità sommamente desiderabile, perché con questa l'uomo raggiunge la perfezione ultima, e perciò la libertà piena. " Allora saremo più felicemente liberi - felicius liberi erimus - quando non potremo servire al peccato, come lo stesso Dio; ma noi per sua grazia, Egli invece per sua natura " 15. La nostra libertà dunque è tanto più perfetta quanto più è vicina a quella di Dio: la libertà di volere il bene e il male è una condizione provvisoria, una preparazione a quella con cui potremo volere solo il bene.

3. Alcune considerazioni

Non si può chiudere questo argomento senza fare alcune considerazioni, almeno tre.
1) La prima riguarda la virtù minore a cui è legato il merito. Questo e quella abbracciano tutta la vita presente. Si sa che Agostino difese il merito del giustificato - lo si è detto altrove 16 e si tornerà a dirlo 17 -; ma il merito suppone nella volontà il potere di volere e di non volere, volere il bene e poter non volerlo. Tutto quello che ha detto contro i manichei 18, lo conferma qui contro i pelagiani. Le prime opere devono essere capite, quanto sia necessario, alla luce delle ultime. Ora nell'ultima, anzi nel libro ultimo dell'ultima opera restata incompiuta, il vecchio maestro dice esplicitamente che la virtù minore suppone nella volontà il non volere il male ma unito al potere di volerlo: non dire di no al bene ma essere in grado di dirlo o, in forma positiva, dire di sì col potere di dire di no.
Per usare una distinzione posteriore, si può dire che per acquistare il merito (o il demerito) non basta la libertà dalla coazione; si richiede anche la libertà dalla necessità. Se ne deve concludere che quando Giansenio sostiene che per meritare o demeritare basta la prima libertà e non c'è bisogno della seconda 19, non interpreta rettamente il pensiero agostiniano, anzi, occorre pur dirlo, lo tradisce.La Chiesa condannandone questa affermazione - è la terza delle cinque proposizioni condannate 20 - è restata fedele alla sua propria dottrina e a quella del vescovo d'Ippona.
Se è vero che nelle prime opere questi sembra identificare l'atto libero con quello volontario, ciò dev'essere interpretato, alla luce delle ultime, nel senso che la volontà, non potendo essere interiormente necessitata che dal bene assoluto e beatificante - la desideranda necessitas -, resta sempre, fuori del possesso di quel bene, padrona dei suoi atti, sempre in potere di volere o non volere. La grazia non toglie mai questo potere, ma lo rispetta e lo fa servire con la " liberale soavità " dell'amore 21 al bene della salvezza, cioè al raggiungimento della libertà maggiore, quella ultima e definitiva. La permanenza qui in terra della libertà di scelta è la ragione dell'utrumque su cui tanto insiste Agostino, e di cui si è parlato 22.
2) La seconda osservazione riguarda la nozione della beatitudine che non può essere vera se non è consapevolmente eterna. Questo vuol dire che i beati possiedono il bene beatificante, che è Dio, e lo amano in modo da non poterlo non amare. In caso contrario, cioè se essi, per ipotesi, conservassero il potere di allontanarsi da Dio, si ricadrebbe nel concetto platonico della beatitudine ciclica e, per la legge dei contrari, nella possibilità del ritorno a Dio del diavolo, che era, secondo quanto riteneva Agostino, l'errore di Origene, che la Chiesa, egli dice, ha giustamente riprovato 23. Perciò a Giuliano che insisteva nella sua definizione della libertà - poter peccare e non peccare -, rimprovera che in questo modo egli finisce per rinnovare l'errore di Origene: Origenis nobis instaurabis errorem 24.
Interessante! L' " aristotelico " Giuliano 25 sembra inclinare o aderire addirittura all'opinione platonica della beatitudine ciclica, mentre il " platonico " Agostino, in nome della ragione (e della fede), ne è decisamente contrario e la combatte. Concepisce infatti l'ultima libertà, quella piena e definitiva, come impossibilità di volere il male. Le due nozioni della libertà, e perciò le due antropologie, erano molto lontane. Questa diversità non poteva non influire sulle discussioni intorno alla grazia. Quando Agostino parla di grazia Giuliano intende fato 26: sono agli antipodi. Ma l'opposizione è prima di tutto teologica, non filosofica: l'impossibilità di peccare per i beati è per Agostino una conclusione filosofica, sì, ma è prima di tutto un dato teologico.
3) La terza osservazione infine riguarda le radici metafisiche della peccabilità e dell'impeccabilità: quella deriva dalla creazione dal nulla, questa dal dono della grazia. Non già che l'uomo pecchi perché creato dal nulla (questa era l'affermazione che Giuliano attribuiva ad Agostino e che questi respingeva energicamente), ma può peccare perchè creato dal nulla 27. Infatti perché creato dal nulla, è limitato, mutabile, defettibile, e perciò può peccare. L'impeccabilità pertanto, cioè l'indefettibile determinazione della volontà nel bene, non può essere che un dono della grazia la quale rende la creatura mutabile, l'uomo, partecipe dell'immutabilità divina. Questo tema del passaggio, per dono di grazia, dal mutabile all'immutabile è tanto frequente nel vescovo d'Ippona da rappresentare una sintesi profonda del suo pensiero filosofico, teologico e spirituale 28.

4. Ingranaggi della libertà

Sono delicati. Riguardano l'intelletto e la volontà e prendono in considerazione tutto ciò che influisce sull'uno e sull'altra. Sull'intelletto influisce, negativamente, l'ignoranza, il dubbio, l'incertezza; sulla volontà la debolezza, il timore, le passioni disordinate. " Gli uomini non vogliono fare ciò che è giusto per due ragioni: e perché rimane occulto se sia giusto e perché non è dilettevole ". " Infatti - continua Agostino - fortemente noi vogliamo qualcosa quanto meglio conosciamo la grandezza della sua bontà e quanto più ardentemente ci diletta ". E conclude: " Ignoranza dunque e debolezza sono i vizi che impediscono alla volontà di determinarsi a fare un'opera buona o ad astenersi da un'opera cattiva: Ignorantia igitur et infirmitas vitia sunt, quae impediunt voluntatem " 29.
L'insistenza di Agostino è sul " vizio " della debolezza 30; è soprattutto questa che impedisce all'uomo di volere il bene. " Infatti - scrive il nostro dottore - il libero arbitrio non vale che a peccare 31, se rimane nascosta la via della verità. E quando comincia a non rimanere più nascosto ciò che si deve fare e dove si deve tendere, anche allora, se tutto ciò non arriva altresì a dilettare e a farsi amare, non si agisce, non si esegue, non si vive bene: ...nisi etiam delectet et ametur, non agitur, non suscipitur, non bene vivitur " 32.
Questa insistenza è particolarmente significativa. Essa dice che Agostino, pur richiedendo, com'era ovvio, la conoscenza della verità perché un atto sia libero, mette l'accento sul dominio della volontà la quale opera per amore. Senza l'amore e la dilettazione l'uomo non opera il bene. Nell'atto libero la volontà resta al centro: è la sua decisione che costituisce l'atto buono o cattivo quando questo, si capisce, sia illuminato dalla luce dell'intelletto. Il particolare è degno di nota, perché determina la dottrina della grazia adiuvante, concepita da Agostino soprattutto come inspiratio dilectionis 33.
Infatti su questi ingranaggi della libertà umana scende la grazia; scende al solo scopo di custodirla, rafforzarla, perfezionarla. Lasciato a se stesso il libero arbitrio viene meno e diventa servo del peccato: la grazia non solo lo libera dal peccato, se lo ha commesso - la grazia della giustificazione -, ma lo aiuta a non commetterne: grazia adiuvante, dicevo, o, come diranno gli scolastici, grazia attuale. Scrive Agostino: " Che diventi noto quello che era nascosto e soave quello che non dilettava è dono della grazia di Dio, la quale aiuta le volontà degli uomini " 34.
Questa osservazione ci serve da ponte per passare, senza soluzione di continuità, dal tema della libertà, della quale Agostino, come si è detto cominciando, è filosofo e teologo insieme, al tema della grazia, della quale è, per antonomasia, il dottore.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:41

1 - Qui ci interessa non la dottrina dei manichei, ma quella di Ag. Del resto che egli conoscesse bene quella dottrina almeno come veniva proposta in Africa non può essere messo in dubbio.

2 - Retract. 2, 15, 1.

3 - De haer. 46.

4 - De duabus anim. 14, 2.

5 - En. in ps. 140, 10.

6 - Confess. 5, 18, 10.

7 - De lib. arb. 1, 2, 4.

8 - De duabus anim. 9, 11.

9 - Confess. 7, 3, 5.

10 - Confess. 8, 10, 22.

11 - Confess., NBA I, p. 241, nota 16.

12 - En. in ps. 31, 2, 16.

13 - En. in ps. 140, 11.

14 - Sul significato di terminavi (Retract. 1, 9, 1) cf. Introd. gen. a Dialoghi, NBA III/2, pp. VII s.

15 - Retract. 1, 9, 1.

16 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CXCI- CXCVII.

17 - De lib. arb. 1, 2, 4.

18 - De lib. arb. 1, 1, 1.

19 - Vedi sotto p. 3, c. 5, par. 3.

20 - De lib. arb. 3, 1, 3.

21 - De lib. arb. 3, 3, 7.

22 - De sp. et litt. 31, 53.

23 - De lib. arb. 3, 3, 7.

24 - De lib. arb. 3, 3, 8.

25 - De lib. arb. 3, 17, 49.

26 - De lib. arb. 3, 18, 50.

27 - Retract. 1, 9, 3-6; 1, 15, 2- 4.

28 - De duabus anim. 12, 17.

29 - De duabus anim. 10, 14.

30 - Ibidem.

31 - De duabus anim. 11, 15.

32 - Ibidem.

33 - Ibidem.

34 - Vedi sotto c. 5, par. 3.

 

1 - Cf. AMAND D., Fatalisme et liberté dans l'antiquité grecque..., Paris 1945. Per un riassunto cf. FAGGIN G., Fato, Fatalismo, in: Encicl. Filos., II, 1220-1223.

2 - Confess. 6, 5, 8.

3 - Confess. 4, 3, 4.

4 - En. in ps. 140, 9.

5 - De civ. Dei 5, 1.

6 - Ibidem.

7 - PLOTINO, Enn. 2, 3, 7.

8 - Confess. 4, 2, 3.

9 - Confess. 4, 3, 4.

10 - Confess. 4, 3, 5-6.

11 - Confess. 7, 6, 9.

12 - Confess. 7, 6, 10.

13 - Cf. CICERONE, De divin. 2, 45, 95.

14 - De div. qq. 83, q. 45.

15 - De doctr. christ. 2, 21, 32-23, 36.

16 - De Gen. ad litt. 2, 17, 36- 37.

17 - De civ. Dei 5, 1-7.

18 - De doctr. christ. 2, 22, 32.

19 - Il termine era corrente nella letteratura attinente l'astrologia: i latini, come qui Ag., l'hanno trascritto. Significa tutte le conseguenze della posizione degli astri. Cf. BA 48, p. 611.

20 - De Gen. ad litt. 2, 17, 35.

21 - Ibidem.

22 - De civ. Dei 5, 1.

23 - De civ. Dei 5, 1-7.

24 - De civ. Dei 5, 7.

25 - De civ. Dei 5, 8.

26 - De civ. Dei 14, 8-9.

27 - Ep. 167, 2, 4; 104, 4, 13.

28 - Serm. 150, 5-8; 156, 7.

29 - De civ. Dei 5, 8.

30 - De civ. Dei 5, 1.

31 - De civ. Dei 5, 8.

32 - SENECA, Ep. 107, 11.

33 - Odissea 18, 136 (trad. CICERONE, De fato, fr. 4).

34 - De civ. Dei 5, 8.

35 - De civ. Dei 5, 10.

36 - De civ. Dei 5, 9, 4.

37 - Ibidem.

38 - Vedi sotto p. 2, cc. 2-4.

39 - De lib. arb. 3, 4, 9.

40 - De lib. arb. 3, 4, 10.

41 - De lib. arb. 3, 4, 11.

42 - Ibidem.

43 - Cf. De an. et eius or. 1, 7, 7; De praed. sanct. 10, 19. Ne ho parlato sopra (Prelim. 9) e il discorso tornerà appresso (p. 3, c. 2, par. 1).

44 - De fato 6, 11; De div. 2, 48-54; De nat. deorum 1, 6, 15; 2, 67, 168; 3, 1, 1.

45 - De civ. Dei 5, 9, 1.

46 - De civ. Dei 5, 9, 2.

47 - De civ. Dei 5, 9, 4.

48 - De civ. Dei 5, 9, 2.

49 - Ibidem.

50 - De civ. Dei 5, 9, 3.

51 - Ibidem.

52 - De civ. Dei 5, 10, 2.

53 - Ibidem.

54 - Vedi il mio art. La teologia della giustificazione in S. Ag. e Lutero, in: Martin Lutero (Atti del Convegno intern. del V cent. della nascita), Roma 1984, pp. 158-159.

55 - Cf. art. cit.

56 - Contra duas ep. pelag. 2, 5, 10.

57 - Contra Iul. 4, 8, 46.

58 - PROSPERO, Ep. 225 [tra le agostiniane].

59 - Cf. il mio art. A proposito di predest.: S. Ag. e i suoi critici moderni, in: Divinitas 7 (1963), pp. 243-284.

 

1 - Vedi sotto p. 2, cc. 2-3.

2 - Confess. 10, 29, 40. 31, 45. 37, 60.

3 - De dono pers. 20, 53.

4 - De pecc. mer. et rem. 2, 5, 5.

5 - De pecc. mer. et rem. 2, 5, 5.

6 - De sp. et litt. 13, 22.

7 - Contra litt. Petil. 2, 84, 186.

8 - Retract. 1, 23, 2.

9 - Opus imp. c. Iul. 1, 134.

10 - De corrept. et gr. 2, 4.

11 - Retract. 2, 46.

12 - De gr. et lib. arb. 2, 2.

13 - De gr. et lib. arb. 4, 7.

14 - De gr. et lib. arb. 2, 3.

15 - De gr. et lib. arb. 2, 4.

16 - Ibidem.

17 - Ibidem.

18 - De gr. et lib. arb. 3, 5.

19 - Ep. 214, 2.

20 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, p. XLVIII.

21 - De gestis Pel. 3, 5.

22 - Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CLV-CLXXXIII.

23 - Contra duas ep. pelag. 1, 2, 5.

24 - Ep. 157, 2, 10.

25 - JASPERS K., I grandi filosofi, Milano 1964 (trad. ital.), pp. 413-414.

26 - Opus imp. c. Iul. 1, 78.

 

1 - Confess. 8, 5, 10.

2 - Contra duas ep. pelag. 1, 2, 5.

3 - De corrept. et gr. 12, 33.

4 - De corrept. et gr. 12, 35.

5 - In Io. ev. tr. 41, 9.

6 - De corrept. et gr. 12, 35.

7 - Opus imp. c. Iul. 5, 61.

8 - Opus imp. c. Iul. 6, 12.

9 - De civ. Dei 22, 30, 2.

10 - Serm. 134, 1- 4; 346, 2; De lib. arb. 2, 14, 37; ecc.

11 - Contra duas ep. pelag. 1, 2, 5; De corrept. et gr. 1, 2; 12, 35; Opus imp. c. Iul. 1, 84-89; In Io. ev. tr. 41, 11-13; ecc.

12 - De serm. Dom. in m. 2, 9, 35-11, 38; Ep. 130, 21; Serm. 56, 14; 57, 10; 58, 11; 59, 8; 182, 4; ecc.

13 - Serm. 134, 2.

14 - Contra duas ep. Pel. 1, 2, 5. Giuliano riporta tutto il paragrafo.

15 - Opus imp. c. Iul. 1, 87-88.

16 - Cf. il mio art. S. Agostino, in: La mistica, Città Nuova ed., Roma 1984, I, p. 350.

17 - De serm. Dom. in m. 1, 9, 35-11, 38; De doctr. christ. 2, 7, 9. 11; Serm. 340.

18 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CXLII-CL.

19 - Ep. 167, 6, 19.

20 - De doctr. christ. 1, 35, 39; 3, 10, 15; De cath. rud. 4, 8; Serm. 350.

21 - De nat. et gr. 65, 78.

22 - Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CXCI-CXCVIII.

23 - Ep. 105, 2, 10.

24 - De lib. arb. 2, 13, 37.

25 - De ord. 2, 6, 26; De mor. Eccl. cath. 1, 2, 3.

26 - Ep. 118, 32.

27 - Serm. 51, 5, 6.

28 - De serm. Dom. in m. 2, 3, 14; Confess. 6, 4, 6.

29 - De quant. an. 7, 12.

30 - In Io. ev. tr. 41, 9.

31 - Cf. De civ. Dei 21, 25; Introd. gen. a La città di Dio, NBA V/1, pp. LXXXIX-XC.

32 - In Io. ev. tr. 41, 4.

33 - In Io. ev. tr. 41, 5.

34 - De pecc. mer. et rem. 2, 7, 9.

35 - In Io. ev. tr. 41, 8.

36 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CXXXII-CL.

37 - Ibid., pp. CXLII-CL.

38 - Serm. 161, 9.

39 - In Io. ev. tr. 41, 10.

40 - Ep. 167, 2, 8.

41 - Cf. Introd. gen a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. XL-XLVI, CLXVIII-CLXXVI.

42 - De sp. et litt. 9, 15.

43 - De sp. et litt. 20, 16; Exp. ep. ad Gal. 17; C. Faustum man. 15, 8; En. in ps. 1, 2; Serm. 11, 1; ecc.

44 - En. in ps. 1, 2.

45 - Exp. ep. ad Gal. 17.

46 - C. Faustum man. 15, 8.

47 - Serm. 212- 215.

48 - Serm. 225-260.

49 - Serm. 361- 362.

50 - De civ. Dei 22, 3-29; cf. 13, 16-18; 20, 20-21. 30.

51 - In Io. ev. tr. 41, 13.

52 - Cf. Serm. 241, 7-8; 242, 6.

53 - De civ. Dei 22, 21.

54 - En. in ps. 101, s. 2, 10.

55 - Cf. il mio art. Il temporale e l'eterno nella spiritualità di S. Ag., in: Rivista di spiritualità 8 (1954), pp. 431- 452.

56 - In Io. ev. tr. 38, 10.

57 - En. in ps. 99, 7.

58 - Confess. 11; De civ. Dei 13.

59 - De corrept. et gr. 12, 33.

60 - De civ. Dei 22, 30, 4.

 

1 - Opus imp. c. Iul. 1, 78; 1, 81- 82.

2 - Opus imp. c. Iul. 5, 58.

3 - Opus imp. c. Iul. 1, 78.

4 - Opus imp. c. Iul. 6, 10.

5 - Opus imp. c. Iul. 5, 38.

6 - De Gen. ad litt. 1, 7, 13.

7 - De civ. Dei 12, 17.

8 - De civ. Dei 12, 21, 1-2. 21, 17.

9 - De civ. Dei 22, 30, 3.

10 - Opus imp. c. Iul. 6, 11.

11 - Opus imp. c. Iul. 6, 12.

12 - De civ. Dei 22, 30, 3.

13 - Opus imp. c. Iul. 5, 58.

14 - Opus imp. c. Iul. 5, 61; cf. De perf. iust. hom. 4, 9:...numquam peccandi voluntaria felixque necessitas.

15 - Opus imp. c. Iul. 6, 19.

16 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CLIII- CLIV.

17 - Vedi sotto p. 2, c. 8.

18 - Vedi sopra p. 1, c. 1.

19 - GIANSENIO, Augustinus, t. 2: De statu naturae lapsae 4, 25; t. 3: De gratia Christi 6, 24; 8, 19.

20 - DS 2003.

21 - Vedi sotto p. 2, c. 4.

22 - Vedi sopra p. 1. c. 3.

23 - De civ. Dei 21, 17: Sed illum... non immerito reprobavit Ecclesia.

24 - Opus imp. c. Iul. 6, 10.

25 - Cf. Contra Iul. 3, 2, 7.

26 - Vedi sopra p. 1, c. 2, par. 4.

27 - Opus imp. c. Iul. 5, 38-39. 54. 60.

28 - Cf. il mio art. Il temporale e l'eterno nella spiritualità di S. Ag., in: Rivista di spiritualità, 8(1954), pp. 431- 452.

29 - De pecc. mer. et rem. 2, 17, 26.

30 - Sul concetto di " vizio ", che non vuol dir sempre peccato, ma spesso imperfezione, difetto, male, impedimento, cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, p. CLXXXI.

31 - Su questa espressione cf. la nota 5 al De sp. et litt., NBA XVII/1, p. 259.

32 - De sp. et litt. 3, 5.

33 - Contra duas ep. Pel. 4, 5, 11.

34 - De pecc. mer. et rem. 2, 17, 26.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:42

PARTE SECONDA

IL TEOLOGO DELLA GRAZIA

Se la libertà è il primo grande tema della salvezza, ad esso occorre aggiungere il secondo: la grazia. Della grazia - e precisamente della sua natura propria e della necessità -, si è parlato a lungo nell'Introduzione generale al vol. XVII; ma si è avvertito anche in quel luogo che il discorso non era terminato. Infatti restavano ancora due aspetti da dover prendere in considerazione, quelli che toccano più da vicino e investono direttamente proprio la libertà: l'efficacia dell'azione divina e la gratuità del dono della salvezza. Parleremo qui dell'uno e dell'altro: l'uno e l'altro occupano il centro della controversia pelagiana e ne decidono le sorti.

I

L'EFFICACIA DIVINA DELLA GRAZIA

Questo argomento, tra i più difficili della teologia, per non lasciar fuori nessuna delle preoccupazioni dominanti del vescovo d'Ippona può essere articolato così: fondamento biblico e liturgico dell'azione divina della grazia, significato dell'espressione agostiniana: voluntas Dei semper invicta est, potere di Dio sulla libertà dell'uomo, rapporto tra grazia e libertà, prospettiva di conciliazione tra l'una e l'altra. Per illustrare meglio, poi, il pensiero agostiniano si può fare un accenno ai diversi sistemi scolastici che, in un modo o in un altro, si richiamano a lui.

CAPITOLO PRIMO

FONDAMENTO BIBLICO E LITURGICO DELL'AZIONE DIVINA DELLA GRAZIA

Come al solito Agostino si appella alla Scrittura, di cui vuol essere un interprete fedele, e, dopo la Scrittura, alla liturgia.

1. Scrittura

I testi biblici li raccoglie come in un manipolo insuperabile in un passo fortemente polemico che giova rileggere 1. I principali sono: Ez 11,19 e 36,26 - 27; Gen 32,40; Gv 6,44. 66; Prov 8,14; Fil 2,13; e soprattutto, per quanto riguarda la frequenza, un passo dei Proverbi secondo la traduzione dei Settanta: praeparatur voluntas a Domino (Prov 8,35 sec. LXX).
Scrive del primo testo: " Se Dio non potesse togliere anche la durezza del cuore, non direbbe per mezzo del Profeta: Toglierò loro il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne (Ez 11,19), parole che l'Apostolo interpreta del Nuovo Testamento (2 Cor 3, 2 - 3) " 2. Su questo testo torna quando espone la nozione della grazia efficace, quella appunto che toglie la durezza del cuore: " Quando dunque il Padre viene interiormente ascoltato e istruisce perché [chi ascolta] venga al Figlio, toglie il cuore di pietra e dà il cuore di carne come aveva promesso per mezzo della predicazione del profeta " 3.
Sulle altre parole di Ezechiele, più esplicite e più forti, Agostino fonda una delle sintesi più significative della sua concezione dei rapporti tra grazia e libertà. Scrive: " E' certo che siamo noi a fare, quando facciamo; ma è Lui a fare sì che noi facciamo, fornendo forze efficacissime alla volontà; infatti è Lui che dice: Farò sì che camminiate nelle mie leggi e osserviate e adempiate i miei precetti. Quando dice: Farò sì che voi facciate, che altro dice se non questo: Vi toglierò il cuore di pietra, con il quale non facevate, e vi darò un cuore di carne, con il quale facciate? E queste parole non significano forse: Vi toglierò il cuore duro, con il quale non facevate, e vi darò un cuore obbediente con il quale facciate? " 4.
Il testo di Giovanni: Nessuno può venire a me se non lo attira il Padre (Gv 6,44), insieme all'altro che viene poco dopo: ...se non gli è concesso dal Padre mio (Gv 6,65), costituisce il suo cavallo di battaglia e crea in lui la convinzione che la nozione della grazia che attira gli uomini a Cristo appartiene all'insegnamento cattolico, insegnamento che non si può negare senza cessare di essere cristiani. " La grazia non solo rivela la sapienza ma la fa pure amare; la grazia che non fa solo opera suasiva per quanto è buono, ma fa anche opera persuasiva. Non di tutti è infatti la fede tra coloro che ascoltano il Signore promettere per mezzo delle Scritture il regno dei cieli, o non con tutti riesce ad essere persuasiva l'opera suasiva che li invita ad andare da Colui che dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati. Di quali poi sia la fede e quali siano quelli che si lasciano persuadere ad andare da lui, l'ha ben indicato lui stesso là dove dice: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che lo ha mandato. E poco dopo, parlando di coloro che non credevano, dichiara: Vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio. Questa è la grazia che Pelagio deve riconoscere, se vuole non solo chiamarsi cristiano, ma anche essere cristiano " 5.
Un altro testo fondamentale da cui Agostino trae la dottrina della grazia che non esercita solo un'opera suasiva sulla volontà, ma anche un'opera persuasiva, cioè fa volere il bene, è quello della Lettera ai Romani 8, 14: quicumque spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei. Basti tra i tanti un solo commento. Rispondendo alla proposizione contestata a Pelagio: tutti sono governati dalla propria volontà, nota la profonda diversità tra queste parole e quelle dell'Apostolo, e scrive: " Certamente essere portati è più che essere governati: chi è governato agisce anche lui in qualche modo e viene governato proprio perché agisca in modo buono; chi invece è portato è quasi impossibile capire che faccia anch'egli qualcosa. Tuttavia è così tanto quello che la grazia del Salvatore presta alle nostre volontà che l'Apostolo non esita a dire: Tutti quelli che sono portati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio " 6. E tira una conclusione essenziale per la pietà cristiana, egli che nella teologia mai cessa di vedere in prospettiva la pietà. La conclusione è questa: " E nulla di meglio può fare in noi la volontà libera che lasciarsi portare da Colui che non può agire male e dopo che l'ha fatto non dubiti che a farlo è stata aiutata da Colui al quale si dice in un salmo: O mio Dio, la tua misericordia mi preverrà " 7.
Un ultimo testo - mi fermo solo ad alcuni - è quello, tra tutti il più forte, della Lettera ai Filippesi 2,13: E' Dio che suscita in noi il volere e l'operare secondo i suoi benevoli disegni. Ecco il commento agostiniano nel quale, come in quello riportato poco sopra, si mette in rilievo insieme la libertà e l'efficacia della grazia: " E' certo che siamo noi a volere, quando vogliamo; ma a fare sì che vogliamo il bene è Lui, e appunto di Lui è detto quello che ho riportato sopra: La volontà è preparata dal Signore; ed anche: Dal Signore saranno diretti i passi dell'uomo, e l'uomo vorrà seguire la sua via; e poi: E' Dio che opera in voi il volere " 8.

2. La liturgia

Sul potere dell'azione divina nella volontà dell'uomo tornerò nelle pagine seguenti, qui occorre indicare un'altra fonte della teologia agostiniana: la liturgia. Non fa meraviglia: è una fonte cui ricorre in tutta la controversia pelagiana. Sulla difficile questione del peccato originale argomenta insistentemente, lo si è visto, dalla verità del battesimo amministrato ai bambini (sacramento e rito 9); allo stesso modo sul tema della grazia argomenta dalle preghiere della Chiesa. La Chiesa prega, e pregando mostra e professa la sua fede. Non tace dunque nelle sue preghiere anche quando tace nei suoi discorsi. Quest'acuta osservazione la troviamo in una delle ultime opere. Parlando di quelli che non comprendono la dottrina sulla grazia perché non sono in grado di seguirne le discussioni, scrive: " ...magari però badassero di più a ripetere quelle preghiere che la Chiesa ha sempre custodito dai suoi inizi e sempre custodirà finché abbia fine ogni vita temporale! Infatti su questa verità che ora contro i nuovi eretici siamo costretti non solo a ricordare ma anche a custodire e difendere con vigore, la Chiesa non ha mai taciuto nelle sue preghiere, anche se in alcuni periodi, quando nessun avversario ve la costringeva, non ritenne opportuno esporla in discorsi. Quando infatti non si è pregato nella Chiesa per gli infedeli e i suoi nemici, perché credessero? " 10.
Infatti " se Dio non trasforma quelli che non vogliono in gente che invece vuole - si non facit volentes ex nolentibus -, perché mai la Chiesa prega secondo il precetto del Signore per i suoi persecutori? (Mt 5,44) ". Aggiunge l'argomento patristico: " Anche il santo Cipriano volle che s'intendesse così la nostra invocazione: Sia fatta la tua volontà...; cioè, sia fatta in coloro che gli hanno creduto e che sono come il cielo, così come anche in quelli che non credono e quindi sono ancora terra "; e conclude: " Che cosa dunque preghiamo per coloro che non vogliono credere se non che Dio operi in essi anche il volere?...Egli (l'Apostolo) prega per i non credenti, e che cosa prega se non che credano? " 11.
Rispondendo ai pelagiani aveva detto non meno fortemente: " Noi dunque preghiamo non solo per coloro che non vogliono, ma anche per coloro che resistono e si oppongono. Che cosa chiediamo allora se non che da nolenti diventino volenti, da dissenzienti diventino consenzienti, da nemici diventino amici? A chi lo chiediamo se non a Colui del quale è scritto: Dal Signore è preparata la volontà? " 12.
Anzi, si direbbe che questo solo argomento gli basta. Interessante il caso del monaco (?) cartaginese Vitale. Questi si trovava d'accordo con la linea dottrinale di quel gruppo di monaci adrumetani dei quali si è parlato 13: la grazia è la legge divina, la sua azione segue, non precede la decisione della volontà 14. Agostino gli risponde sviluppando l'argomento della preghiera: " Se dici questo, contraddici alle nostre preghiere. Ma allora afferma con tutta chiarezza che non dobbiamo pregare per coloro ai quali predichiamo il Vangelo, affinché credano, ma dobbiamo solo predicarlo. Tira fuori i tuoi argomenti contro le preghiere della Chiesa e quando ascolti il vescovo che dall'altare esorta il popolo di Dio a pregare per gli infedeli, affinché Dio li converta alla fede, e per i catecumeni, affinché ispiri loro il desiderio della rigenerazione, e per i fedeli affinché, mediante la sua grazia, siano perseveranti nella fede cristiana abbracciata, volgi pure in ridicolo espressioni così sante e di' che non metti in pratica le esortazioni del vescovo, che cioè tu non preghi per gli infedeli, affinché Dio li renda fedeli " 15. Insiste, poi, su questo argomento spiegando le petizioni del Padre nostro - Orationem Dominicam nosti... -, e conclude: " Dunque la nostra preghiera rivolta a Dio per loro [ gli avversari della fede] affinché abbraccino con la fede la verità rivelata, da essi impugnata, sarebbe un'azione inutile e finta anziché sincera, se non fosse opera della grazia convertire alla stessa fede la volontà di coloro che l'avversano. Sarebbe ugualmente un' azione inutile e finta, anziché sincera, rendere a Dio molte grazie quando alcuni di essi abbracciano la fede, se non fosse Lui a compiere in loro questo effetto " 16. Gli riassume infine in 12 brevi proposizioni l'insegnamento intorno alla grazia, si dichiara disposto ad intervenire di nuovo se trovasse su di esse qualche difficoltà, ma non può fare a meno di richiamarlo di nuovo al tema della preghiera chiedendogli non senza ironia: Numquid et orare prohibebis Ecclesiam pro infidelibus ut sint fideles?... 17.

3. Esempio di S. Paolo

Scrittura e liturgia sono dunque le due fonti agostiniane della dottrina teologica sull'azione della grazia che suscita in noi il volere e l'operare. Ad esse occorre aggiungere l'esempio d'un fatto centrale nella storia della Chiesa: la conversione di S. Paolo. Agostino v'insiste non solo per dimostrare, come vedremo, la gratuità del dono della grazia - prima della conversione Paolo aveva grandi meriti ma cattivi: merita eius erant magna, sed mala 18 -, ma anche l'efficacia: era persecutore e divenne apostolo. Bisogna dire che l'esempio fu ben scelto.
A Giuliano che, in difesa della sua concezione della libertà con la quale l'uomo è " emancipato " da Dio, sosteneva che nessuno dev'essere revocato dalla propria intenzione (cattiva) con un'azione necessitante della grazia, Agostino, lasciando cadere per il momento quel ulla necessitate che nascondeva l'incomprensione del problema da parte dell'avversario, gli risponde con l'esempio di S. Paolo: " ...perché l'apostolo Paolo, ancora Saulo, fremente di strage e sitibondo di sangue, viene richiamato dalla sua pessima intenzione con la violenta cecità del corpo e la terribile voce venuta dall'alto e abbattuto il persecutore viene costituito il futuro predicatore, più degli altri generoso nella fatica, di quel Vangelo che combatteva? ". A tale domanda non c'è altra risposta che questa: la grazia. Perciò Agostino conclude ammonendo: Agnosce gratiam 19.
Questa grazia riconobbero i primi fedeli, i quali, conosciuta la conversione di Saulo - colui che un tempo ci perseguitava, adesso annuncia la fede che un tempo cercava di distruggere -, glorificavano Dio a mio riguardo (Gal 1,24). " Perché mai, spiega Agostino, glorificavano Dio, se non era stato Dio a convertire il cuore di Paolo con la bontà della sua grazia...? " 20.
Inutile dire che pur insistendo sull'azione della grazia nella conversione dell'Apostolo, Agostino non dimentica ma rileva la presenza della libertà in Paolo, dico evidentemente della libertà di scelta. Vale la pena di riportare un passo dal De gratia et libero arbitrio. " Allora, se aveva questo merito nel male [perseguitare la Chiesa di Dio], gli fu reso bene per male; perciò prosegue col dire: Ma per grazia di Dio sono quello che sono. E per mostrare anche il libero arbitrio aggiunge poi: e la sua grazia in me non fu vana, ma mi sono adoperato più di tutti loro. Questo libero arbitrio dell'individuo egli lo sprona anche negli altri dicendo: Vi esortiamo a non ricevere invano la grazia di Dio. Ma in qual maniera li potrebbe esortare a questo, se ricevendo la grazia perdessero la propria volontà? " 21.
Ma di questo si è detto sopra a proposito del grande binomio 22. Qui la conversione di Paolo c'interessa per un'altra ragione, perché c'introduce in un argomento dei più difficili e più misteriosi (o forse il più difficile e più misterioso) di tutta la dottrina sulla grazia, argomento che costituiva, per di più, il contrasto profondo e pressoché irriducibile tra la mentalità pelagiana e quella agostiniana. Dire che quella era aristotelica, questa platonica, significa spostare inutilmente il discorso. La questione che interessava Agostino era teologica, non filosofica. E se per Giuliano era prima di tutto filosofica, questo era il suo grande errore che il vescovo d'Ippona non cessava di rimproverargli.

CAPITOLO SECONDO

IL POTERE DI DIO SULLA LIBERA VOLONTA' DELL'UOMO

Per trattare il difficile argomento è utile sgombrare il campo da facili quanto false interpretazioni, per proporre, poi, quella che ritengo conforme ai testi agostiniani. Il lettore vedrà se sia conforme anche all'insegnamento biblico e alla sana filosofia. Illustrerò pertanto due punti essenziali: 1) la volontà di Dio, che Agostino dichiara di essere sempre invitta, non riguarda la libera decisione della volontà umana, ma il piano generale della provvidenza divina, la quale fa rientrare nell'ordine chi se ne è liberamente allontanato; 2) la grazia, salva la libertà dell'uomo, può cambiare chiunque da nolente in volente, come avvenne appunto nella conversione di Paolo e, aggiungiamo noi, di Agostino. Vediamo il primo punto.

1. " Voluntas Dei semper invicta est "

Queste parole sono letteralmente di Agostino - le scrive nel De spiritu et littera 1 e nell'Enchiridion 2 -, e rispondono, senza dubbio, al suo pensiero generale; ma non hanno il significato che spesso viene loro attribuito. V'è chi ritiene che esse contengano la dottrina della irresistibilità della grazia, che sarebbe propria del vescovo d'Ippona, e perciò la negazione della libertà. Questa fu l'opinione di Giansenio 3 ed è l'opinione, anche oggi, di quanti leggono gli scritti del vescovo d'Ippona con gli occhi del vescovo d'Ypres. Tra questi c'è qualcuno che spiega benevolmente la cosa; press'a poco così: Agostino, fattosi assertore dei diritti di Dio, particolarmente del primato assoluto della volontà divina, si è lasciato tanto trasportare da questo nobile intento da sacrificare la libertà dell'uomo. Infatti, dicono, se la volontà divina è sempre invitta, quale posto può restare per il libero arbitrio? La risposta è evidente: nessuno; ma è anche evidente l'errore d'interpretazione.
Che dire? Una cosa semplicissima: questa o simili espressioni nulla hanno a che fare con la dottrina della grazia - e quindi con la sua irresistibilità o meno -, ma riguardano solo la dottrina generale della Provvidenza, la quale non può essere eliminata dal libero arbitrio di cui gli angeli e gli uomini sono stati dotati.
Quelle espressioni vogliono dire soltanto che Dio fa rientrare nell'ordine coloro che, peccando, se ne sono allontanati. Essi, se agiscono contro la volontà di Dio, si allontanano dall'ordine da Lui voluto, che è l'ordine dell'amore, ma entrano loro malgrado nell'ordine della giustizia, la quale, punendo il colpevole, ristabilisce l'ordine violato. La volontà divina non è invitta contro la libera scelta della volontà umana, ma è invitta nonostante questa libera scelta. " Quando [gli uomini] fanno ciò che Dio non vuole, Dio fa di loro quello che vuole " 4. L'uomo (e l'angelo) non può sfuggire alle leggi della Provvidenza, che sono due: amore e giustizia. Chi ricusa l'uno incappa nell'altra. Nelle opere divine non può esserci che l'ordine, o quello stabilito o quello riparato.
Che il significato delle parole suddette sia questo, appare chiaramente dal contesto in cui vengono inserite. " Usando male del libero arbitrio, gli infedeli che non credono al Vangelo agiscono certo contro la volontà di Dio, ma non per questo vincono contro di essa: piuttosto privano se stessi di un grande e sommo bene e si condannano a mali punitivi, destinati come sono a sperimentare nei castighi la potenza di Colui del quale hanno disprezzato la misericordia nei doni. Così la volontà di Dio rimane sempre invitta. Sarebbe vinta, invece, se Dio non trovasse che fare dei suoi disprezzatori o se questi potessero sfuggire in qualche modo a ciò che Dio ha stabilito per essi " 5.
Si tratta dunque dell'ordine dell'universo su cui Agostino ha scritto tante splendide pagine. Eccone una: " Poiché tutte le sostanze sono buone per natura, viene onorato il lodevole ordinamento che regna in esse, ma ne viene condannato il colpevole sovvertimento. L'anima tuttavia, pur usando male delle cose create, non può eludere l'ordinamento stabilito dal Creatore, poiché se essa fa cattivo uso delle cose buone, Egli fa buon uso anche delle cattive; essa quindi, usando male le cose buone, diviene cattiva, mentre Egli rimane sempre buono usando ordinatamente anche le cose cattive. Mi spiego: chi si mette fuori dell'ordine mediante l'ingiustizia dei peccati, è fatto rientrare nell'ordine mediante la giustizia dei castighi " 6.
Quello che è detto qui viene enunziato altrove con un principio generale caro al vescovo d'Ippona: " Dio, come è creatore ottimo di tutte le nature buone, così è ordinatore giustissimo di tutte le volontà cattive, di modo che quando tali volontà usano male le nature buone, Egli usa bene anche le volontà cattive " 7.
Non c'è bisogno d'insistervi. E' chiaro che quando Agostino parla della forza invitta della volontà divina non propone altro che una regola generale del governo di Dio nel mondo, regola che sta alla base dell'ordine, il quale è l'esigenza suprema delle opere del Creatore. Le parole ricordate richiamano solo due grandi verità: 1) l'uomo non farebbe nulla contro la volontà di Dio se Dio non lo permettesse: di tale principio parlerò a suo luogo 8; 2) l'uomo che, trasgredendo la legge divina, ricusa l'amore di Dio, non può sfuggire alla giustizia di Lui. Del contrasto tra la libera decisione dell'uomo e l'invincibile volontà di Dio Agostino non parla: ne parlano alcuni suoi interpreti; perché non si sa. Vedere due doni divini, libero arbitrio e grazia - uno di Dio creatore, l'altro di Dio salvatore -, in termini di contrasto o di concorrenza, non è agostiniano ma pelagiano. Non si può leggere Agostino con gli occhi di Pelagio; occorre leggerlo - l'ho detto, ma è bene ripeterlo -, con gli occhi suoi. Non v'è dubbio che il vescovo d'Ippona parli molto del primato della grazia sulla volontà e lo difenda, ma lo fa in un altro contesto, con altre sfumature, non come vittoria di Dio contro l'uomo, ma come vittoria dell'uomo, con l'aiuto di Dio, contro il male che è il tarlo che rode la sua libertà. Vediamolo, ricordando un principio che Agostino enuncia, approfondisce ed illustra.

2. Dio può convertire in volente qualunque infedele o peccatore nolente senza lederne la libertà

Il chiarimento di questo principio può essere articolato in tre proposizioni di fondo. Giova esaminarle, tutte e tre, in una visione sinottica perché appartengono allo stesso principio e lo rendono comprensibile.
1) la prima è questa: Dio non salva le sue creature contro la loro volontà. Dio ci ha creato senza il nostro consenso, ma non ci salva senza la nostra volontà. Conosciamo tutti un celebre aforisma agostiniano: Qui fecit te sine te, non te iustificat sine te. Ergo fecit nescientem, iustificat volentem. Questa conclusione suppone una premessa che vale la pena ricordare: è contenuta nello stesso discorso, allo stesso paragrafo. Dice Agostino al suo popolo: " Dio opera in noi, ma non tuttavia come se fossimo addormentati, non come se noi non fossimo nulla, non come se noi non volessimo. Senza la tua volontà non sarà in te la giustizia di Dio. Certamente la tua volontà è tua, la giustizia di Dio è di Dio: la giustizia di Dio può essere senza la tua volontà, ma non può essere in te fuori dalla tua volontà " 9.
In queste parole, come nell'effato che le conclude, viene espressa la legge fondamentale che distingue la creazione dalla salvezza. Dio ha creato l'uomo senza di lui - e come mai questi poteva dare il suo consenso alla creazione se ancora non era? -, ma, avendolo dotato di libero arbitrio, non lo conduce alla salvezza contro la sua volontà. Il libero arbitrio, dono della creazione, entra negli ingranaggi della salvezza e ne diventa un elemento se non primario certo essenziale.
2) La seconda proposizione enuncia appunto il primato della grazia e si può esprimere così: Dio può, quando vuole, cambiare la volontà dell'uomo da nolente a volente. Il nostro dottore ripete molte volte questa affermazione e, senza mezzi termini, tratta da insipiente chi la nega 10. L'insistenza dipende dalle accuse dei pelagiani che vedevano in essa la negazione della libertà e l'ammissione del fatalismo. Esaminiamo alcuni testi.
Molto espressivo quello dell'Enchiridion. Scrive: " Chi dunque sarà tanto empiamente folle da dire che Dio non possa convertire in bene le volontà cattive degli uomini, quelle che vuole, quando vuole, dove vuole? ". E aggiunge: " Ma quando lo fa, lo fa per misericordia; quando non lo fa, non lo fa per [giusto] giudizio " 11. Non meno espressivo quello che abbiamo visto sopra tratto dalla liturgia della preghiera 12. Come pure quello dell' Opus imperfectum contra Iulianum che suona così: " Dio suscita il volere nell'animo degli uomini, non perché credano nolenti, cosa sommamente assurda, ma perché diventino da nolenti volenti "; ciò opera " attraverso le sue imperscrutabili vie " 13.
Il fondamento di queste affermazioni è insieme biblico, liturgico e metafisico. Del primo e del secondo ho parlato sopra 14. Per il terzo basterà citare un testo di una delle ultime opere: Dio agisce, dice Agostino, interiormente, tiene in mano i cuori e li muove, e, per mezzo della volontà che opera in loro, li attira. Infatti " Dio ha in suo potere le volontà degli uomini più di quanto gli uomini non le abbiano essi stessi: magis habet in potestate voluntates hominum quam ipsi suas " 15. Questa ragione riposa sulla presenza di Dio nell'uomo, che è più profonda di quanto l'uomo non sia a se stesso. Intimior intimo meo 16. A questa profonda presenza non sfugge il libero arbitrio 17.
Giuliano aveva del libero arbitrio un'altra opinione e la difendeva, egli pure, con la Sacra Scrittura. Si riferiva in particolare a Mt 23,37: Gerusalemme, Gerusalemme,...quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e non hai voluto, insistendo su quel: e non hai voluto, quasi che la libera volontà dell'uomo ponga un limite invalicabile all'azione divina. " Infatti, continua Giuliano, dopo queste parole non è scritto: ma li raccolsi contro tua volontà, bensì: la vostra casa vi sarà lasciata deserta, per dimostrare che erano giustamente puniti per l'opera cattiva, ma che dalla loro intenzione [cattiva] non dovevano essere revocati ulla necessitate ". Ho ricordato quest'ultimo particolare sopra a proposito della conversione di S. Paolo 18.
Agostino risponde ribadendo il principio generale: " Lungi da noi il pensare che l'intelligenza dell'Onnipotente che tutto conosce in precedenza sia impedita dall'uomo ". Distingue poi tra due certezze, quella che riguarda la volontà di Gerusalemme contraria alla volontà di Dio e quella riguardante la volontà di Dio che raccoglie in Gerusalemme i figli che vuole. " Come è certo - dice - che Gerusalemme non volle che i suoi figli fossero raccolti da Dio, così è certo che Dio, contro la volontà di Gerusalemme, raccolse tutti quelli che volle. Dio infatti - continua Agostino - chiama, come disse l'uomo di Dio Ambrogio 19, coloro che si degna chiamare e dà, a chi vuole, un animo religioso " 20.
E' certo dunque per il vescovo d'Ippona che Dio permette che si compiano molte cose contro la sua volontà, ma è certo altresì che la volontà divina può cambiare chiunque da nolente in volente. Lo può, e senza lederne la libertà. Ecco pertanto la terza proposizione che egli ha cura d'illustrare.
3) L'azione della grazia quando converte il nolente in volente non lede la sua libertà. La ragione è semplicissima: sarebbe assurdo pensare il contrario, cioè che uno creda non volendo credere. Dio opera nell'animo degli uomini non ut nolentes credant, quod absurdissime dicitur... 21. Perché ognuno evitasse questo assurdo, egli lancia un'affermazione che suona solenne come un aforisma: nemo credit invitus 22. Questo aforisma, applicato alla giustificazione, diventa: nemo iustus invitus 23; applicato all'azione della grazia con la quale il Padre celeste attrae gli uomini a Cristo diventa: nemo venit invitus 24; applicato alla bontà in generale suona: nemo bonus invitus 25.
Agostino non poteva essere né più insistente né più efficace: nessuno può credere o essere giustificato o essere attratto a Cristo o essere buono contro la sua volontà; e questo " per la contraddizion che nol consente " 26. La grazia dunque non costringe nessuno a volere il bene, non cogit velle bonum. Giuliano lo pensava e lo attribuiva ad Agostino. Questi gli risponde: " Come tu possa dire che colui la cui volontà, secondo il nostro insegnamento, viene preparata dal Signore, diventi buono perché costretto a volere il bene (è tua questa affermazione, non nostra: noi siamo ben lungi dal dirlo), lo veda la tua alta intelligenza. Infatti, se la volontà è costretta non vuole; e che cosa c'è di più assurdo che dire: si può volere il bene non volendolo? " 27.
Il praeparatur voluntas a Domino, a cui ci si riferisce, è il testo riassuntivo, tante volte citato, di tanti testi biblici sulla grazia 28. Qui si dice in tutte lettere che questa grazia, la quale porta l'uomo a volere effettivamente il bene, non toglie la libertà (di scelta), ma la volge al bene senza violarne la natura. Come? Lo vedremo fra poco. Per ora basti aver riaffermato un principio essenziale e fondamentale della dottrina agostiniana sulla grazia, da cui è aliena la tesi della irresistibilità. Questa, affermata da Giansenio e ripetuta da alcuni moderni, non appartiene alla visione teologica di Agostino, ma all'accusa di Giuliano che la distorce. Agostino respinge puntualmente l'accusa; ma non mancano interpreti che commettono di nuovo l'errore di cercare la dottrina del vescovo d'Ippona non nelle sue affermazioni e nelle ragioni che le suffragano, bensì nelle accuse dell'avversario. Se questo è un metodo interpretativo giusto, lo giudichi il lettore.

3. " Indeclinabiliter et insuperabiliter "

Ma codesti interpreti, questa volta, sembrano trovare una giustificazione in alcune espressioni dello stesso Agostino. Sono celebri due avverbi del De corrept. et gr.: " Si è prestato soccorso alla debolezza della volontà umana così che essa sia mossa dalla grazia divina indeclinabiliter et insuperabiliter " 29. In questi due avverbi Giansenio trovò il suo cavallo di battaglia. E con lui altri, ieri e oggi. Ma essi non hanno il significato che viene loro attribuito bensì, letti nel testo e nel contesto, uno diverso. Non si tratta dell'insuperabilità della grazia nei confronti della volontà, quasi volontà e grazia fossero due termini antitetici - questa era la concezione pelagiana -, ma si tratta della volontà che, sostenuta dalla grazia, opera senza deviare dalle vie del bene (indeclinabiliter) e senza essere superata dalle forze del male (insuperabiliter), opera cioè in piena libertà. Della libertà infatti si tratta nel testo e nel contesto, non della natura della grazia. Non c'è bisogno pertanto di togliere di mezzo, arbitrariamente, quell'insuperabiliter quasi significasse, fuori d'ogni dubbio, l'irresistibilità della grazia e favorisse, perciò, le conclusioni gianseniste 30. Non c'è bisogno di toglierlo, basta capirlo. Esso, questo avverbio contestato, riguarda solo la volontà, che, fortificata dalla grazia, diventa vincitrice contro " tutti gli amori, i terrori, gli errori di questo mondo " 31 raggiungendo quella forza e quella libertà che è propria dei santi, in particolare dei martiri. Questa è l'interpretazione che esigono il testo e il contesto sia prossimo che remoto.
Infatti il testo continua: " ...e perciò, benché debole, la volontà non viene meno e non è vinta da nessuna avversità " 32.
Il contesto immediato mette a confronto Adamo, che era forte e tuttavia peccó, e gli uomini dopo il peccato, che sono deboli, e tuttavia ricevono la grazia di essere fortissimi nel volere il bene e nel non volere il male. " A chi era fortissimo [Dio] lasciò e permise di fare quello che volesse; per i deboli ebbe cura che grazie al suo dono invincibilmente volessero ciò che è bene e invincibilmente non volessero abbandonarlo " 33.
Il contesto più remoto insiste in questa forza del volere. " Quando [Cristo] ha pregato che la fede di Pietro non venisse meno, che cos'altro ha pregato se non che avesse nella fede una volontà assolutamente libera, invitta, perseverante? " 34. C'è, poi, tutta la dottrina esposta sopra sulla libertà di scelta 35, che è necessaria per il merito 36 e che permane anche sotto l'influsso della grazia che porta l'uomo a volere efficacemente il bene 37, dottrina troppo vasta e profonda e troppe volte ripetuta per pensare che Agostino possa contraddirla con un solo... avverbio.
Ma come la grazia operi nella volontà in modo da darle la forza di vincere tutte le tentazioni e non toglierle il potere di volere e non volere, senza il quale non potrebbe meritare pur volendo e operando il bene, è un argomento diverso, un argomento più profondo e più difficile di cui parleremo subito.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:47

CAPITOLO TERZO

RAPPORTO TRA GRAZIA E LIBERTA'

Questo rapporto costituisce uno dei più grossi problemi della teologia. Riguarda la libertà di scelta di cui il libero arbitrio dell'uomo (e dell'angelo) è dotato 1 e l'azione divina della grazia che lo conduce infallibilmente ma liberamente alla salvezza, cioè gli dona la libertà dal male senza togliergli la libertà più profonda di volere e non volere. Per trattare questo problema senza deviare da una parte o dall'altra occorrono acume teologico, conoscenza biblica, umiltà e preghiera 2. In possesso di queste qualità in modo altissimo, Agostino fu il teologo che meglio vide il problema, che ne fissò i termini e ne indicò, con grande modestia, le soluzioni. La controversia pelagiana, pur con i suoi pericoli continui di radicalizzazione, gliene offrì l'occasione opportuna.

1. Difficoltà del problema

Prima di tutto vide il problema e le sue difficoltà. Lo vide, lo sentì, lo ridisse: prima della controversia pelagiana e poi all'inizio, alla metà, alla fine di questa. Prima della controversia pelagiana, precisamente in quella donatista, verso il 400, dice a Petiliano che citava il testo di Gv 6,44: " Se ti proponessi la questione come Dio Padre attragga al Figlio gli uomini che ha lasciato alla decisione del loro libero arbitrio, forse la scioglieresti con difficoltà. Infatti come attrae se lascia che ognuno elegga ciò che vuole? Eppure l'una e l'altra cosa è vera - utrumque verum est - ma questo pochi sono in grado di penetrarlo con l'intelletto " 3.
Iniziata la controversia pelagiana, fin dalla prima opera osserva: " L'armonia tra grazia e libero arbitrio butta violentemente nell'ansia ciascuno di noi che ne cerca la soluzione, per il timore che il tono della nostra difesa della grazia ci faccia apparire come negatori del libero arbitrio e viceversa il tono della nostra affermazione del libero arbitrio ci faccia giudicare ingrati alla grazia di Dio per superba empietà " 4.
Qualche anno appresso, precisamente nel 418, dopo la condanna del pelagianesimo da parte di Papa Zosimo, avvenuta in quell'anno, scrive: " Questo problema nel quale si tratta dei rapporti tra l'arbitrio della volontà e la grazia di Dio è talmente difficile a dipanarsi che, quando si difende il libero arbitrio, sembra negata la grazia e, quando viceversa si asserisce la grazia, si crede portato via il libero arbitrio " 5.
Verso la fine della controversia (e della sua vita) ritorna sull'argomento della difficoltà del problema. All'inizio del De gratia et libero arbitrio, scritto appunto per fissarne i termini, ribadisce la quaestionis obscuritas e tesse su questo motivo tutto il libro di cui raccomanda l'assidua lettura: Repetite assidue librum istum 6. E nelle lettere che accompagnano il libro, non solo parla della " difficilissima questione " ma aggiunge che essa è " comprensibile solo a pochi ", concludendone che chi ha suscitato tante discussioni nel monastero (di Adrumeto) o non ha capito egli stesso o non è stato capito 7.
Prima di continuare, vale la pena di fare una riflessione: chi ha costantemente presente la difficoltà del problema, mostra di non negare nessuno dei termini che lo compongono, né libertà né grazia. E' fin troppo evidente che, negando uno di essi, qualunque sia, o grazia o libertà, il problema sparisce. Non lo avevano infatti i pelagiani e non lo avranno i predestinaziani: lo aveva invece Agostino perché passava in mezzo tra gli uni e gli altri, percorrendo sempre il difficile, ma l'unico giusto, veritatis medium 8.
Il problema dunque c'è e non è facile risolverlo. Non resta che accogliere il solenne e grave ammonimento del vescovo d'Ippona, quello di tener fermi i due capi della catena anche se non si riesce a percepire l'anello che li tiene uniti. Abbiamo visto sopra la sua insistenza sull' utrumque o grande binomio 9. Raccogliamo qui le parole estreme del libro che fu scritto per difenderlo e illustrarlo. Alla raccomandazione: Repetite assidue librum istum, segue l'ammonimento: " e se comprendete ringraziate Dio; nei punti in cui non comprendete, pregate di comprendere: il Signore infatti vi concederà l'intelligenza. Ricordate che sta scritto: Se qualcuno di voi manca della sapienza, la chieda a Dio, che dà a tutti in abbondanza e non rimprovera, e gli sarà data. Questa appunto è la sapienza che discende dall'alto " 10.
Ma Agostino era troppo teologo per fermarsi solo a questo ammonimento. Per quanto sia importante, esso da solo non basta. Anzi, se restasse solo, entrerebbe in collisione con l'altro notissimo principio: intellectum valde ama 11, e porterebbe la teologia verso posizioni fideiste che il nostro dottore decisamente respinge. Egli vuol capire la sua fede. Pertanto, come ha cercato di penetrare la natura della libertà - lo abbiamo visto sopra 12 -, così vuol capire quella ancor più difficile della grazia. Seguiamolo in questo arduo cammino.

2. Natura della grazia efficace o " auxilium quo "

Agostino parla insistentemente e prevalentemente, anche se non esclusivamente, della grazia che conduce l'uomo di fatto, nonostante la sua debolezza, a compiere il bene e ad evitare il male. Come? Praebendo vires efficacissimas voluntati 13. Queste forze sono tanto efficaci che la volontà vuole invincibilmente il bene e invincibilmente non vuole il male. L'iterazione dell'avverbio invictissime - invictissime quod bonum est vellent et hoc deserere invictissime nollent 14 -, dice non la necessità dell'atto, ma l'infallibile certezza con la quale la volontà, superando ogni ostacolo, vuole il bene e s'avvia verso quella beata libertà in forza della quale non potrà più volere il male.
Questa grazia efficace dunque:
1) è la grazia congrua, cioè quella che si adatta alle disposizioni dell'uomo, che sono pur esse dono di Dio, in tal modo da indurlo a seguire la chiamata dall'Alto. L'espressione ricorre nella risposta a Simpliciano, un'opera molto importante per gli inizi della dottrina agostiniana della grazia, e ricorre nel contesto della vocazione ed elezione divina. Parlando agli eletti dice infatti che sono eletti qui congruenter vocati; spiegando poi quel congruenter vocati, continua: quos ita vocat, quomodo eis vocari aptum est ut vocantem sequantur. L'aptum est diventa subito dopo: " quomodo scit ei congruere ut vocantem non respuat " 15. Questa espressione ricorre agli inizi della teologia sulla grazia e a proposito della chiamata secondo il consiglio divino, e bisogna registrarla, tanto più che nel De dono perseverantiae, una delle ultime opere, si parlerà di congrua suis mentibus... verba vel signa 16;
2) è la grazia che non solo esercita un'azione suasiva, ma anche un'azione persuasiva, la quale, secondo le parole del profeta Ezechiele, fa che noi facciamo: faciam ut faciatis 17. Perciò è la grazia che non viene respinta da nessuno per quanto duro di cuore: ideo quippe tribuitur, ut cordis duritia primitus auferatur 18;
3) è la grazia che non solo dà il posse, ma anche il velle: " per mezzo di questa grazia di Dio, che ci aiuta a ricevere il bene e a conservarlo con perseveranza, non solo possiamo quello che vogliamo, ma anche vogliamo quello che possiamo " 19. Di conseguenza non è solo l'aiuto senza il quale non possiamo operare, ma l'aiuto con il quale operiamo di fatto: auxilium quo 20;
4) è, per riprendere l'importante discorso su gli ingranaggi della libertà 21 nei quali l'azione divina entra profondamente operando in essi dal di dentro, la " scienza certa " e la " dilettazione vittrice " 22. Le due espressioni meritano un'attenzione particolare perché sono i cardini della nozione agostiniana della grazia.
a) Scientia certa. La nozione della " scienza certa " come dono della grazia adiuvante non era facile. Vediamo come la dipana Agostino. La conoscenza di ciò che si deve fare è, come si è visto 23, condizione necessaria per operare il bene. Ma quale dev'essere questa conoscenza perché entri nel concetto della grazia operante? Certamente non ogni conoscenza basta. Non basta, per esempio, la conoscenza puramente teorica, quella che, secondo la Scrittura, è " la scienza che gonfia " (1 Cor 8,1). I pelagiani si fermavano a questa, cioè alla conoscenza con la quale Dio ci mostra e ci rivela per mezzo della legge ciò che dobbiamo fare.
Agostino lo sa e lo ripete 24, ma afferma con fermezza che la pura conoscenza della legge non è sufficiente affinché l'uomo operi il bene. Non appartiene perciò a quella grazia interiore che la Scrittura richiede di ammettere. Ci vuole, sì, la scienza, ma quella che Dio insegna interiormente, della quale parla S. Giovanni nel Vangelo: Sta scritto: e tutti saranno ammaestrati da Dio (Is 54,13; Ger 31,33 s.). Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me (Gv 6,45). " Pertanto - commenta Agostino - quando Dio insegna non per mezzo della lettera della legge, ma per mezzo della grazia dello Spirito, insegna in tal modo che chiunque ha imparato non solo veda con l'intelligenza ciò che gli è stato insegnato, ma anche lo brami con la volontà e lo compia perfettamente con l'attività " 25.
Ne segue che " la scienza certa " non è solo l'esclusione dell'errore, ma anche la fuga del dubbio, dell'incertezza, dell'esitazione; in altre parole, è la presenza della verità alla mente e l'adesione ferma della mente alla verità. Ora una tale fermezza non può essere senza un amore almeno iniziale e senza l'attrazione della volontà ad operare quel bene che la scienza propone.
Agostino, che non ama discutere sulle parole, rispondendo ai pelagiani - direttamente al Pro libero arbitrio di Pelagio 26 - che chiamavano grazia la dottrina, si esprime così: " Se questa grazia si deve chiamare dottrina, si chiami pure così, ma in modo da credere che sia Dio ad infonderla più profondamente e più interiormente con ineffabile soavità nell'animo umano, non solo attraverso l'opera di coloro che piantano ed irrigano all'esterno, ma anche con il suo intervento diretto che dà occultamente il suo incremento, così che questa grazia non additi semplicemente la verità, ma somministri anche la carità " 27.
Si noti in questo testo il " più profondamente " (altius), il " più interiormente " (interius) e " con ineffabile soavità " (cum ineffabili suavitate) che dicono chiaramente che la " scienza certa " non è solo conoscenza nozionale, ma nozionale e sperimentale insieme, cioè una conoscenza amorosa che diventa convinzione profonda nell'intelletto, proposito nella volontà, gioia nel cuore, e quindi forza iniziale per compiere il bene conosciuto. Per questo, parlando dell'attrazione del Padre (Gv 6,44), può dire che essa avviene attraverso la rivelazione del Figlio fatta dal Padre: Ista revelatio, ipsa est attractio 28.
b) Dilettazione vittrice. Se non che la " scienza certa " non basta a spiegare la grazia efficace. Occorre anche la " dilettazione vittrice ". La ragione è stata esposta sopra parlando degli ingranaggi della libertà. Infatti due sono gli ostacoli che impediscono il compimento del bene: la ignorantia e la infirmitas; due perciò gli scopi della grazia: togliere l'ignoranza e sostenere la debolezza; due di conseguenza le componenti essenziali della sua natura: la scienza e la dilettazione. E se la scienza dev'essere certa, la dilettazione dev'essere vittrice.
L'espressione delectatio victrix è stata usata ed abusata dagli interpreti. Non discutiamo di parole. Dirò appresso che amore, dilezione, dilettazione, gaudio esprimono per Agostino, sia pure con sfumature diverse, la stessa cosa. " Dilettazione vittrice " si può tradurre bene, senza mutarne affatto il significato, con " amore vittorioso "; vittorioso contro tutti gli ostacoli che impediscono alla volontà di volere ed operare il bene. E siccome la infirmitas è più grave nell'uomo che l' ignorantia - su questo punto l'antropologia agostiniana non ha dubbi -, Agostino insiste di più, parlando della grazia adiuvante, nella ispirazione dell'amore. E' restata celebre la definizione: inspiratio dilectionis, ut cognita sancto amore faciamus. Questa, aggiunge Agostino, è propriamente la grazia 29. La definizione agostiniana si richiama evidentemente al testo di S. Paolo, tante volte citato: " L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato " (Rom 5, 5). Su questo testo si gioca, per Agostino, tutta la controversia tra pelagiani e cattolici circa l'aiuto della grazia. Ma di questo dopo 30.
Qui occorre osservare che quest'amore, per diventare vittorioso, deve superare tutti gli ostacoli, che non sono pochi né piccoli, e non sono in tutti gli stessi, né in tutti esercitano la stessa resistenza, anche se rientrano tutti nel denominatore comune di ignorantia e infirmitas. Esso, quest'amore, appare in sommo grado nei martiri, i quali hanno la forza suprema - e quindi la suprema libertà - di resistere a tutte le minacce, anche a quelle delle sofferenze più atroci e della morte.
A questo punto bisognerebbe parlare dei gradi dell'amore, che per Agostino sono quattro - incipiente, progrediente, intenso, perfetto 31 - e s'inseriscono molto bene nel discorso sulla grazia; come pure delle passioni disordinate - superbia, avarizia, cupidigia 32 - fino alla dura servitus delle abitudini cattive e inveterate 33, ma il discorso è lungo e non può essere fatto qui. Qui giova insistere su alcune importanti distinzioni circa la grazia adiuvante, che Agostino fa e che spesso o vengono disattese o comprese male.

3. Distinzione sulla natura della grazia adiuvante

Quattro soprattutto richiamano la nostra attenzione: grazia suasiva e persuasiva, grazia operante e cooperante, grazia preveniente e susseguente, grazia che dà il potere - auxilium sine quo non - e grazia che dà anche il volere: auxilium quo.
1) Grazia suasiva e persuasiva
Agostino usa implicitamente questa distinzione fin dalle prime riflessioni sulla grazia. Nel De diversis quaestionibus ad Simplicianum, di cui è nota l'importanza in materia, scrive a proposito dell'uomo ostinato nell'incredulità: " Chi dirà mai che anche all'Onnipotente sia mancato il modo di persuaderlo a credere? " 34. Lo stesso principio in maniera anche più generale in una lettera recentemente pubblicata: " Chi mai, se non è assolutamente lontano dal vero, oserà pensare o credere che Dio voglia persuadere qualcosa e non lo possa? Dunque - conclude rivolto all'interlocutore - ti persuaderà quando voglia, ...e perché lo faccia dev'essere pregato da me ma in modo che anche tu venga esortato... " 35.
La distinzione tra suadere e persuadere viene proposta più attentamente in un'opera tra le più importanti sulla grazia, dove si dice: " Dio con le suggestioni da noi avvertite (visorum suasionibus) fa sì che noi vogliamo e vediamo sia dall'esterno attraverso le esortazioni evangeliche... sia dall'interno dove non è in potere di nessuno scegliere che cosa gli venga in mente... Quando Dio dunque agisce in questi modi con l'anima razionale perché essa gli creda, (e non può infatti l'anima credere a nulla con il libero arbitrio senza un'azione suasiva o una vocazione che le presenti qualcosa a cui credere), certamente Dio produce nell'uomo anche la stessa volontà di credere, e la sua misericordia ci previene in tutto ". Toccando poi il mistero della predestinazione si esprime brevemente così: " Se poi qualcuno a questo punto vuole costringerci a scrutare il profondo arcano per cui con uno l'azione suasiva riesce ad essere persuasiva e con un altro no, due sole verità mi si presentano adesso con le quali mi piace rispondere: O profondità della ricchezza! e: C'è forse ingiustizia da parte di Dio? Se questa risposta a qualcuno dispiace, cerchi persone che ne sappiano di più, ma stia ben attento a non incappare in persone che solo presumano di saperne di più " 36.
Torneremo su questo testo. Qui si vuole sottolineare soltanto l' ita suadeatur ut persuadeatur, due verbi che indicano molto bene due modi diversi di agire della grazia, quello suasivo rivolto, come vedemmo, a tutti 37 e quello persuasivo che è usato verso gli eletti.
Lo stesso problema con le stesse parole viene proposto in un'opera non più degli inizi ma del bel mezzo della controversia pelagiana. Agostino è alle prese con Pelagio e vuole che riconosca finalmente la grazia che attira di fatto gli uomini a Cristo. " Noi vogliamo da Pelagio una buona volta il riconoscimento di quella grazia che non solo promette la grandezza della gloria futura, ma la fa pure credere e sperare; la grazia che non solo rivela la sapienza, ma la fa pure amare; la grazia che non solo fa opera suasiva per quanto è buono, ma fa anche opera persuasiva (nec solum suadetur quod bonum est - questa era l'espressione di Pelagio -, verum et persuadetur). Non di tutti infatti è la fede tra coloro che ascoltano il Signore promettere per mezzo delle Scritture il regno dei cieli, e non con tutti diventa persuasiva l'opera suasiva (aut omnibus persuadetur quibuscumque suadetur) che li invita ad andare da colui che dice: Venite a me, voi tutti che siete affaticati. Di quali poi sia la fede e quali siano quelli che si lasciano persuadere ad andare da lui, l'ha ben indicato lui stesso là dove dice: Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. E poco dopo, parlando di coloro che non credevano, dichiara: Vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio ". E conclude con parole molto severe che abbiamo già ascoltate: " Questa è la grazia che Pelagio deve riconoscere, se vuole non solo chiamarsi cristiano, ma anche essere cristiano " 38.
Ho insistito su questa distinzione perché essa indica meglio delle altre la natura dell'azione divina e la libera cooperazione dell'uomo che essa richiama. Infatti se facessimo una considerazione semantica, troveremmo che suadere vuol dire consigliare, invitare, esortare 39; persuadere consigliare con successo, convincere, indurre all'azione. Se poi dalla semantica passiamo al contenuto, Agostino, identificando il persuadere con il " trarre " o il " dare " di San Giovanni, vuol indicare con questa espressione la grazia che dà il volere e l'agire; mentre il suadere è anch'essa una grazia e una grazia anche interiore - sive extrinsecus... sive intrinsecus -, ma non connota l'operare, e quindi non connota la fede e la perseveranza. Le due espressioni sono scelte apposta per indicare che la grazia non esclude la libera cooperazione della volontà. Nel De spiritu et littera viene notato esplicitamente e ripetutamente: consentire vel dissentire propriae voluntatis est 40.
Che poi la distinzione debba essere estesa non solo alla fede, ma anche alla perseveranza, e quindi alla salvezza, appare chiaro dal fatto che viene applicata alla predestinazione: il testo del De spiritu et littera è troppo chiaro per dubitarne. Non si può intendere dunque il persuadere solo sulla linea intellettuale, e, di riflesso, neppure il suadere: nell'un caso come nell'altro si tratta di un'azione anche interiore che importa l'illuminazione e l'infusione dell'amore come risulta da altre distinzioni. Che il termine suasio sia usato per indicare la correzione del superiore 41 o l'istigazione del demonio 42 non vuol dire che, applicato alla grazia, indichi solo una suggestione esterna. Esaminiamo altre distinzioni.
2) Grazia operante e cooperante
L'altra parimenti importante è quella tra grazia operante e grazia cooperante. Semanticamente deriva dalla Scrittura che parla di Dio il quale opera in noi e coopera con noi - vengono citati due testi: Fil 2,13 e Rom 8,28 43 -; contenutisticamente trova l'espressione più completa nel De gr. et lib. arb. Giova rileggerne il testo: " E chi aveva cominciato a dare questa carità, benché ancora piccola - si riferisce a Pietro che assicura: Darò per te la mia vita (Gv 13,37) - se non Colui che prepara la volontà, e cooperando porta a termine quello che operando ha iniziato? Perché è proprio lui che dando l'inizio opera affinché noi vogliamo, e poi nel portare a termine coopera con coloro che già vogliono... Dunque Egli fa sì che noi vogliamo senza bisogno di noi; ma quando vogliamo, e vogliamo in maniera tale da agire, coopera con noi. Tuttavia senza di lui che opera affinché noi vogliamo o coopera quando vogliamo, noi non siamo validi a nessuna delle buone opere della pietà " 44.
Il testo citato ha quanto serve per essere compreso nel giusto senso. Dio comincia l'opera della salvezza operando in noi senza di noi il buon volere, secondo l'espressione della Scrittura tante volte ripetuta: praeparatur voluntas a Domino (Prov 8,35 sec. LXX) - infatti l'inizio della fede proviene da Dio (è questa la tesi di tutto il De praedestinatione sanctorum) -; ma anche noi operiamo cooperando alla grazia: " operiamo certamente anche noi, ma operiamo cooperando con Dio che opera prevenendoci con la sua misericordia " 45: cooperiamo perché la carità da piccola diventi grande, perché passi all'azione, perché superi le difficoltà, perché sia perseverante.
A questa distinzione ne va congiunta, quasi con lo stesso significato, un'altra.
3) Grazia preveniente e susseguente
Anche questa deriva semanticamente dalla Scrittura. I testi citati sono abitualmente due: Ps 58,11: Dio mio, la tua misericordia mi previene; e Ps 22,6: La tua misericordia mi seguirà per tutti i giorni della mia vita. Il contenuto è quello dell'altra: Dio comincia, ma non abbandona la sua creatura; comincia e continua l'opera, suscitando la nostra cooperazione fino alla salvezza. " Ci previene per guarirci e anche ci seguirà perché da sani diventiamo pure vigorosi, ci previene per chiamarci e ci seguirà per glorificarci, ci previene perché viviamo piamente e ci seguirà perché viviamo con lui eternamente, essendo certo che senza di lui non possiamo far nulla " 46. E in un discorso al popolo sul Natale: " Chi potrebbe avere in suo potere il volere e l'operare il bene, se con la sua grazia non ci aiuta a poter fare il bene Colui che chiamandoci ci concede di volerlo? In ogni caso infatti la sua misericordia ci previene: ci ha chiamati quando ancora non volevamo e ci ha concesso d'impetrare di poter compiere quanto ora vogliamo " 47.
Ma è un'altra la distinzione più difficile, perché più discussa, da Giansenio fino ai nostri giorni 48.
4) " Auxilium sine quo non " e " auxilium quo "
La ragione sta nel fatto che è stata caricata, a mio parere, di un significato che non ha. Vediamola in sé, senza preoccupazione delle discussioni posteriori, anzi escludendole affatto come un ostacolo per l'intelligenza del testo agostiniano. Non applichiamo dunque ad essa lo schema scolastico di grazia sufficiente e grazia efficace, né quello delle due economie della grazia.
La distinzione di due aiuti ricorre per la prima volta nel De gestis Pelagii, ma non è ancora quella che qui c'interessa.
Si tratta dell'aiuto senza il quale una cosa non si può fare e dell'aiuto senza il quale una cosa si può fare lo stesso, anche se più difficilmente. Scrive: " ...gli aiuti sono di due specie. Alcuni sono tali che senza di essi non si può ottenere ciò per cui aiutano: per esempio senza nave nessuno naviga, senza voce nessuno parla, senza piedi nessuno cammina, senza luce nessuno vede, e molti altri fatti simili, fra i quali anche questo: Nessuno vive rettamente senza la grazia di Dio. Altri mezzi, al contrario, ci aiutano così che anche senza di essi resta possibile ottenere per altro verso il risultato per cui cerchiamo tali mezzi, come negli esempi già ricordati da me: le trebbie per battere le messi, il pedagogo per accompagnare i ragazzi, una medicina preparata dalla scienza umana per recuperare la salute, e tutti gli altri mezzi di tal genere " 49.
La grazia, come si dice esplicitamente in questo testo, appartiene al primo genere di aiuto, non al secondo. A Pelagio che aveva scritto nel Pro libero arbitrio che la grazia viene data perché gli uomini possano fare più facilmente ciò che viene comandato loro di fare per mezzo del libero arbitrio, risponde: " Togli più facilmente, e il senso non solo sarà pieno ma anche sano...; aggiungendo invece più facilmente si suggerisce in sordina che il compimento dell'opera buona è possibile anche senza la grazia di Dio. E' l'idea riprovata da Colui che dice: Senza di me non potete far nulla " 50.
Ma la grazia non è solo l'aiuto senza il quale non si può vivere rettamente, ma anche l'aiuto con il quale di fatto si vive rettamente. Questa ulteriore distinzione, molto importante perché include il concetto della grazia efficace, viene proposta e spiegata nel De correptione et gratia. Rileggiamo il celebre testo: " Del pari bisogna distinguere gli aiuti stessi. Una cosa è l'aiuto senza il quale non avviene qualcosa, e un'altra cosa l'aiuto per mezzo del quale qualcosa avviene. Infatti senza alimenti non possiamo vivere, ma tuttavia quando ci siano gli alimenti, non sarà per essi che vivrà chi vuole morire. Dunque l'aiuto degli alimenti è quello senza il quale non avviene, non quello per mezzo del quale avviene che viviamo. Invece quando sia data la beatitudine che l'uomo non possiede, egli diviene subito beato. Infatti è non solo un aiuto senza il quale non avviene, ma anche per mezzo del quale avviene ciò per cui è dato. Perciò esso è sia un aiuto per mezzo del quale qualcosa avviene, sia un aiuto senza il quale qualcosa non avviene; se la beatitudine è stata data all'uomo, subito egli diviene beato, e se non gli è mai stata data, non lo sarà mai " 51.
Il testo agostiniano letto in se stesso non sembra essere oscuro. Che cosa vuol dire Agostino? Questo solo: Adamo ebbe la grazia del poter non peccare - grazia necessaria, altrimenti il suo peccato sarebbe stato imputabile a Dio 52 -, ma peccò: questo il dato rivelato. Dunque ebbe l'auxilium sine quo non ma non ebbe l'auxilium quo, altrimenti non avrebbe peccato ma avrebbe perseverato nella giustizia ricevuta. Molti, dopo Adamo, e lo stesso Adamo dopo il peccato 53, per mezzo della grazia di Cristo e nonostante le ferite di quel primo peccato, compiono il bene, vi perseverano e si salvano: ecco l'altro dato rivelato. Dunque quelli che si salvano ricevono l'auxilium quo, cioè l'aiuto con il quale giungono di fatto alla salvezza.
Ma perché allora tante discussioni? Si può rispondere in generale così: perché il testo agostiniano è stato letto in chiave scolastica - si pensi alle interminate e interminabili discussioni sul de auxiliis - e per di più qualcuno, come Giansenio, lo ha letto in funzione antiscolastica. Più in particolare si è voluto sapere 1) se nell'auxilium quo c'è inclusa la grazia intrinsecamente efficace - opinione di molti - o solo estrinsicamente (attraverso la scienza divina), opinione di altri; 2) se l'oggetto dell'auxilium quo è solo la perseveranza finale o anche ogni opera buona; 3) se esso indica e determina la differenza tra l'economia della grazia prima e dopo il peccato: prima avrebbe operato solo la grazia sufficiente, dopo solo la grazia efficace e irresistibile, come voleva Giansenio.
Come si vede, viene chiesta al testo agostiniano la soluzione di problemi che non sono agostiniani. Applicare ad esso lo schema scolastico della grazia sufficiente ed efficace o, peggio ancora, quello giansenista della diversa economia della grazia prima e dopo il peccato - resistibile la prima, irresistibile la seconda - significa imbarcarsi in discussioni senza fine e senza esito, perchè si forza il testo agostiniano a dire ciò che non dice. Lo stesso va osservato sulla natura intrinseca o solo estrinseca della grazia efficace. Agostino cammina per la sua strada: chi vuol seguirlo deve studiare quale essa sia, non imporgli la propria. Forse sarà più utile imparare da lui la grande lezione del senso del mistero di cui fu maestro, sempre ma soprattutto in questo problema che ci tocca tanto da vicino.

4. Senso profondo del mistero

Il vescovo d'Ippona dunque insiste sulla necessità di ammettere la grazia efficace: è un punto fermo. Ma sostiene anche, dall'altra parte, che dev'essere fatta salva la libertà dell'uomo, senza la quale non si può meritare presso Dio, né si possono compiere opere buone: è l'altro punto fermo. Lo abbiamo visto a sufficienza e, forse, più che a sufficienza. Posti questi due punti fermi, che reggono e guidano o, in ogni caso, devono reggere e guidare tutte le discussioni sull'argomento, egli si arresta di fronte al mistero e ne scruta, con umiltà ed amore, la profondità. Se è sicuro sul fatto (i punti fermi), è cauto sul modo. Che libertà e grazia efficace cooperino insieme è certo. Ma come? La questione è difficilissima e pochi la capiscono. Agostino non attenua ma accentua il mistero.
Come? Miris modis, risponde. Trahitur miris modis ut velit; " è attirato, ut velit, da Colui che sa operare interiormente negli stessi cuori degli uomini, non perché gli uomini, ciò che non può essere, credano contro la loro volontà - non ut homines, quod fieri non potest, nolentes credant -, ma perché diventino volenti da nolenti che erano " 54. Se s'insiste sulla stessa domanda, risponde: Interna et occulta, mirabili et ineffabili potestate 55. Se s'insiste ancora, risponde ancora, con altre parole, allo stesso modo: per investigabiles vias suas 56.
Ma Agostino non è uomo da lasciare i problemi insoluti. Su di essi si china, invece, per scrutare le profondità e illuminarli, per quanto è possibile, con la luce dell'intellegibilità. Sul mistero trinitario scrisse la grande opera del De Trinitate che non contiene solo l'esposizione e la difesa, ma anche l'illustrazione del domma, che si fonda sull'uomo immagine di Dio - Trinità. L'uomo studiato da vicino nella sua struttura interiore ci aiuta a capire un poco il modello secondo cui fu creato. Sulla Incarnazione - altro grande mistero che richiamò sempre, dopo la conversione, la sua attenzione e ricerca - se non scrisse un'opera 57, non mancò d'approfondire la rivelazione e di indicare nell'unione tra l'anima e il corpo, che è l'uomo, un esempio che aiuta a capire l'unione delle due nature nell'unica persona di Cristo 58.
Altrettanto si deve dire del mistero della grazia e della libertà, anche se la sua premura principale, a causa della controversia, fu quella di stabilirne i termini, non mancò di aiutare gli umili a capire fin dove è possibile l'intima natura e il modo di conciliare le due verità. Questo modo lo trovò, ancora una volta, nell'uomo e in quello che c'è di più profondo in lui: l'amore.
Non ci resta dunque che vedere come, attraverso l'amore, Agostino si studi d'illustrare il grande mistero della libertà e della grazia, trovando in questa, che è appunto amore, la salvaguardia di quella.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:48

CAPITOLO QUARTO

LIBERALIS SUAVITAS AMORIS

Non si può scrivere qui un trattato sulla filosofia e sulla teologia dell'amore in Agostino, tema profondo e immenso, anzi centrale non meno di quelli dell'essere e dell'illuminazione, e forse di più, almeno per alcuni aspetti. Non sarà inutile però dirne qualcosa che aiuti a capire il " difficilissimo " problema che qui c'interessa. Lo farò toccando prevalentemente tre punti: l'amore centro della vita spirituale, l'amore fonte di libertà, l'amore garanzia di certezza.

1. L'amore centro della vita spirituale

Il lettore non si aspetti un discorso sulla fenomenologia dell'amore. Di questa Agostino ha parlato molto a proposito dell'amicizia 1 e anche della concupiscenza o amore disordinato 2. Ma qui non è il caso d'imboccare quella strada. Qui si vuol dire soltanto che filosoficamente e teologicamente considerato l'amore è al centro dello spirito umano ed è il cuore del mistero della grazia che salva.
1) Riduzione all'amore di tutta l'attività umana
Si sa che nella vita dell'uomo e nella storia dell'umanità egli riduce tutto all'amore: le passioni, le virtù, le due città, la grazia, la perfezione, i doni dello Spirito Santo, l'insegnamento della Scrittura, la bontà, la libertà, la volontà. E' inutile dire che l'amore è sempre in profonda simbiosi con la verità. Lo spirito umano è, pensa ed ama, indissolubilmente. Il verbo interiore secondo la bella definizione agostiniana altro non è che cum amore notitia. " Ecco perché, quando lo spirito si conosce e si ama, il suo verbo gli è unito tramite l'amore. E poiché ama la conoscenza e conosce l'amore, il verbo è nell'amore e l'amore nel verbo e tutti e due nello spirito che ama e dice il verbo " 3. Questa immanenza della conoscenza nell'amore e dell'amore nella conoscenza permette ad Agostino di parlare del primato dell'amore senza cadere nel volontarismo e può enunziare il celebre aforisma: " ama e fai ciò che vuoi " 4.
Le passioni dunque si riducono all'amore. Infatti " l'amore che brama avere ciò che ama è cupidigia, quello invece che possiede e si rallegra è letizia, se fugge ciò che lo contraria è timore, se avverte che questo lo colpisce è tristezza. Queste passioni sono cattive se l'amore è cattivo, buone se è buono " 5.
All'amore riconduce le virtù morali che altro non sono se non una modulazione dell'unica molla profonda dell'amore. " La temperanza è l'amore che si offre integro alla persona che ama, la fortezza l'amore che tollera tutto facilmente per la persona amata, la giustizia l'amore che serve solo all'amato e perciò domina rettamente tutto il resto, la prudenza l'amore che sceglie con sagacità e distingue le cose da cui è aiutata da quelle che lo impediscono ". Si tratta evidentemente, spiega, dell'amore di Dio, perché la virtù non è altro che " il sommo amore di Dio " 6 o, come dice altrove, l'ordo amoris 7.
All'amore la storia dell'umanità, divisa, in forza dell'amore appunto, in due città: " Due amori han creato due città, la città terrena l'amore di sé... la città celeste l'amore di Dio " 8, o, come dice in un altro luogo, la città terrena l'amore " privato ", la città celeste l'amore " sociale " 9, indicando con questi due aggettivi tutto l'abisso che corre tra l'egoismo e la carità.
All'amore la grazia della salvezza concepita come inspiratio dilectionis 10, " sine qua nemo pie vivit et cum qua nemo nisi pie vivit "; un dono tanto prezioso che rende buono e pio chi le possiede e senza il quale nessuno, per quante qualità abbia, può essere pio e buono. Su di esso dunque si gioca tutta la controversia pelagiana. " Da dove negli uomini - si chiede Agostino - la carità di Dio e del prossimo se non da Dio stesso? Infatti, se non proviene da Dio ma dagli uomini, hanno partita vinta i pelagiani; se invece proviene da Dio abbiamo vinto i pelagiani " 11.
La perfezione cristiana, poi, consiste essenzialmente nella carità e si misura dalla carità, la quale salendo di gradino in gradino - da incipiente diventa progredita, da progredita intensa, da intensa perfetta -, segna il salire della vita cristiana e ne indica l'apice 12; anche i doni dello Spirito Santo hanno la loro sintesi nella carità 13, come pure, più in generale, nella carità si riassume tutto l'insegnamento della Scrittura 14.
Ma Agostino va più a fondo. Vede presente negli abissi dello spirito umano l'amore insieme alla verità. Infatti esso, lo spirito umano, " mai non si ricorda di sé, mai non si conosce (anche se non sempre si pensa), mai non si ama " 15. L'amore è inseparabile dallo spirito umano come la verità, come l'essere, il quale, se è, è necessariamente pensante ed amante. Come non si concepisce intelletto senza la verità che lo informi - è la verità che costituisce l'intelletto nella sua natura e nella sua realtà -, così non si concepisce la volontà senza l'amore del bene, perché è quest'amore che la costituisce nell'essere volontà. Volontà e amore sono una stessa cosa, per cui " la volontà retta è un amore buono, la volontà perversa un amore cattivo " 16.
L'amore dunque non opera dal di fuori ma dal di dentro, come il " peso " nei corpi 17. L'intelletto è partecipe della luce divina, la volontà partecipe dell'eterno amore. Dio, che infondendo l'amore nei cuori, opera interiormente, opera nella natura stessa della volontà senza violarne le strutture, cioè fa in modo che il movimento e il peso verso il bene già presente nel profondo dello spirito superi ogni ostacolo e passi dall'amore siziente all'amore fruente.
2) Questioni semantiche
A questo punto vale la pena fermare per un istante l'attenzione sulla varietà, in questo argomento, del linguaggio agostiniano. Volontà, amore, dilezione, dilettazione, gioia, gusto, fruizione, soavità. Ecco alcuni termini che Agostino usa parlando della grazia e che gioverebbe studiare con particolare attenzione. Non essendo possibile farlo, bastino alcune indicazioni.
Agostino identifica la volontà con l'amore: " lo spirito umano è così costituito che mai non si ricorda di sé, mai non s'intende, mai non si ama " 18; identifica, contro l'opinione di altri (sembra di Origene), l'amore con la dilezione: " l'amore non significa se non la dilezione o la carità " 19, e parla pertanto indifferentemente di volontà o amore o dilezione: " la volontà, o l'amore o la dilezione, che è la volontà in tutta la sua forza, perché la nostra volontà, che fa parte della natura del nostro essere, secondo che è sollecitata o incontra degli oggetti che l'attraggono o la respingono, prova delle affezioni differenti " 20.
La dilezione poi genera la dilettazione 21, e questa la compiacenza nella legge di Dio, il gusto, la soavità, la gioia, il godimento o fruizione. La dilettazione non è qualcosa di diverso dalla volontà e dall'amore, come sembrò considerarla Giansenio, ma è la volontà stessa o l'amore che aderendo fortemente al bene supera ogni ostacolo contrario e diventa vittorioso, diventa la delectatio victrix 22, concetto su cui si è tanto equivocato.
Tutto pertanto si riduce all'amore. Giova leggere per intero il testo de La città di Dio: " La volontà retta è amore buono, la volontà perversa amore cattivo. Quindi l'amore che aspira ad avere ciò che ama è avidità, quello invece che possiede e si rallegra è letizia; se fugge da ciò che lo contraria è timore; se avverte ciò che lo colpisce è tristezza. Questi sentimenti sono cattivi se è cattivo l'amore, buoni se l'amore è buono " 23.
Sarebbe lungo qui definire la nozione dei singoli effetti psicologici che accompagnano la dilettazione (soavità, gusto, gioia, godimento, fruizione); dirò subito che uno di essi, la soavità, è fondamentale per capire l'azione della grazia, che è insieme efficace e " liberale ".

2. L'amore fonte di libertà

Il discorso fatto finora è preludio a quello che segue. Agostino, dopo aver ricondotto tutta l'attività umana all'amore, indica nell'amore la via per conciliare insieme la libertà e l'attrazione operante di Dio o, come noi siamo soliti dire, la libertà e la grazia efficace; indicando così la soluzione del problema " difficilissimo e a pochi intelligibile ".
L'indicazione ci viene a proposito del commento alla parola più forte insieme e più profonda che S. Giovanni usa nei riguardi della grazia operante: nisi Pater qui misit me traxerit eum (Gv 6,44). Agostino ne nota la fortezza: Non dixit: duxerit; sed traxerit 24: Non ha detto: se il Padre mio non lo conduce, ma se non l'attira. In questa forte parola prevede che i lettori trovino una difficoltà, e ammonisce: Noli te cogitare invitum trahi; trahitur animus et amore 25: non pensare di essere attratto contro la tua volontà: l'animo è attratto anche dall'amore. Dove, insieme alla difficoltà, c'è anche la soluzione. L'amore, essendo atto essenziale della volontà, non può essere mai contro la volontà: chi agisce amando, non agisce mai contro la sua volontà. Difficoltà e soluzione vengono riproposte ed esplicitate subito dopo. Dice Agostino: " Non dobbiamo temere il giudizio di quanti stanno a pesare le parole, ma sono incapaci d'intendere le cose di Dio; i quali, di fronte a questa affermazione del Vangelo, potrebbero dirci: quomodo voluntate credo, si trahor? ". Prima di sentire la risposta, cerchiamo di capire la difficoltà. Il quomodo voluntate credo, si trahor? significa qui: come credo di mia propria volontà, di mia iniziativa, liberamente, senza costrizione, se vengo attratto? O in forma negativa: come non credo contro voglia - l'oratore aveva detto poco prima: nolite cogitare invitum trahi -, se vengo attratto? Inutile dire che Agostino imposta il problema della libertà della fede di cui aveva parlato poco prima concludendo che l'uomo può far molte cose non volendo, ma: credere non potest nisi volens 26. E' il nemo credit invitus di cui abbiamo parlato 27. Questo problema gli viene riproposto dalle parole evangeliche che sembrano metterlo in forse.
Quale la risposta? Ecco le sue parole: Ego dico: parum est voluntate, etiam voluptate traheris 28. Parole chiare e oscure insieme. Che cosa vogliono dire? Non certamente che la voluntas e la voluptas sono due forze parallele che portano a Cristo anche se la prima è insufficiente; ma piuttosto che non basta parlare di volontà se non si parla anche di " voluttà " o piacere. E' il piacere infatti che muove la volontà e opera l'attrazione. " E' poco parlare di volontà, quando non si parli anche, a proposito di attrazione, di piacere. Che significa - continua Agostino - essere attratti dal piacere? Metti il tuo piacere nel Signore, ed egli soddisferà i desideri del tuo cuore. Esiste anche un piacere del cuore, per cui esso gusta il pane celeste ".
Lo conferma la citazione di Virgilio: " Se il poeta ha potuto dire: Ciascuno è attratto dal suo piacere, non dalla necessità ma dal piacere, non dalla costrizione ma dal diletto; a maggior ragione possiamo dire che si sente attratto da Cristo l'uomo che trova il suo diletto nella verità, nella beatitudine, nella giustizia, nella vita eterna, in tutto ciò, insomma, che è Cristo " 29.
L'attrazione del Padre non viola, dunque, la libertà perché opera attraverso l'amore. Ora l'amore, muovendo dal di dentro, secondo la natura stessa della volontà, non si oppone ma s'identifica con la libertà. E' libero solo chi agisce per amore; per amore, non per timore: questo non allarga ma restringe gli sforzi della libertà. Infatti la libertà esclude il timore 30. Perciò " le opere buone debbono esser fatte non per timore ma per amore, non per paura della pena ma per la dilettazione della giustizia. Ipsa est enim vera et sana libertas " 31.
A questo proposito il nostro autore ha creduto bene di coniare un principio: liber facit qui libens facit 32: agisce con libertà chi agisce con amore. La conseguenza è che la legge dell'amore è la legge della libertà: lex caritatis lex libertatis 33.
Vale la pena di riportare un testo anche se lungo nel quale Agostino difende e dimostra che la grazia non toglie ma conferma la libertà dell'arbitrio. " Per la legge si ha la cognizione del peccato, per la fede l'interpretazione della grazia contro il peccato, per la grazia la sanazione dell'anima dal vizio del peccato, per la sanazione dell'anima la libertà dell'arbitrio, per il libero arbitrio l'amore della giustizia, per l'amore della giustizia l'osservanza della legge. Come dunque la legge non si elimina, ma si conferma per la fede, perché la fede impetra la grazia di poter praticare la legge, così il libero arbitrio non si elimina per la grazia, ma si conferma, perché la grazia risana la volontà con la quale si ami liberamente la giustizia " 34.
Per approfondire il principio del liber facit qui libens facit Agostino insiste sulla suavitas frutto della grazia e origine della libertà, coniando anche qui un'espressione che può essere presa come emblematica della sua dottrina sulla grazia operante e cooperante: la liberalis suavitas amoris 35; la soavità dell'amore che genera la libertà.
Commentando le parole del Salmo 118,103 (Quanto sono dolci al mio palato le tue parole; sono alla mia bocca più gradite del miele), scrive: " Questa è la soavità che Dio dona perché la nostra terra produca il suo frutto; perché, cioè, noi operiamo il bene veramente bene; non quindi per paura di mali temporali ma per l'attrattiva che possiede in se stesso il bene spirituale " 36.
Altrove, parlando sempre al popolo: " Credi e vieni; ama e sei attratto... è dolce, è soave: la stessa soavità ti attrae; ipsa suavitas te trahit " 37. E nelle opere dommatiche la stessa dottrina: Dio opera interiormente affinché " cum ineffabili suavitate credatur " 38.
Dalla soavità la libertà: gli angeli servono Dio con libertà; ma perché con libertà? perché con soavità: liberaliter, quia suaviter 39. Gli esempi soccorrono la teoria: sono celebri quelli delle noci o del ramo verde. " Tu mostri alla pecora un ramo verde, e l'attrai. Mostri delle noci ad un bambino e questo viene attratto: egli corre dove si sente attratto; è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione; è il suo cuore che rimane avvinto " 40. Dal sensibile Agostino sale al mondo dello spirito: " Ora se queste cose, che appartengono ai gusti e ai piaceri terreni, esercitano tanta attrattiva su coloro che amano non appena vengono loro mostrate - poiché veramente 'ciascuno è attratto dal suo piacere' -, quale attrattiva eserciterà il Cristo rivelato dal Padre? Che cosa desidera l'anima più ardentemente della verità? " 41.
Non v'è dubbio: è l'amore, la dilettazione, la soavità che assicurano la libertà dell'uomo attratto dalla grazia. Ma ne assicurano anche l'efficacia effettiva? E' quello che vedremo.

3. L'amore fonte d'infallibile efficacia

L'amore non è solo la chiave per capire la libertà dell'uomo che risponde all'azione della grazia, ma la chiave altresì per capire l'infallibilità dell'azione divina. L'insegnamento agostiniano si può riassumere come in un climax in tre affermazioni.
La prima è questa: ancorché conosciamo ciò che dobbiamo fare, nisi etiam delectet et ametur, non agitur, non suscipitur, non bene vivitur 42.
La seconda, non meno importante, è quest'altra: " Tanto più fortemente noi vogliamo qualcosa quanto meglio conosciamo la grandezza della sua bontà e quanto più ardentemente ci diletta " 43.
La terza, infine, la più forte, è quest'altra ancora: Quod amplius nos delectat, secundum id operemur necesse est 44.
La conseguenza è che l'amore, rendendo leggera ogni cosa pesante e dolce ogni cosa amara, assicura il raggiungimento del fine. Esempio classico il martire. Sul martirio Agostino ha parole di profonda teologia e di alta mistica. Eccone un esempio: " I martiri sono i veri e perfetti amanti della giustizia... [il martire] ama, arde, bolle, calpesta tutto ciò che diletta, e passa; si appressa alle cose aspre, orrende, truculente, minac ciose, le calpesta, le spezza, e passa ". " Oh amare, oh andare, oh perire a sé, oh pervenire a Dio! " 45. Queste parole e queste esclamazioni dicono tutta l'ammirazione e l'entusiasmo di Agostino per la fortezza dei martiri e la sua profonda convinzione che davvero omnia vincit amor.
Si può ricordare anche a questo proposito l'esempio della conversione di Agostino stesso. Dopo la drammatica lotta tra la carne e lo spirito, tra gli ideali puramente terreni e quelli altamente sapienziali descritta nel libro VIII delle Confessioni, dopo la lettura d'un passo di San Paolo, scrive: Statim... quasi luce securitatis infusa cordi meo omnes dubitationes tenebrae diffugerunt 46. Fu quella luce di sicurezza che determinò la sua conversione.

II

LA GRATUITA' DELLA GRAZIA

Abbiamo seguito Agostino mentre affrontava il difficile tema della libertà dell'uomo e dell'azione divina della grazia; seguiamolo mentre approfondisce l'altro aspetto di questo mistero: la gratuità della grazia, così spesso inculcata dalla Scrittura, soprattutto da S. Paolo, e così cara al vescovo d'Ippona che vede in essa il segno della misericordia divina che non ha limiti.
Anche qui come altrove cominceremo con l'indicare il fondamento biblico a cui il nostro dottore si richiama e a cui vuol restare fedele, anche se spesso quel fondamento offre non piccole difficoltà alla ragione umana; poi indicheremo la dottrina pelagiana e la risposta agostiniana; illustreremo inoltre i tre punti della gratuità della grazia: la giustificazione, l'inizio della fede, la perseveranza finale; come conseguenza di questa gratuità tratteremo la dottrina agostiniana del merito; infine vedremo come Agostino passi incolume tra il " vanto " del giusto e le " scuse " del peccatore, il primo - il " vanto " - escluso dalla grazia, le altre - le " scuse " - non ammesse dalla responsabilità umana nel peccato.

CAPITOLO QUINTO

FONDAMENTO BIBLICO DEL DONO GRATUITO DELLA GRAZIA

Cominciamo da qui, perché da qui comincia Agostino. I testi biblici in proposito sono molti, e si può esser certi che il nostro dottore li ha raccolti tutti. Non solo, ma li ha commentati e ha fatto leva su di essi per difendere contro i pelagiani un aspetto essenziale della grazia: la gratuità.

1. Romani 9, 10-29 nella risposta a Simpliciano

Cominciò appena vescovo con la risposta a Simpliciano, successore di Ambrogio. Simpliciano, succeduto nell'episcopato al suo figlio spirituale 1, scrisse ad Agostino, alla cui conversione aveva molto contribuito 2, per proporgli alcuni dubbi sull'interpretazione della Scrittura. Due di essi riguardavano la Lettera ai Romani, dei quali il secondo verteva sulla pericope 9, 10- 29, cioè sull'elezione divina e sul dono gratuito della fede, questione quanto mai oscura e difficile. Il giovane vescovo d'Ippona 3 che venerava Simpliciano come un " padre " 4, nonostante le difficoltà dell'argomento, si fece un dovere di rispondere. Rispose infatti intessendo il suo discorso su questo principio: " Prima di tutto terrò presente, per consultarla, l'intenzione dell'Apostolo che appare lungo tutta la lettera. L'intenzione è questa: nessuno si glori delle proprie opere; de operum meritis nemo glorietur " 5.
Seguendo questa intenzione e tenendo presente tutta la pericope paolina ed altri passi scritturistici, come la Lettera agli Efesini, la interpreta senza esitazione, anche se dopo lunga indagine, secondo l'assoluta gratuità della grazia che precede tutte le buone opere: le precede attraverso il dono della fede. Osserva che i giudaizzanti, i quali volevano sottomettere i cristiani ai riti giudaici, " non capivano che proprio perché la grazia è evangelica, non è dovuta alle opere, altrimenti la grazia non è più grazia (Rom 11,6) ". La prima grazia è dunque quella della fede: " l'uomo comincia a percepire la grazia da quando comincia a credere a Dio "; questa è minore nei catecumeni, maggiore nei battezzati 6. Esempio di questa elezione divina che dona la fede è Giacobbe che Dio preferì ad Esaù (Rom 9, 10-13), elezione assolutamente gratuita, perché non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell'uomo, ma da Dio che usa misericordia (Rom 9,16), cioè dipende dal disegno divino fondato sull'elezione (Rom 9,11): " Perció - commenta Agostino - non è il disegno divino che rimane fermo secondo l'elezione, ma è l'elezione che proviene dal disegno divino: ex proposito electio. Questo disegno è un disegno di misericordia che elargisce il dono della fede prima di ogni merito: ante omne meritum est gratia, poiché Cristo è morto per gli empi " 7.
A questo punto Agostino prende le difese di Esaù. " C'è una questione - scrive - che ci angustia sommamente ed è questa: perché la misericordia non è stata usata nei riguardi di Esaù? " 8. Dov'è una condizione uguale, perché una sorte tanto diversa? Né si può dire che Esaù sia stato " riprovato " perché Dio nella sua prescienza ha previsto la cattiva volontà di lui. Infatti " se per la prescienza di Dio della futura cattiva volontà di Esaù, perché non dire che Giacobbe fu 'approvato' per la prescienza della sua buona volontà futura? " 9. Del resto " chi può dire che all'Onnipotente manchi la maniera di persuadere chiunque perché creda? " 10. Resta dunque da vedere se, quando Dio abbandona (deserit) non chiamando quomodo scit ei congruere ut vocantem non respuat 11, non sia già una pena derivante da un giusto giudizio per quanto occulto 12.
Prima di seguire Agostino in questa faticosa ricerca giova ricordare un passo delle Ritrattazioni. Recensendo quest'opera che stiamo esaminando, dice a proposito della nostra questione: " Nella soluzione di tale questione si è faticato a favore del libero arbitrio della volontà umana, ma vinse la grazia di Dio: vicit gratia Dei " 13. Chi legge attentamente quanto scrisse nella risposta a Simpliciano, non può non essere d'accordo. Faticò molto per trovare una ragione che riponesse nella volontà dell'uomo la distinzione tra gli eletti e i non eletti. Prima di allora - come dirò subito - l'aveva trovata nella volontà di credere e di non credere, ora si accorge che era impossibile: l'Apostolo gli sbarrava la strada. Gliela sbarrava non solo con quella tagliente domanda della 1 Cor 4,7: Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?; ma anche con le forti parole della pericope della Lettera ai Romani 9,18: Dio usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole, col conseguente esempio del vasaio che è padrone di fare con la medesima pasta (massa) un vaso per uso nobile e uno per uso volgare (Rom 9,21). Agostino spiega che Dio non indurisce infondendo la malizia, ma non impartendo la misericordia, non spingendo a peccare ma abbandonando l'uomo a se stesso 14. Ma questo non toglie la profondità del mistero. E' chiaro in ogni caso che la distinzione tra " reprobi " e " approvati " sta nell'imperscrutabile disegno di Dio, di fronte al quale l'uomo non può non ricordarsi della sua condizione di uomo peccatore. O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? (Rom 9,20).
La luce che può rischiarare e rasserenare un poco la mente umana è una sola: la certezza - una certezza incrollabile che dobbiamo ritenere con fermezza assoluta 15 -, che non c'è iniquità presso Dio 16. Dio non avversa nelle sue creature se non il peccato 17. Ora il genere umano è diventato in Adamo una " massa " di peccato: una quaedam massa peccati 18, cui è dovuta la pena meritata. Questa pena Dio per misericordia la condona a chi vuole, ed aequitate occultissima la esige da chi vuole. Questa divina economia dimostra due cose: " ciò che dobbiamo temere affinché attraverso il timore ognuno si converta a Dio con pietà, e i ringraziamenti senza fine che dobbiamo alla misericordia divina, la quale dimostra nella pena degli uni qual è il dono che fa agli altri " 19. Noterà il lettore questa conclusione pastorale, che è lo scopo ultimo a cui mirano tutte le indagini, anche le più profonde, di Agostino. Ne segue dunque che i " reprobi " non possono che incolpare se stessi, gli " approvati " non possono che rendere grazie a Dio, e così qui gloriatur in Domino glorietur (1 Cor 1,31), che era appunto l'intenzione dell'Apostolo in tutta la pericope.

2. Un cambiamento che Agostino riconosce e confessa.

Ho detto sopra che, studiando la pericope paolina - Rom 9, 10-29 - per rispondere a Simpliciano, quello che sarà il dottore della grazia si accorse che stava commettendo un errore circa la grazia, cioè l'errore di credere che l'inizio della fede derivasse dall'uomo, e quindi dall'uomo il merito cui faceva seguito il dono della giustificazione e delle opere buone.
Si sa che molto si è insistito e molto s'insiste sui cambiamenti del pensiero agostiniano. Giuliano pretese che il vescovo d'Ippona avesse cambiato opinione circa il peccato originale. Alcuni moderni, come il Turmel, il Buonaiuti e il Gross, lo seguono e gli danno ragione 20. Agostino, appellandosi alle sue opere, anche a quelle giovanili, protestò fortemente, affermando di non aver cambiato opinione su questo punto 21: la critica deve dargli ragione 22. Sulla grazia invece confessò candidamente il suo errore, indicando il momento in cui lo riconobbe e lo corresse 23. Di esso del resto sono testimonianza alcune opere scritte prima del 397.
Leggiamo nell'Esposizione di alcune proposizioni della lettera ai Romani: " non predestinò se non colui che previde che avrebbe creduto e avrebbe seguito la sua vocazione " 24; e poco dopo: " il credere è nostro, ma operare il bene è di Colui che dà a coloro che credono lo Spirito Santo " 25. Nel ritrattare le Ottantatré diverse questioni, q. 68, sente il bisogno di avvertire, a proposito di alcune sue osservazioni, che " la misericordia di Dio previene la stessa volontà " 26. Sono alcuni esempi 27.
Invece di proseguire, vale la pena di notare che nelle Diverse questioni a Simpliciano Agostino corresse decisamente questa errata convinzione, che da allora in poi sparisce dai suoi scritti, ma non lo disse esplicitamente: lo dirà nelle Ritrattazioni e poi nelle ultime opere, quando nel suo antico errore scoprirà quello dei monaci provenzali, i quali si appellavano alle sue opere ma non si preoccupavano di progredire insieme a lui nella dottrina 28.
A proposito di questo cambiamento è importante notare che in una questione tanto delicata - la electio gratiae - il pensiero agostiniano si è maturato per ragioni bibliche, non per ragioni polemiche, e si è maturato molto tempo prima - 15/16 anni prima - che scoppiasse la controversia pelagiana e 30/31 anni prima che i monaci provenzali si appellassero alla sua antica dottrina e la facessero propria 29.
Ma forse per intendere meglio l'atteggiamento agostiniano è utile distinguere tre momenti: quello della fede semplice, quello della prima riflessione e quello della maturità. Del primo se ne ha una traccia nella preghiera dei Soliloqui, del secondo nei testi ricordati, del terzo nelle Diverse questioni a Simpliciano. Infatti nella preghiera dei Soliloqui, cominciando, prega Dio così:" Concedimi di pregarti bene, poi d'esser fatto degno ch'io sia esaudito, infine che tu mi liberi " 30. E poco appresso: " Comanda ed ordina ciò che vuoi, ti prego, ma guarisci ed apri le mie orecchie affinché possa udire la tua voce. Guarisci ed apri i miei occhi affinché possa vedere i tuoi cenni " 31. Ed ancora: " Se tu abbandoni, si va in rovina; ma tu non abbandoni perché sei il sommo bene che sempre si è raggiunto se si è rettamente cercato; ed ha rettamente cercato chiunque sia stato da te reso capace di cercare rettamente " 32. E' evidente che Agostino, convertito ma ancora catecumeno, ascrive a Dio l'inizio stesso del suo cammino verso di Lui. Del resto in un altro dialogo di Cassiciaco ascrive apertamente alla preghiera di sua madre la sua conversione: " Io credo senza incertezze ed affermo che per le tue preghiere Dio mi ha concesso l'intenzione di non preporre, non volere, non pensare, non amare altro che il raggiungimento della verità. E continuo a credere che per le tue richieste conseguiremo un bene tanto grande cui abbiamo per i tuoi meriti aspirato " 33. Lo stesso pensiero troviamo nel Dono della perseveranza dove parlando delle Confessioni dice: " Se vi ricordate, con il mio racconto [della conversione] mostrai che mi fu concesso di non perire grazie alle lacrime quotidiane e piene di fede di mia madre " 34. Questa coincidenza tra le prime opere del catecumeno e le ultime del vecchio maestro è molto significativa e ci lascia pensare che Agostino non è mai avaro di sorprese.

3. La grazia è, per definizione, gratuita

Ma se qualcuno pensasse che per sostenere la gratuità della grazia il vescovo d'Ippona si riferisce solo alla pericope di Rom 9, 10-19, avrebbe torto. Egli trova e propone tutti i testi paolini, che non sono pochi. Il primo tra essi, e tante volte citato, è preso dalla stessa Lettera ai Romani 11,6, dove l'Apostolo, parlando del tema della " elezione della grazia ", tema tanto caro ad Agostino, commenta: E se lo è per la grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rom 11,6). Il dottore della grazia ripete molte volte le parole paoline, fin da quando comincia la polemica con i pelagiani su questo tema della gratuità 35, e spesso le commenta: " Che cos'è la grazia? Un dono gratuito. Qualcosa che viene regalato, non qualcosa che è dovuto. Se essa ti fosse stata dovuta, il dartela avrebbe significato pagarti un debito, non farti una grazia " 36.
Ma non bisogna equivocare, spiega insistentemente Agostino. Dice al suo popolo con ansia pastorale e chiarezza teologica: " Comune a tutti è la natura, non la grazia. Non si deve reputare grazia la natura [ricevuta]; che se la si considera grazia, è perché anch'essa è donata gratuitamente. Difatti non fu l'uomo, che ancora non esisteva, a meritarsi l'esistenza " 37. " Questa è la grazia. Al di là di quella grazia ordinaria e d'indole naturale per cui noi che non esistevamo diventammo uomini ( grazia non meritata perché non esistevamo), al di là di quella grazia, quest'altra è la grazia più grande: essere diventati suo popolo e pecore del suo pascolo, per l'opera del nostro Signore Gesù Cristo " 38. Ed insiste: " Non consideriamo quindi la grazia della creazione della natura umana, grazia comune ai cristiani ed ai pagani. La grazia più grande è questa: non l'essere stati creati uomini ad opera del Verbo, ma l'essere diventati credenti ad opera del Verbo incarnato " 39.
Non si poteva essere né più espliciti né più incisivi. Nella Predestinazione dei Santi la differenza tra natura e grazia viene espressa in chiave di potere ed avere: il potere appartiene alla natura degli uomini, l'avere alla grazia dei fedeli. " Non tutti hanno la fede (2 Thess 3,2), anche se tutti possono averla...In conclusione, poter avere la fede, come poter avere la carità, appartiene alla natura degli uomini: ma avere la fede, come avere la carità, appartiene alla grazia dei fedeli. Pertanto quella natura che ci dà la possibilità di avere la fede, non distingue uomo da uomo; la fede invece distingue il credente dal non credente " 40.
A sigillo di questo attento insegnamento - che distingue tra natura e grazia e considera anche la natura un dono gratuito (dando in questo ragione a Pelagio), ma vuole che non si confonda e che si affermi, oltre alla natura, anche la grazia, riservando questo secondo nome al dono della salvezza a cominciar dalla fede - possono essere prese le parole della Città di Dio dette degli angeli: " Dio era presente in essi costituendo la natura ed elargendo nello stesso tempo la grazia: simul eis et condens naturam et elargiens gratiam " 41.
L'alioquin gratia iam non est gratia come netta affermazione di gratuità torna così frequentemente nelle opere agostiniane che non vale la pena d'insistere nella vana erudizione delle citazioni 42, mentre è molto più importante seguire il nostro dottore nell'ulteriore approfondimento delle Scritture che gli rivelano nuovi orizzonti.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:49
4. La gratuità della grazia ha per fine la gloria di Dio

Tra questi orizzonti, al primo posto, c'è proprio questo: la gloria di Dio. Il testo chiave è tratto di nuovo da S. Paolo, 1 Cor 1, 30-31 cui va congiunto Ef 2, 8-9. I due testi vengono esposti e difesi nella dottrina della grazia. In essi Agostino vede la rivelazione dell'aspetto più profondo del piano divino della salvezza: ogni uomo giusto deve gloriarsi non nella sua giustizia ma nella giustizia di Dio.
In un discorso al popolo prende in esame due testi biblici: 1 Cor 1,31 di cui stiamo parlando e il Sal 70 ,2. Comincia così: " Siamo stati ammoniti dall'Apostolo che chi si gloria si glori nel Signore e a Lui, il Signore, abbiamo cantato: liberami nella tua giustizia e salvami. Questo è dunque gloriarsi nel Signore, gloriarsi non nella propria ma nella giustizia di Dio... ". I due testi diventano poi il filo conduttore di tutto il discorso. Poco dopo infatti ripete le parole dell'Apostolo e commenta: " Nulla è più al sicuro, nulla è più difeso [che gloriarsi nel Signore]. Se puoi, hai che cosa imparare: se ti sarai gloriato nel Signore non sarai confuso... Infatti colui [il salmista] che non diceva: liberami nella mia giustizia, ma liberami nella tua, aveva detto poco prima: in te ho sperato, Signore, non sarò confuso in eterno ". Spiega poi che gloriarsi nel Signore significa gloriarsi in Cristo crocifisso dove sono tutti i tesori della sapienza e della scienza, e conclude ripetendo ancora i due testi biblici che costituiscono il fondamento della speranza cristiana 43.
Non sarà dispiaciuto al lettore se mi sono trattenuto un poco più a lungo su questo discorso: esso dimostra che Agostino pastore ha sempre presenti i grandi princìpi della grazia e sa tirare da essi le conclusioni necessarie per la pietà cristiana a cui tende la sua sollecitudine di pastore. Lo stesso avviene dell'altro passo, molto simile del resto, della Lettera agli Efesini che va spesso congiunto a Tit 3,5. Dopo aver citato le parole agli Efesini, commenta: " Non credere che lo abbia ricevuto meritando, tu che non avresti meritato se non avessi ricevuto: la grazia precede il merito: non la grazia del merito, ma il merito della grazia... ". Poi, rivolto al Signore: " Tu precedi ogni merito affinché i miei meriti seguano i tuoi doni. Senz'altro tu doni gratuitamente, salvi gratuitamente, tu che non trovi nulla [nell'uomo] per salvarlo e trovi molto per condannarlo " 44. E altrove, commentando un salmo, cita il passo paolino e spiega: " Ebbene, guardiamo alla grazia di Dio non solo per averci egli creati ma anche per averci chiamati alla nuova vita... Devi ringraziare il tuo artefice non per la sola creazione; ascolta un altro intervento, che è pure una creazione. Dice: Non per le opere, affinché nessuno se ne vanti (Ef 2,9). Ma colui che dice: Non per le opere, affinché nessuno se ne vanti, che cosa ha affermato prima? Mediante la grazia voi siete stati salvati attraverso la fede e questo non per opera vostra. Parole dell'Apostolo, non mie. Mediante la grazia siete stati salvati attraverso la fede e questo (cioè l'essere stati salvati attraverso la fede) non per opera vostra. In effetti la semplice menzione della grazia lasciava intendere che non era per opera vostra, ma per escludere ogni altra interpretazione si degnò parlare più apertamente. Dammi un'anima in grado di capire: egli ha detto tutto. Siete stati salvati mediante la grazia. Sentendo la parola grazia intendi gratis. E se gratis, tu non vi hai apportato nulla, non hai meritato nulla, poiché se si fosse trattato d'una qualche ricompensa accordata a meriti [precedenti], non sarebbe stata una grazia ma, appunto, un compenso. Dice: Mediante la grazia siete stati salvati attraverso la fede. Spiegaci un po' queste tue parole in una maniera più chiara a motivo di certi presuntuosi, di certi tipi che cercano di lusingare se stessi e misconoscendo la giustizia di Dio vogliono affermare una loro propria giustizia. Ascolta lo stesso concetto con parole più chiare. Dice: E questo, cioè che siete stati salvati mediante la grazia, non è per opera vostra ma è dono di Dio. Ma potrebbe darsi che anche noi abbiamo fatto qualcosa per meritare i doni di Dio. Dice: Non è dalle opere affinché nessuno se ne glori. E allora? Non siamo noi ad operare il bene? Certo che lo operiamo. Ma come? Con la forza di colui che opera in noi. Con la fede infatti noi facciamo spazio nel nostro cuore a colui che in noi e per nostro mezzo opera il bene. Ascolta in qual maniera tu operi il bene. Di lui infatti siamo fattura, creati in Cristo Gesù per le opere buone, nelle quali dobbiamo camminare (Ef 2, 8-10) " 45.
La lunga citazione, appunto perché lunga, non ha bisogno di commenti per chi vuol conoscere l'aderenza di Agostino, dottore della grazia, alla Bibbia. Nei tre versicoli della Lettera agli Efesini egli trova il fondamento di tre verità che entrano nei tessuti del dono della grazia e del mistero della predestinazione:
1) la nostra salvezza proviene dalla fede, non dalle opere,
2) non proviene dalle opere perché nessuno se ne glori,
3) come uomini nuovi siamo fattura di Dio, creati in Cristo nelle opere buone. Le nostre opere buone, spiega altrove Agostino, non negano la libertà ma suppongono la grazia.
Il ne quis glorietur (Ef 2,9) o (in positivo) qui gloriatur, in Domino glorietur (1 Cor 1,31), se ricorrono spesso negli scritti agostiniani - i testi riportati sopra non sono che un saggio -, nelle ultime opere, quelle sulla questione semipelagiana, che è appunto la questione della gratuità della grazia, assumono un compito decisivo e fondante. In un passo chiave - su di esso, per la sua importanza, tornerò a lungo nella Introduzione all'opera 46 -, dirà che tutta la ragione del grande mistero della predestinazione sta proprio in questo: Dio ha voluto dimostrare che nessuno deve gloriarsi in se stesso: ogni bocca dev'essere ostruita (Rom 3,19) - solo il silenzio adorante di fronte ai giudizi di Dio -, e chi vuol gloriarsi si glori nel Signore 47.
Agostino insiste su questo testo, e non solo su esso, ma su tutta la pericope: 1 Cor 1, 29-31, ripetendo con l'Apostolo le ragioni del piano divino: " Per estirpare completamente la superbia (si noti il motivo spirituale che s'inserisce in quello teologico), piacque a Dio che nessuna carne si gloriasse davanti a lui, cioè nessun uomo. Ma di che cosa non si deve gloriare la carne davanti a lui se non dei propri meriti? E certo meriti poteva averne, ma li ha perduti; e li ha perduti con lo stesso mezzo con cui avrebbe potuto averli, cioè con il libero arbitrio. Per questo non resta a coloro che devono essere liberati nient'altro che la grazia di colui che li libera. Così dunque nessuna carne si glori di fronte a lui " 48.
E' inutile dire che questi testi, e altri di cui è ricco S. Paolo, tornano spesso nelle opere predette e costituiscono la teologia biblica che Agostino va esponendo sull'assoluta gratuità della grazia.
Potremmo fermarci qui, ma giova ricordare esplicitamente un testo che per lui fu il più convincente e lascia pensosi anche noi (1 Cor 4,7), un testo che merita comunque tutta l'attenzione per l'influsso che ha esercitato nella dottrina della grazia.

5. " Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? "

Applicato, come faceva Agostino e come facevano molti al suo tempo 49, al piano spirituale della grazia, il testo paolino aveva un significato profondo e un grosso vantaggio. Conteneva infatti tre verità insieme:
1) l'uomo non ha ragione di gloriarsi in se stesso;
2) non ha ragione perché tutto ciò che possiede lo ha ricevuto da Dio;
3) è Dio che distingue tra uomo e uomo e non è l'uomo con le sue qualità.
Chi ti distingue? Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l'hai ricevuto, perché te ne glori come se non lo avessi ricevuto? (1 Cor 4,7).
Della forza di questo testo per radicare in lui la convinzione dell'assoluta gratuità della grazia, Agostino parla due volte: nelle Ritrattazioni e nella Predestinazione dei Santi.
Nella prima opera lo cita a proposito dell'approfondimento della dottrina dell'Apostolo e del cambiamento di opinione di cui si è detto. " Si è faticato per il libero arbitrio della volontà umana, ma vinse la grazia di Dio ". L'ho ricordato sopra. Ma Agostino continua: " non si poté arrivare se non a capire (ed ammettere) quanto con chiarissima verità disse l'Apostolo ". E cita 1 Cor 4,7. Aggiunge poi la testimonianza di S. Cipriano: " Anche il martire Cipriano, volendo dimostrare tutto questo [cioè quello detto dall'Apostolo nel luogo citato], lo definì con lo stesso titolo [della sua esposizione] dicendo: 'Non dobbiamo gloriarci di nulla, perché nulla è nostro' " 50.
Nella Predestinazione dei Santi non solo riporta tutto il testo delle Ritrattazioni 51, ma dichiara apertamente, per ben due volte, che si era convinto di essere nell'errore " principalmente con questo passo [dell'Apostolo] " 52. A confermare la sua convinzione soccorreva, come si è visto, la testimonianza di Cipriano. Ne riporterò il testo un poco appresso.
Intanto vale la pena di notare la parte singolare di questo testo paolino nelle ultime controversie sulla grazia. Ai monaci di Adrumeto faceva buon gioco per confermare la loro opinione sulla inutilità della correzione fraterna 53; a quelli della Provenza faceva difficoltà per la loro dottrina sull'inizio della fede, difficoltà che superavano facendo un'eccezione alla sua universalità 54. Agostino risponde agli uni e agli altri, conservando al testo biblico il suo significato universale e profondo. Lo vedremo meglio in seguito attraverso la polemica coi pelagiani e semipelagiani.

CAPITOLO SESTO

DOTTRINA PELAGIANA E RISPOSTA AGOSTINIANA

RAgostino aveva scritto molte opere contro i pelagiani sul peccato originale, la impeccantia, la necessità della grazia, la redenzione, quando s'incontrò con un altro aspetto del loro insegnamento, gravemente lesivo, non meno degli altri, della dottrina cattolica: la dipendenza della grazia dai nostri meriti.

1. Pelagio e i pelagiani

Recensendo gli Atti del sinodo aveva trovato questa proposizione, tratta da un'opera di Celestio, discepolo di Pelagio, e contestata al maestro: la grazia di Dio viene data secondo i nostri meriti. Pelagio non riconobbe per sua questa proposizione e la condannò 1, ma poi dichiarò di suo: " Noi... diciamo che Dio dona tutte le grazie a chi è degno di riceverle " 2. Queste parole rendono Agostino perplesso e lo inducono a raccogliere in poche pagine gli argomenti biblici a favore dell'assoluta gratuità della grazia, compresa la grazia della fede, servendosi soprattutto di Paolo, il quale proclamava altamente con l'esempio e la dottrina che non chi è degno riceve la grazia, ma è la grazia che rende l'uomo degno di ricevere il premio e pertanto i meriti dell'uomo sono doni di Dio 3.
A questo punto si poneva il problema del vero pensiero di Pelagio. Agostino, esaminando le opere da lui scritte dopo il sinodo di Diospoli, lo studierà per ciò che riguarda il peccato originale, la natura e la necessità della grazia, tirandone conclusioni negative circa la sincerità dell'autore 4; ma non ci sono opere che studino il problema sotto l'aspetto della grazia che precede ogni merito umano. Ma forse non ce n'era bisogno. Ad Agostino divenne sempre più chiaro che se non Pelagio - lasciamo da parte questa precisazione storica -, almeno i pelagiani facevano dipendere la grazia dai meriti dell'uomo.
Poco dopo gli Atti di Pelagio scrisse la celebre lettera 194 5 per dimostrare la gratuità della grazia. Dando ai monaci di Adrumeto, che vi avevano trovato difficoltà, la chiave interpretativa, dice loro: " Sappiate che quella lettera fu scritta contro i nuovi eretici pelagiani. Questi affermano che la grazia ci viene largita nella misura dei nostri meriti, cosa questa che induce uno a vantarsi non già nel Signore, ma in se stesso, vale a dire nell'uomo, e non affatto nel Signore. Orbene, è proprio questo che è vietato dall'Apostolo " 6.
Qualche anno dopo, nei libri Contro le due lettere dei Pelagiani, non solo appare chiara la dottrina che questi difendevano, ma troviamo anche l'argomento con cui intendevano sostenerla. Questo era di natura strettamente polemica e consisteva nell'accusare di fatalismo chi difendeva il contrario: Sub nomine gratiae fatum asserunt 7, perché, sostenevano, fato fit quod merito non fit 8. Nello stesso tempo appare negli scritti agostiniani la gratuità della grazia come una delle tre grandi verità che la Chiesa cattolica difendeva contro i pelagiani 9.
Non fa dunque meraviglia di trovare nelle ultime opere queste affermazioni: " Quando [i pelagiani] che non sono difensori ma esaltatori e distruttori del libero arbitrio, vengono convinti che la grazia, che ci viene data per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, non è né la conoscenza della legge divina, né la natura, né la sola remissione dei peccati - si noti questa precisazione agostiniana che dimostra come il dottore della grazia conoscesse bene i tre sensi secondo i quali i pelagiani parlano di grazia - ... essi si volgono a quest'altra tesi: si sforzano di dimostrare con ogni mezzo che la grazia di Dio è concessa secondo i nostri meriti. Essi dicono:'Anche se essa non è concessa secondo il merito delle opere buone, perché è per mezzo di essa che operiamo bene, tuttavia è concessa secondo il merito della volontà buona; infatti la volontà buona di colui che prega precede la grazia e prima ancora c'è stata la volontà di colui che crede: la grazia di Dio che esaudisce segue secondo questi meriti' " 10.
Secondo il metodo allora frequente e dopo, Agostino non cita la fonte precisa di queste parole, ma chi conosce la sua scrupolosità nell'informarsi sulle dottrine che prende a confronto e sull'attenzione che usa per riportarle con esattezza, non può dubitare che questo era l'insegnamento non dirò di Pelagio, ma certamente dei pelagiani 11. Del resto non molto tempo dopo sarà informato da Prospero e Ilario che qualcosa di poco diverso veniva difeso dai monaci provenzali 12.

2. Risposta di Agostino

In ogni modo Agostino s'impegna a rispondere con tutte le risorse del suo arsenale teologico, convinto che si tratti di una delle grandi verità della fede - l'ho detto sopra e lo ripeterò più ampiamente altrove 13 - che costituiscono il fondamento della pietà cristiana. Giova ripetere, anche se superfluo, che quella della pietà era la preoccupazione dominante di Agostino vescovo, che è un grande teologo ma è, prima di tutto, un pastore. Le sue argomentazioni abbracciano tutto il panorama teologico: sono bibliche, liturgiche, patristiche e particolarmente, in questo caso, cristologiche.
1) Le argomentazioni bibliche - mai si dirà abbastanza che le argomentazioni agostiniane sono soprattutto bibliche: la sua teologia è in primo luogo una teologia biblica -, le argomentazioni bibliche, dico, le ho ricordate sopra sia pure a modo di saggio. Qui giova forse riassumerle con un testo tratto da una lettera ai monaci di Adrumeto. Scrive: " Poiché l'uomo carnale gonfio di vanità, sentendosi dire: Chi ti separa, alla domanda dell'Apostolo potrebbe a parole o col pensiero rispondere:'Ciò che mi separa è la mia fede, è la mia preghiera, è la mia giustizia', subito l'Apostolo replica a simili idee e dice: Ma che cosa hai tu che non hai ricevuto? Se poi l'hai ricevuto, perché mai ti vanti come se non lo avessi ricevuto? E' proprio così che si vantano di quello che hanno, come se non l'avessero ricevuto, coloro che credono d'essere giustificati da se stessi e perciò ripongono la propria gloria in se stessi e non nel Signore " 14. Poco dopo, dell'affermazione pelagiana secondo la quale la grazia ci viene data a misura dei nostri meriti, dirà in modo secco e perentorio: omnino falsissimum est 15.
2) Conosciamo pure in sostanza l'argomentazione liturgica. Sappiamo che la liturgia è un luogo preferito del suo insegnamento teologico tanto nella fase espositiva quanto in quella polemica: lo è di fatto nella dottrina del peccato originale con la liturgia del battesimo 16, lo è in quella a favore dell'imperfezione della nostra giustizia contro l'impeccantia di Pelagio 17, lo è in quella della necessità della grazia 18, in quella dell'efficacia della grazia 19, lo diventa anche in questa della gratuità. Il fondo dell'argomentazione è il principio non enunziato ma applicato continuamente da lui: lex orandi legem statuit credendi 20.
Se il peccatore chiede a Dio la conversione, l'incredulo la fede, il giusto la perseveranza, se la Chiesa chiede a Dio che il peccatore si converta, l'infedele creda, il giusto perseveri, vuol dire che conversione, fede e perseveranza sono doni di Dio. Lo vedremo più in particolare tra poco.
2) Intanto giova dedicare un accenno all'argomentazione patristica. Agostino non sentì il bisogno di svolgerla, come fece per esempio con il peccato originale 21. La ragione, a mio parere, sta nel fatto che, a differenza del peccato originale, non ci si appellò in contrario alla testimonianza dei Padri, come appunto sul peccato originale Giuliano, che giunse ad accusare Agostino di novità. Si può aggiungere un'altra ragione: gli argomenti biblici e liturgici gli parvero tanto copiosi ed efficaci che non era necessario indagare sulla fede della Chiesa del passato, la quale aveva sempre predicato la gratuità della grazia, se non con le parole, certamente con la preghiera. Ecco un testo del Dono della perseveranza degno di attenzione. Si riferisce a quelli che sono più lenti e più deboli a capire le dispute teologiche e dice loro di badare di più " a ripetere quelle preghiere che la Chiesa ha sempre custodito dai suoi inizi e sempre custodirà finché abbia fine ogni vita temporale! Infatti su questa verità che ora contro i nuovi eretici siamo costretti non solo a ricordare ma anche a custodire e a difendere con vigore, la Chiesa non ha mai taciuto nelle sue preghiere, anche se in alcuni periodi, quando nessun avversario ve la costringeva, non ritenne opportuno esporla in discorsi " 22.
L'argomento patristico si riduce pertanto a ben poco: a un testo tante volte ripetuto di Cipriano 23, ad uno di Ambrogio 24 e a un terzo di Gregorio Nazianzeno 25. Poco, si dirà, ma dopo le ragioni addotte, comprensibile.
4) Ma dove l'argomentazione agostiniana si estende con particolare compiacenza e con profonda convinzione d'irrefragabilità è sull'aspetto cristologico della grazia, aspetto che ne proclama altamente la gratuità. Chi vuol capire il pensiero di Agostino deve fermarsi a considerare questo argomento che riassume tutti gli altri.
Prima di tutto si deve dire che esso percorre tutta la controversia pelagiana, dalla prima opera all'ultima. Scrive nella prima: Cristo uomo, " così unito con il Verbo di Dio tanto che in forza di questa unione il solo ed unico soggetto fosse insieme figlio di Dio e figlio dell'uomo, non ottenne ciò per i meriti precedenti della sua volontà " 26. Scrive nell'ultima: " La grazia dalla quale gli uomini che rinascono in Cristo sono fatti giusti è la medesima per la quale è nato Cristo, l'uomo giusto ". E poco prima aveva chiesto al suo avversario: " Dimmi, di grazia, con quali opere l'uomo Cristo Gesù meritò questo [di essere Figlio di Dio]; osa garrire per quale divina giustizia lo meritò Egli solo, o, se non osi, confessa finalmente che la grazia viene concessa senza meriti " 27.
Tra queste due opere il discorso su Cristo uomo, esemplare e causa dell'assoluta gratuità della nostra giustificazione, torna ad ogni momento, nei libri, nelle lettere, nei discorsi. Ne parla riferendosi alla grazia in genere e alla predestinazione in particolare. Della predestinazione appresso 28, qui mi sia lecito fermarmi un poco sulla grazia in generale.
Nel De civitate Dei, parlando a Porfirio perché intendessero i suoi discepoli, indica nel Cristo il sommo modello della grazia: summum exemplum gratiae. " Se tu avessi riconosciuto la grazia mediante il Signor nostro Gesù Cristo e la sua incarnazione, con cui ha assunto l'anima e il corpo dell'uomo, avresti potuto scorgere che vi è un sublime modello di grazia ". E poco dopo: " La grazia di Dio non poteva esser fatta valere in una forma più gratuita di quella per cui lo stesso Figlio di Dio, rimanendo in sé fuori del divenire, ha assunto l'uomo e ha dato agli uomini lo Spirito del suo amore con la mediazione dell'uomo " 29.
Nella nota e splendida lettera sulla presenza di Dio, dopo aver parlato " della singolare assunzione dell'umanità in virtù della quale Cristo è divenuto una sola persona col Verbo ", osserva: " Singolare è quindi l'azione [del Verbo] di assumere [la natura umana] e non può essere assolutamente comune ad alcun uomo quanto si voglia eminente per sapienza e per santità. In essa abbiamo una prova assai evidente della grazia di Dio ". Insistendo poi su questo concetto si domanda: " Ora, chi sarebbe tanto sacrilego da osare di affermare che un'anima, col solo libero arbitrio, possa fare in modo di essere un secondo Cristo? In qual modo quindi una sola anima avrebbe potuto meritare, mediante il dono del libero arbitrio comune a tutti gli uomini e proprio della natura umana, di appartenere alla persona del Verbo unigenito senza averlo ottenuto per un privilegio singolare della grazia? " 30.
Parlando al popolo espone la stessa dottrina, anzi, preoccupato di essere chiaro e incisivo, trova spesso, come in questo caso, le formule più brevi e più efficaci. Dice, per esempio: " Per quanto riguarda l'assunzione della stessa natura umana, tutto è grazia, grazia singolare, grazia perfetta: tota gratia, singularis gratia, perfecta gratia ". E aggiunge: " Togli la grazia [dell'assunzione nella persona del Verbo], che cosa sarebbe Cristo se non un uomo, se non quello che sei tu? " 31.
Commentando S. Giovanni dice: " Benché la natura umana non fa parte della natura divina, tuttavia appartiene alla persona dell'unigenito Figlio di Dio per grazia, e per una tale grazia di cui non si può concepire una maggiore né uguale. Nessun merito ha preceduto quell'assunzione e tutti hanno avuto origine da essa " 32.
Ma i testi che mi paiono più luminosi sono due 33. Mi limito a riportare in parte il primo, nel quale, dopo aver proposto una delle sue felicissime formule del mistero dell'incarnazione per cui Cristo è l'utrumque unus, commenta: " Qui viene raccomandata la grazia di Dio, in maniera grandissima ed evidentissima. Infatti che cosa la natura umana ha meritato nell'uomo Cristo per essere assunta in modo singolare nell'unità della persona dell'unico Figlio di Dio? Quale buona volontà, quale desiderio di buoni propositi, quali opere buone precedettero con le quali quest'uomo meritasse di diventare una sola persona con Dio? Forse che prima fu uomo e questo singolare beneficio gli è stato concesso per aver singolarmente meritato presso Dio? No davvero. Da quando cominciò ad essere uomo, non cominciò ad essere altro se non il Figlio di Dio " 34.
Non c'è bisogno di dire che tutto il ragionamento di Agostino, che con tanta profondità e chiarezza non si trova prima di lui, si fonda su tre grandi verità riguardanti la cristologia. Esse sono:
1) la chiara e perfetta nozione del mistero del Verbo incarnato, per cui c'è una sola persona in Cristo: una persona in utroque natura 35;
2) l'impossibilità che l'uomo Cristo potesse in qualche modo meritare l'ineffabile grazia che ricevette, quella di essere una sola persona col Verbo, perché cominciò ad esistere nel momento stesso dell'incarnazione;
3) il Cristo totale, modello e causa della salvezza degli uomini. Dio ha scelto gli uomini per la salvezza in unione a Cristo, anzi, per dir tutto e meglio, in Lui, con Lui, per Lui, e con un solo volere, una sola scelta, un solo decreto.
Ci torneremo a proposito della predestinazione della quale Cristo è il praeclarissimum lumen, ma intanto vale la pena di fare un'osservazione: la dottrina della grazia dipende tutta, per Agostino, dalla visione cristologica della teologia. Avendo posto al centro della teologia questa visione, ne ha tirato poi, senza esitazione, le conseguenze ultime per la dottrina della grazia. Chiave dunque di tutta la dottrina agostiniana della grazia è Cristo, causa, modello e fine della nostra salvezza.

CAPITOLO SETTIMO

I DONI DELLA SALVEZZA

Lasciando da parte, sia pure con rammarico, il tema cristologico, così caro ad Agostino e ad ognuno che studi il tema che qui c'interessa, vediamo più in particolare i doni della salvezza, affinché la tesi generale della gratuità della grazia appaia in tutto il suo illuminante significato. Il " dottore della grazia ", del resto, non poté limitarsi alla difesa della tesi generale, ma dové scendere, per ragioni polemiche, nei particolari: la giustificazione, l'inizio della fede, la perseveranza finale. Giova seguirlo in questo laborioso ricamo di una dottrina tanto essenziale per la fede quanto insostituibile per la pietà.

1. La giustificazione

Ho esposto altrove le prerogative della giustificazione messe in rilievo dal nostro dottore: l'interiorità, la progressività, la gratuità 1. Le tre prerogative mostrano:
1) le ricchezze interiori della giustificazione: la remissione dei peccati, che è tota et plena, plena et perfecta, la giustizia di Dio con la quale Dio rende giusto l'uomo, la carità che lo Spirito Santo diffonde nei cuori, la deificazione;
2) il cammino della perfezione cristiana che esclude le colpe che impediscono l'ingresso nel regno di Dio, ma non include l'impeccantia, tanto cara a Pelagio, cioè quella perfezione che non renda più necessario il dimitte nobis debita nostra;
3) la misericordia divina che, senza meriti, dona all'uomo la giustificazione e lo conduce alla salvezza escatologica dove, oltre la remissione dei peccati, ci sarà la pienezza della giustificazione.
Qui interessa questo terzo punto e, in particolare, l'inciso: senza meriti. Ma forse il lettore preferisce rileggere nel luogo indicato le pagine dedicate all'argomento. Qui dunque dirò solo, riassumendo, che tutta la preoccupazione di Agostino fu quella di mettere in rilievo il gratis dell'Apostolo: iustificati gratis, gratuitamente, cioè senza meriti precedenti. Vedremo appresso la questione dei meriti; qui interessa capire quel gratuitamente.
Spiegandolo al popolo dice: " Perché grazia? Perché è data gratuitamente. Perché è data gratuitamente? Perché non l'hanno preceduta i tuoi meriti, ma i doni di Dio hanno prevenuto te. Gloria dunque a Colui che ci libera. Tutti infatti hanno peccato e hanno bisogno della gloria di Dio ". Trasferendo poi sul piano esistenziale della pietà questa stupenda dottrina, continua, citando le parole della Scrittura e inserendo le sue: " In te dunque, Signore, ho sperato, non in me; che io non sia confuso in eterno, perché spero in Colui che non confonde. Nella tua giustizia liberami e salvami: poiché non hai trovato in me la giustizia, liberami nella tua; cioè mi liberi quel che mi giustifica, che trasforma l'empio in pio, l'iniquo in giusto, il cieco in veggente, che rialza chi cade, che rallegra chi piange. Questo mi libera, non io. Nella tua giustizia liberami e salvami " 2.
Altrove, e per innumerevoli volte, la stessa insistente affermazione: " giustificati gratuitamente dal sangue di Cristo ", " gratuitamente, cioè per grazia. Infatti non è grazia, se non è gratuita. Poiché niente di buono avevamo compiuto prima, per meritarci tali doni; a maggior ragione, proprio perché non senza motivo ci sarebbe stata inflitta la pena, gratuitamente ci è stato offerto il beneficio. Da parte nostra non avevamo meritato precedentemente nulla, se non di dover essere condannati. Egli, invece, non per nostra giustizia ma per sua misericordia ci ha salvato nel lavacro della rigenerazione. Questa è, dico, la gloria di Dio; e questa i cieli hanno narrato. Questa è, ripeto, gloria di Dio, non tua " 3.
L'uomo giusto può gloriarsi, ma nel Signore, secondo il precetto dell'Apostolo: chi si gloria, si glori nel Signore (1 Cor 1,31). Su questo tema, tanto caro alla teologia e alla spiritualità agostiniana, si veda il commento nel Sermone 160.

2. L'inizio della fede

Difendendo la gratuità della giustificazione, Agostino non poteva non insistere sulla gratuità della fede, che ne è il principio e il fondamento. Il discorso agostiniano sulla fede è ampio, impegnato, determinante. Qui non si tratta della natura e della necessità della fede, che pur sono due tesi fondamentali, l'una nei riguardi della ragione, l'altra nei riguardi della salvezza. La prima infatti, la natura, investe le relazioni tra fede e ragione, sulle quali il vescovo d'Ippona - che aveva superato il razionalismo, che respinge la fede, per abbracciare la fede che non respinge ma invoca la ragione - ha scritto molto. Motto delle sue molte pagine può essere l'affermazione: habet et fides oculos suos 4 e testo l'aureo libretto L'utilità del credere. La seconda invece si può riassumere nel principio: nessuno è stato, è o sarà mai giusto senza la fede 5; principio che ripete senza posa.
Qui interessa la fede come dono. Questa tesi l'aveva ribadita tante volte: era una delle tre grandi verità che la Chiesa cattolica difendeva contro i pelagiani 6. Ma verso la fine della vita ebbe la sorpresa di sentire che i monaci provenzali distinguevano tra inizio della fede e aumento della medesima, attribuendo l'inizio all'uomo, l'aumento a Dio 7. Avvertì in questa distinzione un modo sottile di reintrodurre la tesi cara ai pelagiani 8 e quello stesso errore nel quale egli era caduto per alcun tempo e che aveva scoperto e corretto all'inizio dell'episcopato 9.
Si rimise pertanto al lavoro e scrisse la Predestinazione dei santi. Dice fin dall'inizio: " Dunque in primo luogo dobbiamo dimostrare che la fede che ci fa cristiani è un dono di Dio, sempre che riusciamo a dimostrarlo con precisione maggiore di quanto abbiamo già fatto in tanti e tanti volumi. Ecco la tesi che noi, a quanto vedo, dobbiamo controbattere; secondo i dissenzienti le testimonianze divine che abbiamo utilizzato su questo argomento servono a farci conoscere che la fede in sé e per sé dipende da noi stessi, ma il suo accrescimento lo riceviamo da Dio, come se la fede non ci fosse donata proprio da lui, ma Egli ce l'accrescesse semplicemente per questo merito: che l'inizio è partito da noi ". Osserva, poi, che con questo insegnamento si resta nell'errore pelagiano: " In definitiva non ci si distacca da quell'opinione:'la grazia di Dio viene data secondo i nostri meriti' che Pelagio stesso, nel sinodo episcopale di Palestina, fu costretto a condannare, come attestano gli Atti. Non apparter rebbe cioè alla grazia di Dio il fatto che cominciamo a credere, ma piuttosto l'aggiunta di fede che per quel merito ci viene fornita, in modo che crediamo più pienamente e perfettamente. Quindi saremo noi a dare per primi a Dio l'inizio della fede, affinché ci sia reso in ricompensa l'accrescimento di essa e quanto altro con la fede possiamo chiedere " 10.
Dopo questa impostazione del problema, tutto il libro si svolge nella dimostrazione della tesi proposta: l'inizio stesso della fede, cioè il primo movimento di conversione dell'animo a Dio, è un dono di Dio; è Dio infatti, non l'uomo, che comincia l'opera della salvezza. L'argomentazione è lunga e molteplice: biblica, liturgica, patristica, teologica.
Tutti o quasi tutti i testi biblici sono chiamati a raccolta e schierati in battaglia tanto da costituire un ampio panorama di teologia biblica, la quale, fuori di ogni dubbio, dimostra che la Scrittura insegna che la nostra fede, anche il suo inizio, è un dono di Dio. Lo schieramento biblico comincia con Rom 11,35-36, continua con 2 Cor 3,5; con 1 Cor 4,7; con Gv 6,44; con Ez 11,19; ecc. ecc., e conclude: " Quando dunque il Padre interiormente è udito ed insegna a venire al Figlio, strappa il cuore di pietra e dà un cuore di carne, come promise con le parole del Profeta " 11.
Dopo l'argomento biblico Agostino affronta quello liturgico che, come si sa, ha tanta parte nella dottrina della grazia. Ecco le sue parole a proposito della preghiera della Chiesa per gli infedeli e i persecutori: " Che cosa dunque preghiamo per coloro che non vogliono credere se non che Dio operi in essi anche il volere? E' dei Giudei certo che l'Apostolo dice: Fratelli, la brama del mio cuore e la mia preghiera a Dio è per la loro salvezza. Egli prega per i non credenti, e che cosa prega se non che credano? Infatti essi non potranno conseguire la salvezza in altra maniera. Se dunque la fede di chi prega previene la grazia di Dio, sarà forse vero che la fede previene la grazia anche in coloro per cui si prega che credano? Ma è proprio questo che si prega per essi, affinché a chi non crede, cioè non ha la fede, la fede sia donata " 12.
L'argomento patristico è ridotto al minimo: una citazione di Cipriano, bella ma isolata. Agostino non sentì il bisogno d'indagare il pensiero dei Padri su questo argomento come aveva fatto per il peccato originale 13, e ne spiega la ragione: " ma quale bisogno c'è che noi andiamo a frugare nelle loro opere, dato che prima che sorgesse l'eresia pelagiana non avevano la necessità di sprofondarsi in questa difficile questione per risolverla? Però naturalmente l'avrebbero fatto se fossero stati costretti a rispondere a simili individui. Il risultato è che in alcuni punti dei loro scritti accennano brevemente e di passaggio alla loro opinione sulla grazia di Dio; si trattengono invece sugli argomenti intorno ai quali si svolgeva allora la lotta contro i nemici della Chiesa ". Ma non omette di aggiungere l'immancabile argomento della preghiera: " Quale fosse la forza della grazia di Dio era indicato semplicemente nel continuo ricorso alle preghiere; infatti non s'implorerebbe da Dio di adempiere le cose che Egli ordina di fare, se l'adempierle non fosse un suo dono " 14.
E' invece ampio e smagliante l'argomento teologico tratto dall'incarnazione del Verbo, che è il summum exemplum gratiae. Ne ho parlato nel capitolo precedente, il discorso tornerà appresso a proposito della predestinazione 15, non c'è bisogno di ripeterlo qui. Basti dire che questo costante riferimento cristologico è veramente il segreto della dottrina agostiniana sulla grazia, sulla grazia in genere e, qui, sull'inizio della fede 16. Il bell'argomento termina con queste solenni parole: Humana hic merita conticescant. E continua: " Chiunque troverà nel nostro Capo dei meriti che abbiano preceduto la sua singolare generazione, questi ricerchi anche in noi, sue membra, dei meriti che abbiano preceduto il moltiplicarsi in noi della rigenerazione " 17.

3. La perseveranza finale

Tra i doni della salvezza, quello che costituisce il coronamento di tutti gli altri, è la perseveranza finale. E' la perseveranza che assicura la salvezza e la rende definitiva, indefettibile. I monaci provenzali sostenevano che la perseveranza dipende solo dall'uomo e che Dio, prevedendo nella sua prescienza la perseveranza nel bene, lo predestina alla vita eterna 18. Agostino sostiene che è un dono di Dio. Ne aveva scritto a lungo e molto esaurientemente nella Correzione e grazia 19, ma vi torna sopra per chiarire, approfondire, difendere quella che ritiene, con assoluta certezza, la dottrina cattolica. Aggiunge perciò un altro libro a quello precedente. La tesi che sostiene è questa: " Noi sosteniamo che la perseveranza con la quale si persevera in Cristo fino alla fine è un dono di Dio, e intendo parlare della fine che pone termine a questa vita, che è la sola nella quale esista il pericolo di cadere " 20.
MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:50
Che la perseveranza finale sia un dono di Dio, anzi un grande dono di Dio - magnum Dei munus 21 - lo aveva dimostrato, come ho detto, nell'opera scritta poco prima sulla Correzione e grazia; lo aveva dimostrato col suo solito metodo della tessitura dei testi biblici da cui scaturisce l'autentico insegnamento della Scrittura.
Ricordiamo alcuni di questi testi. Il primo è la preghiera di Cristo perché non venisse meno la fede di Pietro (Lc 22,32); Agostino commenta: con questa preghiera " che altro chiese se non la perseveranza finale? " 22; infatti non chiese altro se non che avesse nella fede una volontà " liberissima, fortissima, invittissima, perseverantissima " 23. Un altro testo è quello di S. Paolo che prega per i fedeli perché Dio, che ha cominciato in loro l'opera buona, la porti a compimento fino al giorno di Cristo Gesù (Fil 1,3-6). Agostino commenta: con queste parole " che altro promette dalla misericordia divina se non la perseveranza nel bene sino alla fine? " 24.
Un testo ancora di S. Paolo: l'inno degli eletti (Rom 8,31-39), che esprime, commenta anche qui Agostino, la forza del dono della perseveranza 25. In ultimo il testo biblico contestato dai monaci provenzali 26: Fu rapito, perché la malizia non ne mutasse i sentimenti o l'inganno non ne traviasse l'animo (Sap 4, 11). Agostino lo cita nella Correzione e grazia 27, vi torna sopra nella Predestinazione dei Santi 28, e vi accenna ancora nel Dono della perseveranza 29. Egli conosce i dubbi sull'autore e la canonicità del libro della Sapienza 30, ma la canonicità la ritiene con fermezza per l'autorità della Chiesa 31 e la lunga tradizione dei Padri 32. Il testo pertanto conserva il suo valore scritturistico. In ogni caso il suo contenuto è incontestabile. Ogni cristiano sa che, se il giusto muore nella giustizia, avrà la vita eterna; se invece cessa di essere giusto e muore nel peccato andrà in perdizione. Ora il momento della morte non sta nelle nostre ma nelle mani di Dio. Dio dunque, disponendo che il giusto muoia prima di cadere in peccato, gli elargisce il dono ineffabile della perseveranza finale. Non altro che questo dice il testo biblico, della cui appartenenza ad un libro canonico non si deve discutere, del cui contenuto meno ancora 33.
A questo punto stava la dimostrazione, quando Agostino cominciò a dettare il Dono della perseveranza, dove, fin dall'inizio, impostò ancora una volta con estrema chiarezza la tesi ricordata sopra. Per confermarla non ripete quanto aveva detto altrove sull'insegnamento biblico, ma insiste sull'argomento della preghiera.
Seguendo Cipriano commenta il Padre nostro in chiave di perseveranza - è infatti la perseveranza nel bene che il giusto chiede a Dio ripetendo la preghiera del Signore 34 -, e conclude: " Se anche non ci fossero altre testimonianze, questa orazione domenicale basterebbe da sola alla causa della grazia che noi sosteniamo, perché nulla essa ci ha lasciato in cui ci possiamo gloriare come fosse nostro. In realtà anche il fatto di non allontanarci dal Signore l'orazione dimostra che non viene concesso se non da Dio, poiché dichiara che a Dio dev'essere chiesto " 35.
La forza dell'argomentazione è sempre la stessa: non si chiede a Dio ciò che si sa che non viene donato da Dio ma è riposto nel potere dell'uomo, come non si ringrazia di ciò che si sa che non è stato donato da Dio. Ecco le sue forti parole: " E poi, perché si dovrebbe chiedere a Dio questa perseveranza se non è concessa da lui? Non sarebbe forse una richiesta beffarda, se si pregasse dal Signore quello che si sa che Egli non concede, e che quindi, se non è lui a concederlo, è in potestà degli uomini? Così pure sarebbe una beffa e non un rendimento di grazie se si rendesse grazie a Dio di una cosa che Egli non ha donato né compiuto ". Ne tira infine questa severa conclusione: " Ma quello che ho detto sopra 36 lo ripeto qui: Non ingannatevi, dice l'Apostolo, non ci si può prendere gioco di Dio " (Gal 6,737.
Perciò la Chiesa non ha bisogno di tante discussioni in proposito: consideri le sue preghiere e tiri le conclusioni. " Dunque su questo argomento la Chiesa non indugi in laboriose disputazioni, ma attenda alle sue preghiere quotidiane. Essa prega affinché gli infedeli credano: allora è Dio che converte alla fede. Essa prega perché i credenti perseverino: allora è Dio che dona la perseveranza fino alla fine " 38. La trattazione termina con un nuovo riferimento veramente stupendo al motivo cristologico: Cristo causa e modello della grazia 39.
Il discorso agostiniano sulla gratuità della grazia che, come si è visto, si apre a raggiera ed include tutta la vita cristiana dal primo sbocciare dell'amore per mezzo della fede fino all'amore giustificante e all'amore perseverante - tre doni della misericordia che salva -, si chiude o, per dir meglio, si perfeziona e si riapre con due raccomandazioni di fondo: una alla preghiera e un'altra alla fiducia. La perseveranza finale è un dono che non possiamo meritare, ma possiamo e dobbiamo ottenere con la preghiera: Hoc Dei donum suppliciter emereri potest, poiché Dio ha stabilito " di dare alcuni doni anche a chi non prega, come l'inizio della fede; altri soltanto a chi prega, come la perseveranza finale " 40. Alla preghiera vanno congiunte la fiducia e l'abbandono totale a Dio, che sono fonte della nostra sicurezza: Tutiores vivimus si totum Deo damus 41.
Ma di questo più diffusamente al termine della introduzione 42. Qui, per completare il panorama agostiniano, occorre parlare di un altro argomento che sembra opposto a quello trattato finora, eppur necessario.

CAPITOLO OTTAVO

IL MERITO

E' il discorso del merito. Dopo quanto si è detto sui doni della salvezza, sembra superfluo farne uno sul merito. E lo sarebbe in realtà se il nostro dottore non lo avesse fatto egli stesso più volte e a lungo e con grande impegno, non solo per escludere che la grazia venga concessa secondo i meriti, ma anche per chiarire la nozione stessa del merito e sciogliere i problemi che pone. Del resto basta riandare alla storia della teologia per vedere quante discussioni ha suscitato. E spesso, se non sempre, legate al nome di Agostino 1. Il problema lo pone la stessa Scrittura che il nostro dottore, come al solito, si studia di concordare con se stessa 2. Vediamo dunque sia il problema cha la soluzione, e poi vedremo se questa non ponga a noi qualche problema ulteriore.

1. Le due verità della Scrittura

Nei riguardi della vita eterna vi sono nella Scrittura due serie di testi che esprimono due verità apparentemente contrarie: una serie che proclama la vita eterna una grazia, l'altra che la proclama una mercede. Grazia e mercede. Si sa quanto i concetti siano diversi. Come conciliarli? Ecco il problema.
Agostino ha raccolto i testi della prima serie e ne ha fatto il supporto biblico della grande tesi difesa contro i pelagiani: la grazia non ci viene concessa secondo i nostri meriti; perciò la vita eterna è un dono. Ne ho parlato lungamente sopra 3. Ma l'insistenza sulla grazia non fa dimenticare i testi biblici sulla mercede. Il nostro dottore non li occulta, anzi li raccoglie e li schiera in battaglia. Due soprattutto. Ambedue dell'Apostolo che ha tanto parlato della grazia: Rom 2,6: Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere - si sa che queste parole sono l'eco di quelle di Gesù nel Vangelo (Mt 16,27) - e di quelle della 2 Tim 4,8: mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà. V'è poi tante volte ricordata nel Vangelo l'idea della mercede (Mt 5,12: Lc 6,23); vi sono le parabole degli operai e dei talenti (Mt 20,1-16; 25,14-30); v'è l'ultimo giudizio che sarà tenuto sulle opere di misericordia (Mt 25,31-46), a cui Agostino si riferisce di continuo 4.
Più in generale si può dire che nel panorama dottrinale agos tiniano il ricorso alla necessità delle opere e quindi al conseguimento della mercede promessa è legato in particolare ad un libro, a un testo biblico, ad un'esortazione pastorale. Il libro ha per titolo La fede e le opere. Lo scrisse all'inizio della controversia pelagiana dopo Il castigo e il perdono dei peccati e Lo spirito e la lettera 5, le prime due opere antipelagiane e le più importanti, lo scrisse per rispondere a quelli che sostenevano che per raggiungere la vita eterna bastava la sola fede 6. Il testo biblico è quello della fede quae per dilectionem operatur (Gal 5,6) che il nostro dottore cita in continuazione; mentre l'esortazione pastorale si può riassumere in questo aforisma: Si vis sustinere laborem, attende mercedem 7, o in quest'altro ancora più forte: " Esercitati nelle opere, lavora nella vigna; finito il giorno, chiedi la mercede: finito die, pete mercedem " 8.
Non v'è dubbio che Agostino vede ed urge i due aspetti del problema: grazia e mercede. Non solo li vede, ma mette in rilievo il problema che ne deriva e ne propone la soluzione. Scrive in una delle ultime opere, La grazia e il libero arbitrio: " Da ciò nasce un problema non trascurabile, la cui soluzione dev'essere ricercata con l'intervento del Signore. Se infatti la vita eterna viene data in ricompensa delle opere buone, come dice la Scrittura in maniera estremamente chiara: Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere, in qual maniera la vita eterna può essere grazia, dato che la grazia non è assegnata in ricompensa alle opere, ma viene conferita gratuitamente? ". E dopo aver riportato alcuni testi paolini che escludono la mercede quando si tratta di grazia (Rom 4,4; 11,5-6), incalza: " Dunque la vita eterna come può essere una grazia, se si acquista in seguito alle opere? O forse non è la vita eterna che l'Apostolo chiama grazia? Al contrario, egli si è espresso in una maniera che l'identificazione non si può negare; e non c'è bisogno nemmeno di un acuto intenditore, ma soltanto di uno che dia ascolto attentamente " 9.

2. La soluzione: " meritum... gratuitum "

Dopo la chiara posizione del problema ecco la soluzione agostiniana, non meno chiara: " Una tale questione non mi sembra che si possa sciogliere in nessun modo, se non intendendo che anche le nostre stesse opere buone, alle quali si conferisce la vita eterna, appartengono alla grazia di Dio " 10. Dimostra lungamente, testi della Scrittura alla mano, questa affermazione, e conclude: " Pertanto, o carissimi, se la nostra vita buona altro non è che grazia di Dio, senza dubbio anche la vita eterna, che viene data in contraccambio alla vita buona, è grazia di Dio; ed essa pure viene data gratuitamente, perché è stata data gratuitamente la vita buona per la quale quella eterna viene concessa ". Spiegando poi l'espressione giovannea di gratia pro gratia (Gv 1,16), termina così: " Ma questa vita buona per cui viene concessa, è semplicemente grazia; in definitiva questa vita eterna che viene concessa per essa, poiché di essa è premio, è grazia per grazia, come una ricompensa che contraccambia la giustizia. E così si dimostra vero, perché è vero, che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere (Rom 2,6) " 11.
Da questa soluzione nasce l'effato ripetuto molte volte, con vera compiacenza, dal dottore della grazia: Dio, coronando i tuoi meriti, non corona che i suoi doni; effato che ne La grazia e il libero arbitrio, dove problema e soluzione sono proposti esplicitamente, suona così: " Se dunque i tuoi meriti nel bene sono doni di Dio, Dio non corona i tuoi meriti come tuoi meriti, ma come suoi doni " 12. Nella stessa opera, parlando della corona di giustizia che l'apostolo Paolo attendeva, se ne esce in queste interrogazioni che hanno una straordinaria forza persuasiva: " A chi il giudice giusto renderebbe la corona, se il Padre misericordioso non avesse donato la grazia? E come ci sarebbe questa corona della giustizia, se non l'avesse preceduta la grazia che giustifica l'empio? In qual modo si renderebbe come dovuta la corona, se prima la grazia non fosse stata donata come gratuita? " 13.
Ma si avrebbe torto a credere che questa dottrina sui meriti che sono, sì, meriti, ma anche doni della grazia, il vescovo d'Ippona l'abbia maturata gli ultimi anni della sua vita o comunque durante la controversia pelagiana. La troviamo invece, sostanzialmente, nella prima opera in cui approfondì il tema della grazia 14, di cui ho detto sopra 15. La troviamo con la stessa formula delle opere posteriori, nelle Confessioni, per esempio, ove leggiamo: " Chi enumera innanzi a te i suoi veri meriti, che altro ti enumera se non i tuoi doni? " 16. Con la controversia pelagiana questa o formule simili diventano, com'era naturale, più frequenti sia nei libri che nelle lettere che nei discorsi.
Per i libri basti il più volte citato su La grazia e il libero arbitrio. Per le lettere vanno menzionate la celebre 194 e l'altra, meno celebre ma non meno importante, a Paolino di Nola, la 186: nella prima c'è la formula che ho ricordato or ora: " quando Dio corona i nostri meriti non corona altro che i suoi doni " 17; nella seconda c'è una formula semanticamente ancora più felice, quella di merito gratuito: ipsum hominis meritum donum est gratuitum 18. Nei discorsi poi l'insistenza è continua e le formule le stesse 19. Qualche volta prendono un tono più tagliente, come questo: " Dio ti dice: Discuti bene i tuoi meriti, vedrai che sono miei doni " 20. Infine nel commento ai Salmi il testo biblico offre l'occasione di tornare spesso nell'argomento. Un esempio sono le parole del Salmo 102,4: qui coronat te in miseratione et misericordia 21. La ragione di questa insistenza è sempre la stessa, quella che ho ricordato sopra: impedire che l'uomo si glori in se stesso e non in Dio. " Non vantare in alcun modo i tuoi meriti, perchè anche questi tuoi meriti sono doni suoi " 22. " Tuoi sono i peccati, i meriti sono di Dio. A te si deve il castigo; quando invece ti viene dato il premio, Dio corona i doni suoi, non i meriti tuoi " 23.

3. Meriti e giustificazione

Questa dottrina, che riassume, come si è detto, i due aspetti dell'insegnamento biblico, ha per fondamento tutta la dottrina della grazia. Il merito dunque non precede ma segue la grazia, la grazia, dico, che dona la fede e dona la giustificazione. E' la giustificazione, dono di Dio, che costituisce il fondamento del merito: lo fonda, non lo esclude. Ecco un testo breve e perentorio: " I giusti, allora, non hanno merito alcuno? Sicuro che ne hanno, poiché sono giusti, ma non ne hanno avuto alcuno per diventare tali, essendolo divenuti quando sono stati giustificati, come dice l'Apostolo: Sono stati giustificati senza alcun merito precedente e solo per la grazia di lui (Rom 3,24) " 24.
Non ci sono dunque meriti prima della giustificazione, ci sono - e debbono esserci - dopo. E sono meriti certi, perchè legati alla promessa di Dio. Parlando ai fedeli, dopo aver detto che " Dio si è fatto nostro debitore non accettando qualcosa da noi, ma promettendo ciò che gli è piaciuto ", Agostino suggerisce loro di chiedere a Dio il compimento delle sue promesse con queste coraggiose parole: " Rendi ciò che hai promesso, perché abbiamo fatto ciò che hai comandato ". Ma aggiunge subito: " E questo lo hai fatto tu, perché hai aiutato coloro che faticavano " 25. Le parole di questo brano oratorio, soprattutto le prime, sembrano aliene dal dottore della grazia, eppure sono sue. Il discorso poi dev'essere inserito tra quelli pronunciati nel forte della controversia pelagiana 26. Un caso di contraddittorietà? No, un caso, un altro, di sintesi. Il discorso è tutto dedicato a esaltare i doni di Dio: predestinazione, vocazione, giustificazione, glorificazione, ma anche il merito che il giusto acquista presso Dio, per la promessa di Dio, operando il bene. E' la corona iustitiae fondata sul dono della misericordia, di cui si è detto poco sopra.
Altre volte mette a fondamento dei meriti il dono della fede: " ...quel dono da cui partono tutti gli altri doni che si dicono ricevuti da noi per nostro merito, e cioè il dono della fede, lo riceviamo senza nostro merito " 27. Altrove scrive contro i pelagiani: " Non mi resta dunque che attribuire... la stessa fede, che costoro esaltano, non già alla volontà dell'uomo né ad alcun merito precedente, perché da essa hanno origine tutti i meriti buoni, nessuno escluso... " 28.
In uno splendido discorso dommatico sulla fede e le opere o più precisamente " della grazia di Dio e della nostra giustificazione " 29 - si sa che nessuno è tanto dottore come Agostino quando parla - fra i tanti memorabili effati espone anche questo: " Non presumere di conseguire il Regno per la tua giustizia, e non presumere della misericordia di Dio per peccare " 30. Parole cui seguono come spiegazione queste altre: " Nessuno vanti le sue opere prima della fede, nessuno sia pigro nel compiere le buone opere dopo che ha ricevuto la fede. Dio dunque concede il perdono a tutti gli empi, e li giustifica con la fede " 31.
In realtà il testo parla delle opere buone e non, direttamente, delle opere meritorie. Ma si applica molto bene anche a queste. Solo che esso pone due problemi: sulle opere buone, quello della possibilità dell'uomo di compierle senza la fede, di cui ho parlato altrove 32, e sulle opere meritorie, se hanno per fondamento la fede e la giustificazione, di cui è utile fare un cenno qui.
I testi sulla fede ricordati sopra sembrano supporre che basti la fede per meritare davanti a Dio e non sia necessaria la giustificazione come dicono altri testi. Occorre concordare Agostino con se stesso. Non è difficile. Egli intende la fede quae per dilectionem operatur (Gal 5,6) e quindi, parlando dei meriti, non la distingue dalla giustificazione. Tanto è vero che il lungo e bel discorso da cui son tratte le ultime espressioni ha per argomento, come ho detto, la grazia di Dio e la giustificazione.

CAPITOLO NONO

TRA IL " VANTO " DEL GIUSTO " E LE SCUSE " DEL PECCATORE:
PEROCCUPAZIONI PASTORALI

Né il giusto deve vantarsi della sua giustizia, né il peccatore scusarsi del suo peccato. Passare incolumi in questa strettoia non era facile, ma era pur necessario; necessario per il teologo, più necessario per il pastore. Si sa che il vescovo d'Ippona, quando fa il teologo, pensa sempre al pastore. Non è mai un teologo da tavolino, mai uno " scolastico ".
Ho detto nelle pagine precedenti e in molte altre come egli abbia tenuto stretti, in forma di binomi, termini che sembravano e sembrano dilemmatici, da quelli più generali - ragione e fede, Dio e l'uomo, libertà e prescienza divina - a quelli più vicini al nostro argomento: natura e grazia, grazia e libertà, dono e mercede. Ci resta di vedere l'ultimo binomio, che sembra un dilemma, forse il più difficile, che tocca il fondo della controversia pelagiana, la quale aveva - occorre ricordarlo - una prospettiva eminentemente pratica, pastorale.
Pelagio infatti era tutto preoccupato di togliere al peccatore ogni scusa. Una preoccupazione dunque da saggio moralista che sferza vizi e promuove le virtù. Per questo scopo aveva scritto il De natura. Di quest'opera dice Agostino nella risposta: " Ho letto di corsa, ma non con scarsa attenzione, e da cima a fondo, il libro che mi avete mandato... Ho visto nel libro un uomo acceso di zelo ardentissimo contro coloro che, invece d'accusare nei propri peccati la volontà umana, cercano piuttosto di scusarla, accusando la natura umana " 1.
Il vescovo d'Ippona invece era tutto preoccupato di togliere al giusto ogni motivo di vanto. Due parallele dunque? Un dialogo in cui ognuno non faceva che ripetere i suoi argomenti? No. E la ragione sta in questo: mentre Pelagio, volendo indurre il peccatore a riconoscere il suo peccato, dimenticava la grazia o la riconduceva alla stessa natura dotata di libero arbitrio - per questo il nostro dottore chiama il suo zelo poco illuminato: non secundum scientiam (Rom 10,2) -, Agostino non dimenticava l'altra parte del problema: toglieva, sì, al giusto ogni motivo di vanto, ma non offriva al peccatore motivi di scusa. In conclusione: la visione di Pelagio, come quella di tutti coloro che hanno suscitato eresie nella Chiesa - Ario, Nestorio, Lutero -, era unilaterale, quella di Agostino no: egli vedeva i due aspetti del problema e li riaffermava e li riconduceva all'unità mediante la sintesi che cerca e trova il veritatis medium. Vediamo come.

1. Il problema

La difficoltà è ovvia: ognuno la vede. Se i peccati sono dell'uomo, perché i meriti sono di Dio? Eppure abbiamo inteso il nostro dottore riaffermare drasticamente l'uno e l'altro: " i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio " 2. Se è giusto che siano dell'uomo i peccati, perché non attribuire ad esso anche i meriti? Era la conclusione dei pelagiani, i quali, facendo perno sul libero arbitrio, attribuivano appunto all'uomo il merito per potergli attribuire, senza possibilità di replica, anche la responsabilità del peccato. Nessuno vorrà dire che mancassero di logica. Nelle parole di Agostino, ricordate or ora, abbiamo colto la preoccupazione dominante di Pelagio. Nel sinodo di Diospoli gli fu contestata questa proposizione: Tutti sono governati dalla propria volontà. Pelagio si difese con queste parole: " Questo l'ho detto per il libero arbitrio, al quale Dio presta il suo aiuto nello scegliere il bene. Quando invece l'uomo pecca, sua è la colpa, dotato com'è di libero arbitrio " 3. La cura e l'attenzione di Pelagio erano tutte raccolte su quest'ultima affermazione. Perciò sosteneva l' impeccantia, negava la necessità della grazia, insegnava - se non lui, certamente i suoi - che la grazia segue non precede i meriti 4. La linea dottrinale era logica e chiara: se è propria dell'uomo la colpa quando pecca, è proprio dell'uomo il merito quando opera il bene.
Al lato opposto la conclusione opposta: se di Dio è il merito, perché non attribuire a Dio anche la colpa, liberando l'uomo dalla scomoda responsabilità del peccato? La conclusione, come si sa, la tiravano i manichei, dei quali il giovane Agostino aveva accettato la dottrina 5.
Egli dunque, ritornato alla fede cattolica e diventatone per dovere di ministero e per impegno pastorale difensore, non si trovò solo di fronte ad insegnamenti diversi della Scrittura che bisognava pur riconoscere e concordare, ma anche di fronte a correnti diverse di pensiero, una apertamente opposta alla Chiesa, un'altra sorta dentro di essa. E' facile immaginare quale fu il suo atteggiamento; duplice: riaffermare i due insegnamenti biblici e mostrare come non fossero inconciliabili tra loro. Questo esigevano le sue convinzioni teologiche e le sue responsabilità pastorali. Infatti, solo accettando insieme i due insegnamenti, quello che esclude il " vanto " del giusto e quello che esclude a sua volta le " scuse " del peccatore, i fedeli possono vivere una vita autenticamente morale e cristiana. Se per assicurare la responsabilità del peccatore nel peccato si dovesse indurre il cristiano a considerare merito proprio l'essere stato giustificato e il vivere nella giustizia, non solo si negherebbe una verità fondamentale della fede ma si fomenterebbe anche il detestable vizio dell'orgoglio, che è la negazione di ogni religione. Se poi, al contrario, per dare a Dio la gloria delle opere buone che l'uomo compie, si dovesse attribuirgli anche i peccati che questi commette, si negherebbe sia la giustizia divina che l'ordine morale.

2. I due termini del problema

Agostino dunque riafferma energicamente i due termini del problema. Lo abbiamo visto sopra sia nella difesa contro i manichei della responsabilità del peccatore nel suo peccato 6, sia nella difesa contro i pelagiani del dono della grazia che impedisce all'uomo di gloriarsi delle opere buone 7. Forse non è inutile ricordare alcune espressioni, tra le più drastiche e le più forti, di questa duplice difesa.
Ecco le parole che suggerisce al peccatore nei riguardi del proprio peccato. Non cerchi scuse, gli dice, ma dica soltanto: " Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato... io, io; non il fato, non la fortuna, non il diavolo, perché neppure esso mi ha costretto, ma io ho acconsentito a chi tentava di persuadermi " 8. Queste parole non ricorrono una volta sola nei discorsi agostiniani 9. Non c'è bisogno, poi, ricordare né la dura esperienza personale di Agostino descritta drammaticamente nelle Confessioni 10, né le opere, tra le prime, come Il libero arbitrio e Le due anime contro i manichei.
Per quanto riguarda le opere buone, che sono, sì, frutto del libero arbitrio, ma prima di tutto e soprattutto della grazia, basta ricordare l'insistenza e la compiacenza con le quali ripete le parole di Cipriano: Non dobbiamo gloriarci di nulla, perché nulla è nostro 11.
Per stringere, poi, più da vicino le due affermazioni, oltre le parole citate poco sopra - " i peccati sono tuoi, i meriti sono di Dio " 12 - si possono ricordare queste altre: " Per volontà propria cade chi cade, per volontà di Dio sta in piedi chi sta in piedi: Voluntate sua cadit, qui cadit; et voluntate Dei stat, qui stat " 13, e queste altre ancora, scritte in una lettera a Firmo, scoperta e pubblicata di recente: " Se ubbidisci ai veri e salutari precetti [del Signore] è opera della sua grazia, se non ubbidisci è tua colpa: veris salubribusque praeceptis si obtemperes, eius est gratiae, si non obtemperes tuae culpae " 14.
A questo punto urge sapere quale via di conciliazione indichi il vescovo d'Ippona a queste due affermazioni tanto fra loro contrastanti e tanto spesso ricordate a distanza ravvicinata quasi a metterne in rilievo, con la forza dell'antitesi, il contrasto.

3. La soluzione

La soluzione la trova nella creaturalità dell'uomo e nella sua mutabilità. Vale la pena di riportare un testo, anche se un po' lungo, della prima opera scritta contro i pelagiani. " A peccare non veniamo aiutati da Dio, ma senza essere aiutati da Dio non possiamo fare quello che è giusto o adempiere in pieno la legge della giustizia ". E aggiunge un esempio chiarificatore: " Come infatti l'occhio corporale non è aiutato dalla luce perché chiudendosi si distolga e si allontani da lei, ma per vedere viene aiutato dalla luce e non può vedere se la luce non l'aiuta, così Dio, che è la luce dell'uomo interiore, aiuta l'intuito della nostra mente perché operiamo alcunché di buono, non secondo la nostra giustizia, ma secondo la sua. Viceversa allontanarci da Dio dipende da noi: allora seguiamo i desideri della carne, allora acconsentiamo alla concupiscenza della carne per atti illeciti. Dio dunque ci aiuta, se convertiti a lui; ci abbandona, se convertiti ad altro ". Ma aggiunge concludendo e riassumendo gran parte della dottrina della grazia: " Ma ci aiuta pure perché ci convertiamo a lui: un aiuto che certamente questa luce terrena non presta agli occhi del corpo " 15.
Chi poi volesse trovare la radice metafisica della dottrina illustrata qui con un esempio, dovrebbe riferirsi alla Città di Dio. Tutti sanno con quanto impegno filosofico-teologico sia stata scritta quest'opera. In essa ricorda ancora una volta il luminoso principio della salvezza che quando s'incontra nelle opere agostiniane - e si trova moltissime volte 16 - bisogna metterlo in rilievo, perché molti pensano che non sia suo, mentre è suo ed è fondamentale. Il principio è questo: " L'anima non abbandona Dio perché è stata abbandonata da Lui, ma al contrario: è abbandonata perché ha abbandonato; non v'è dubbio che la sua volontà è la prima nei confronti del male mentre è prima nei confronti del bene la volontà del suo creatore, sia nel crearla dal nulla, sia nel rianimarla quando si era perduta nel cadere " 17. Ne segue dunque che quando la volontà pecca, la colpa è sua, quando opera il bene è dono di Dio.
La stessa idea viene ribadita e approfondita altrove, là dove raccomanda alla " città celeste, pellegrina sulla terra ", d'imparare a non riporre la sua fiducia nel proprio libero arbitrio che può allontanarsi dal bene, ma nell'invocare il nome del Signore. Ed eccone la ragione metafisica. " La volontà infatti, nella sua natura, creata buona da Dio buono, ma mutabile... in quanto tratta dal nulla, può anche allontanarsi dal bene per fare il male, e ciò lo compie [solo] il libero arbitrio, e può allontanarsi dal male e fare il bene, e questo non è possibile senza l'aiuto di Dio " 18.
Ho sottolineato le parole su cui vorrei richiamare l'attenzione del lettore, perché contengono, a mio giudizio, la radice della soluzione agostiniana. L'uomo ha di suo l'essere creato dal nulla, e quindi la limitazione, la mutabilità, la defettibilità da cui deriva per necessaria conseguenza la possibilità (la possibilità, non la necessità) della defezione dal bene, ché questo è il peccato. Scrive in una delle ultime opere: " Ci si chiede [dai manichei] - Agostino aveva ripetuto ancora una volta che tutte le cose sono buone - allora da dove l'origine del male? Rispondiamo: dal bene, ma non dal sommo, immutabile Bene. Il male è derivato dai beni inferiori e mutevoli... La natura è la stessa sostanza capace di bontà o di malizia. E' capace di bontà per la partecipazione al Bene da cui è stata fatta; è capace invece di malizia non per la partecipazione al male, ma per la privazione di un bene. In altre parole, la natura acquisisce un male non in quanto si mescola ad una natura che è un male - nessuna natura infatti in quanto tale è male -, bensì in quanto deflette dalla natura che è sommo ed immutabile Bene, e questo perché non da essa è stata tratta, ma dal nulla. Se non fosse mutevole, d'altronde, la natura non potrebbe neppure avere la cattiva volontà. La natura, in verità, non avrebbe potuto essere mutevole se fosse derivata direttamente da Dio e non fosse stata tratta dal nulla. Per questo, Dio creatore delle nature è creatore di cose buone; la loro spontanea defezione dal bene indica non da chi sono state create, ma da che cosa sono state tratte. E questo non è un qualche cosa perché è assolutamente nulla " 19.
Peccando dunque la volontà indica non da chi è stata creata, ma da dove è stata creata: questa la ragione perché la volontà può da sola (non senza, si capisce, che Dio la conservi nell'essere) tutto ciò che è negativo, e perché non può compiere il bene, che è positivo, senza l'aiuto di Dio. La metafisica dà conforto all'espressione oratoria: i peccati son tuoi, i meriti sono di Dio 20 e assicura l'unità del pensiero.
Questa stessa filosofia, che gli era sempre presente a causa della controversia manichea, unita ad un testo evangelico che dice: Chi proferisce menzogne parla del suo (Io 8,4421, gli suggerirono parole che intese nel vero senso, quello metafisico, sono splendide; prese invece in un senso che non è il loro, quello morale, hanno suscitato timori, distinzioni ed interminabili discussioni 22.
Agostino dunque voleva spiegare al suo popolo che quando l'oratore parla - e si riferiva anche a se stesso -, se dice ciò che viene da Dio, è utile a chi parla e a chi ascolta; le cose invece che vengono dall'uomo non sono che menzogne, perché nessuno ha di suo se non menzogna e peccato.
Ecco quelle parole: Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum. E, spiegando, continua: " Quanto l'uomo possiede di verità e di giustizia, proviene da quella fonte, di cui dobbiamo essere assetati in questo deserto, se vogliamo come da alcune gocce di rugiada esserne irrorati e ristorati durante la nostra peregrinazione, e così non venir meno nel cammino, e pervenire là dove la nostra sete sarà placata e saziata. Se dunque chi proferisce menzogne, parla del suo (il testo evangelico lo aveva citato anche poco prima), chi proferisce la verità, parla di ciò che è di Dio: qui loquitur veritatem de Deo loquitur " 23.
A chi legga queste parole senza preoccupazioni estranee, risulta chiaro che hanno un significato metafisico. Lo confermano il principio di partecipazione che viene esplicitamente ricordato e il testo biblico che fece sempre grande impressione ad Agostino, perché in una maniera incisiva e drastica conferma il principio suddetto e ricorda una grande luminosa verità sull'uomo; sull'uomo che deve salutarmente convincersi di avere da Dio tutto ciò che ha - l'essere, la verità, l'amore 24 - e che non ha di suo se non quanto è negativo: il nulla, la menzogna, il peccato.
Agostino torna spesso sul testo biblico 25 e qualche volta con tanta ricchezza di eloquio, con tanta chiarezza e profondità di pensiero da stupire 26. Del resto egli ne è tanto convinto e ne tira profondamente le conseguenze per se stesso, tanto che, terminando la celebre opera su La Trinità, fa a Dio questa umile, commovente preghiera: " Signore, Dio unico, Dio- Trinità, tutto ciò che ho detto in questi libri di tuo, riconoscilo tu e lo riconoscano i tuoi; se ho detto qualcosa di mio, perdonalo tu, lo perdonino i tuoi. Amen. " 27: se ho detto qualcosa di mio, ho bisogno del tuo perdono e di quello dei tuoi figli. Nulla di più bello, nulla di più profondo!
Eppure l'effato ricordato sopra -- Nemo habet de suo nisi mendacium et peccatum -, che il Concilio Arausicano II fece proprio nel can. 22 il quale parla appunto de iis, quae hominum sunt propria 28, ha dato occasione ad accese quanto inutili discussioni e a ingiustificati timori. Questi sono arrivati fino ai nostri giorni 29.
Chi ne volesse sapere la ragione non la cerchi nel testo agostiniano che, preso nel suo significato metafisico, tanto nel Commento a S. Giovanni, da cui il Concilio l'ha tratto, quanto altrove, è limpido e chiaro; ma la cerchi nelle controversie baiane e gianseniste nelle quali il senso del testo fu trasferito dal piano metafisico a quello morale quasi in esso si trattasse delle capacità naturali dell'uomo di operare il bene senza la grazia. Questo spostamento ha falsato il testo e ha dato occasione a discussioni senza fine e senza conclusioni. E' uno dei tanti incidenti capitati all'agostinismo.
Riportare qui quelle discussioni è inutile. Basta dire che non hanno nulla a che fare col nostro testo. Chi volesse conoscere il pensiero di Agostino sulla questione posta dal giansenismo deve ricorrere ad altri testi 30.
E' fuorviante pertanto citare le proposizioni baiane o gianseniste che insistono nel dire che tutte le opere degli infedeli sono peccati o che il libero arbitrio senza la grazia non vale se non a peccare, quasi per ammonire che le parole agostiniane potrebbero ma non debbono essere intese in quel senso; questo vuol dire che si continua su di un filone interpretativo che non è quello agostiniano ed è senza uscita.
La questione dunque è tutt'altra, e precisamente quella che ci tiene occupati: perché l'uomo debba incolpare sé del peccato e lodare Dio del bene che compie. Agostino chiede la soluzione proprio alle parole evangeliche: de suo loquitur. Se l'uomo non ha di suo che la menzogna - e ogni peccato è menzogna - non può non sentirsi in colpa se pecca, non può non lodare Dio se opera il bene.
Ma è forse meglio, concludendo, rileggere un testo agostiniano, anche se lungo. L'ho già ricordato. " Dice il Vangelo: Chi dice menzogna parla del suo. E ogni peccato è menzogna, poiché tutto quanto è contro la legge e contro la verità è menzogna. Che significa allora: Chi dice menzogna parla del suo? Significa: Chi pecca, pecca usando sue risorse. State attenti alla conclusione opposta! Se chi dice menzogna parla del suo, chi dice verità parla per dono di Dio. Per questo altrove è detto: Solo Dio è verace; ogni uomo è menzognero. Con questa sentenza non ti si dice: Avanti pure! Sei uomo, quindi puoi mentire tranquillamente. Al contrario ti si dice: Se ti riscontri menzognero renditi conto che sei uomo. E se vuoi essere verace bevi alla fonte della verità, e così usciranno dalla tua bocca parole di Dio e non sarai più menzognero. Siccome da te stesso non puoi avere la verità, non ti resta altro che berla alla sua sorgente ". Aggiunge poi due esempi efficacissimi suggeriti e confermati anch'essi dai testi biblici: " Pensa alla luce. Se te ne allontani tu piombi nelle tenebre. Immagina una pietra. Non appena l'allontani dal calore diventa fredda, poiché non ha un calore suo proprio ma è riscaldata dal sole o dal fuoco. E' chiaro, quindi, che non era una sua risorsa innata ciò che la rendeva calda, ma il suo calore proveniva o dal sole o dal fuoco. Così anche tu, se ti allontanerai da Dio ti raffredderai; se ti avvicinerai a Dio ti riscalderai ". Questa infine la conclusione: " E allora, se è vero che non puoi compiere nulla di buono se non sei illuminato dalla luce di Dio e riscaldato dallo Spirito di Dio, tutte le volte che avrai la consapevolezza di compiere il bene, confessalo a Dio e, per non insuperbirti, di' anche tu ciò che diceva l'Apostolo: Che cosa hai tu che non l'abbia ricevuto? (1 Cor 4,731 ".

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:50
1 - Contra duas ep. pelag. 4, 6, 14; cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, p. CLXIII.

2 - De gr. et lib. arb. 14, 29.

3 - De praed. sanct. 8, 13.

4 - De gr. et lib. arb. 14, 32.

5 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 10, 11; cf. J. AMENGUAL BATLE, La attración del Padre y la fé en Cristo, Bilbao 1973.

6 - De gestis Pel. 3, 5; cf. però De corrept. et gr. 2, 4.

7 - De gestis Pel. 3, 5.

8 - De gr. et lib. arb. 16, 32.

9 - Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. XCII-CIII.

10 - De dono pers. 23, 63.

11 - De praed. sanct. 8, 15.

12 - Contra duas ep. pelag. 4, 9, 26.

13 - Vedi sopra Premessa storico-dottrinale, nn. 2- 3.

14 - Ep. 217, 1, 1.

15 - Ep. 217, 1, 2.

16 - Ep. 217, 2, 6.

17 - Ep. 217, 7, 26. Inutile dire che da questa dottrina agostiniana dipendono sia l'autore del De vocatione omnium gentium 1, 12, sia i Capitula ps. Caelestina che al c. 8 enunciano il celebre principio che indica la liturgia come fonte di argomentazione teologica: ut legem credendi lex statuat supplicandi (DS 246).

18 - De gr. et lib. arb. 5, 12.

19 - Opus imp. c. Iul. 1, 93.

20 - Ep. 217, 6, 24.

21 - De gr. et lib. arb. 5, 12.

22 - Vedi sopra p. 1, c. 3, par. 1.



1 - De sp. et litt. 33, 58.

2 - Ench. 26, 102.

3 - Cf. GIANSENIO, Augustinus, t. 2.

4 - Serm. 214, 2.

5 - De sp. et litt. 35, 58.

6 - Ep. 140, 2, 4.

7 - De civ. Dei 11, 17; cf. Confess. 1, 10, 16; De Gen. ad litt. 3, 14, 37.

8 - Vedi sotto p. 3, c. 2, par. 2.

9 - Serm. 169, 13.

10 - Cf. Ench. 25, 98; Contra duas ep. pelag. 1, 19, 37-20, 38; 4, 9, 26; De gr. et lib. arb. 20, 41-23, 45; De corrept. et gr. 14, 45; De praed. sanct. 8, 15; Opus imp. c. Iul. 1, 93; 2, 157; 3, 122; 6, 10.

11 - Ench. 25, 98.

12 - Vedi p. 2, c. 1, par. 2.

13 - Opus imp. c. Iul. 2, 157.

14 - Vedi p. 2, c. 1.

15 - De corrept. et gr. 14, 45.

16 - Confess. 3, 6, 11.

17 - Vedi sopra p. 2, c. 2, par.4.

18 - Vedi p. 2, c. 1, par. 3.

19 - AMBROGIO, Espos. al Vang. sec. Lc 7, 27:BA 12, p. 114. Un testo che Ag. cita spesso: cf. De gr. Chr. et de p. o. 46, 51; Opus imp. c. Iul. 1, 135.138; 2, 85.

20 - Opus imp. c. Iul. 1, 93; cf. Ench. 24, 97.

21 - Opus imp. c. Iul. 2, 157.

22 - De sp. et litt. 31, 53; cf. De div. qq. ad Simpl. 1, 2, 10.

23 - Opus imp. c. Iul. 3, 122.

24 - Cf. In Io. ev. tr. 26, 4: Nolite cogitare invitum trahi.

25 - Cf. Contra duas ep. pelag. 1, 18, 36: Non est homo bonus si nolit.

26 - DANTE, Div. Comm. 1, 27, 120.

27 - Opus imp. c. Iul. 1, 101.

28 - Vedi p. 2, c. 1, par. 1.

29 - De corrept. et gr. 12, 38.

30 - Cf. nota del Migne al De corrept. et gr.: PL 44, 940.

31 - De corrept. et gr. 12, 35.

32 - De corrept. et gr. 12, 38.

33 - De corrept. et gr. 12, 38.

34 - De corrept. et gr. 8, 17.

35 - Vedi p. 1, c. 3.

36 - Vedi p. 1, c. 5, par. 2.

37 - Vedi sopra par. 3.



1 - Vedi p. 1, cc. 1-2.

2 - Vedi p. 1, c. 3, par. 4.

3 - Contra litt. Petil. 2, 84, 185.

4 - De pecc. mer. et rem. 2, 18, 24.

5 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 47, 52. Giuliano riporterà a suo modo queste parole, togliendo cioè il negari videatur, e il putetur auferri, che Ag. aveva usato per indicare ipsius quaestionis difficultatem, e facendo dire al suo avversario quel che non aveva detto, cioè che grazia e libertà sono inconciliabili. Questi smaschera la calunnia e conclude con forza: Redde verba mea et vanescet calumnia tua (Contra Iul. 4, 8, 47). Questione difficile, sì, ma insolubile no.

6 - De gr. et lib. arb. 1, 1; 24, 46.

7 - Ep. 214, 6.

8 - De s. virg. 19, 19; In Io. ev. tr. 71, 2.

9 - Vedi sopra p. 1ª, c. 3.

10 - De gr. et lib. arb. 24, 46.

11 - Ep. 120, 13.

12 - Vedi p. 1, c. 5.

13 - De gr. et lib. arb. 16, 32. Notino queste parole quanti pensano che parlare di grazia efficace non è agostiniano.

14 - De corrept. et gr. 11, 32.

15 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 13.

16 - De dono pers. 14, 35.

17 - De praed. sanct. 8, 13.

18 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 10, 11; De sp. et litt. 34, 60.

19 - De corrept. et gr. 11, 32.

20 - De gestis Pel. 1, 3; De corrept. et gr. 12, 34.

21 - Vedi sopra p. 1, c. 5, par. 4.

22 - De pecc. mer. et rem. 2, 18, 32.

23 - Vedi in questo stesso paragrafo.

24 - Vedi Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, p. CLV s.

25 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 14, 15.

26 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 7, 8-9, 10; cf. Introd. part. a quest'opera in NBA XVII/2, p. 127.

27 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 13, 14.

28 - In Io. ev. tr. 26, 5.

29 - Contra duas ep. pelag. 4, 5, 11.

30 - Vedi sotto par. 4.

31 - De nat. et gr. 70, 84; cf. il mio art. S. Ag. mistico, in La mistica, Città Nuova ed., Roma 1984, pp. 315-360.

32 - Cf. De civ. Dei 14

33 - Confess. 8, 5, 10 s.

34 - De div. qq. ad Simpl. 1, 2, 14.

35 - Ep. 2, 8: CSEL 88, 15.

36 - De sp. et litt. 34, 60.

37 - Vedi sotto p. 3, c. 7.

38 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 10, 11.

39 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 10, 11: Et si inter docere et suadere vel potius exhortari distare aliquid videtur...

40 - De sp. et litt. 34, 60.

41 - Contra duas ep. pelag. 2, 3, 5: correptionis... clementissima suasio.

42 - De nat. et gr. 18, 32: Quis nesciat fidelium a satana venisse primam peccati suasionem?; Serm. 20, 2: ...diabolum habet potestatem...; Serm. 16/B, 1: Non habet cogendi, sed astutiam suadendi; ecc.

43 - Ag. qui e altrove (cf. De corrept. et gr. 7, 14) legge: omnia cooperatur [Deus] in bonum, e non come le edizioni critiche: omnia cooperantur in bonum.

44 - De gr. et lib. arb. 17, 33.

45 - De nat. et gr. 31, 35.

46 - Ibidem.

47 - Serm. 193, 2.

48 - Cf. H. DE LUBAC, Augustinisme et théologie moderne, Aubier 1965, c. 2: Jansenius; J. LEBOURLIER, Grâce et liberté chez S. Aug., in: Aug. Magister, II, pp. 789-793; DE BROGLIE, Pour une meilleure intelligence du " De correptione et gratia ", in: Aug. Magister, III, pp. 317-337; il primo difende Ag. contro l'interpretazione di Giansenio, il secondo sostanzialmente la riprende, il terzo sostiene che non lo si deve spiegare con gli schemi scolastici. Negli anni '60: CH. BOYER, L'" adiutorium sine quo non ". La nature et son importance dans la doctr. de St. Aug., in: Doctor communis, 13 (1960), pp. 5-18; A. SAGE, Les deux temps de la grâce, in: REA, 7 (1961), pp. 209 ss., che stringono più da vicino il problema, per quanto il primo vuol inserire nella concezione agostiniana - e qui mi pare il suo torto - la concezione che sarà di Molina e ve l'inserisce in maniera tutt'altro che felice, continuando l'equivoco di leggere Agostino con gli occhi della scolastica.

49 - De gestis Pel. 1, 3.

50 - De gr. Chr. et de p. o. 29, 30; cf. Serm. 156, 13.

51 - De corrept. et gr. 12, 34.

52 - Cf. De corrept. et gr. 11, 32.

53 - Opus imp. c. Iul. 6, 12. 22: non inaniter credit Ecclesia.

54 - Contra duas ep. pelag. 1, 19, 37.

55 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 24, 25.

56 - Opus imperf. c. Iul. 2, 157.

57 - L'opera più estesa è il IV libro del De Trinitate.

58 - Ep. 137, 3, 11. Tutta la lunga lettera, scritta ad un pagano, è dedicata al mistero dell'Incarnazione.



1 - Cf. Confess. 4, 4, 7-7, 12; M. A. MC NAMARA, L'amicizia in S. Ag., trad. ital., Milano 1970.

2 - Cf. De civ. Dei 14; Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. LXVI- LXXXIII.

3 - De Trin. 9, 10, 15.

4 - Exp. ep. ad Gal. 57; In Io. ep. tr. 7, 8.

5 - De civ. Dei 9, 10, 15.

6 - De mor. Eccl. cath. 1, 15, 25.

7 - De civ. Dei 15, 22.

8 - De civ. Dei 14, 18.

9 - De Gen. ad litt. 11, 15, 20.

10 - Contra duas ep. pelag. 4, 5, 11.

11 - De gr. et lib. arb. 18, 37.

12 - De nat. et gr. 70, 84.

13 - In Io. ev. tr. 87, 1.

14 - De doctr. christ. 1, 35, 39; 3, 10, 15; Serm. 350.

15 - De Trin. 14, 6, 9.

16 - De civ. Dei 14, 7, 2.

17 - Confess. 13, 9, 10.

18 - De Trin. 14, 14, 18.

19 - De civ. Dei 14, 7, 2.

20 - De Trin. 15, 21, 41.

21 - De sp. et litt. 14, 26.

22 - De pecc. mer. et rem.

23 - De civ. Dei 14, 7, 2.

24 - Serm. 131, 2.

25 - In Io. ev. tr. 26, 4.

26 - In Io. ev. tr. 26, 2.

27 - Vedi sopra, p. 2, c. 2, par. 2.

28 - In Io. ev. tr. 26, 4.

29 - Ibidem.

30 - Cf. In Io. ev. tr. 41, 10.

31 - Enarr. in ps. 67, 13; 67, 18: amando liberaliter faciamus, quod timendo qui facit, serviliter facit.

32 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 13, 14.

33 - Ep. 167, 6, 19.

34 - De sp. et litt. 30, 52.

35 - Opus imp. c. Iul. 3, 112.

36 - Enarr. in ps. 118, d. 22, 7.

37 - Serm. 131, 2.

38 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 13, 14.

39 - Contra Faustum 22, 27.

40 - In Io. ev. tr. 26, 5; cf. Serm. 131, 6.

41 - In Io. ev. tr. 26, 5.

42 - De sp. et litt. 3, 5.

43 - De pecc. mer. et rem. 2, 17, 26.

44 - Exp. ep. ad Gal. 49.

45 - Serm. 159, 8.

46 - Confess. 8, 12, 29.



1 - Confess. 8, 2, 3.

2 - Confess. 8, 2, 3: Perrexi ad Simplicianum... ; cf. De civ. Dei 10, 29, 2.

3 - L'opera fu scritta all'inizio dell'episcopato; De praed. sanct. 4, 8: in ipso exordio episcopatus mei; cf. De dono pers. 20, 52.

4 - Ep. 37; De div. qq. ad Simpl. 1, praef..

5 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 2.

6 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 2.

7 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 6-7.

8 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 9.

9 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 11.

10 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 14.

11 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 13. Sul principio Deus non deserit nisi deseretur vedi questa stessa Introduzione, p. 3, c. 5, par. 2.

12 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 14.

13 - Retract. 1, 1, 1.

14 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 16.

15 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 17.

16 - Vedi appresso, p. 3, c. 5, par. 3.

17 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 18.

18 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 16.

19 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 18.

20 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, p. CXXIII.

21 - De nupt. et concup. 2, 12, 25; Contra Iul. 6, 12, 39; Opus imp. c. Iul. 2, 104. Vedi Introd. gen. a Dialoghi, NBA III/2, pp. XI- XIV.

22 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CXXII-CXXVII.

23 - Retract. 2, 1.

24 - Expositio 55; Retract. 1, 23, 2 dice correggendo: " non avevo ancora più diligentemente cercato, né ancora avevo trovato qualis sit electio gratiae ".

25 - Expositio 60; Retract. 1, 23, 2: " questo senza dubbio non lo avrei detto se avessi saputo già che tra i doni che vengono elargiti dallo Spirito c'è anche la fede ".

26 - Retract. 1, 26, 68.

27 - Per più ampie affermazioni cf. A. CASAMASSA, Il pensiero di Ag. nel 396-397, Roma 1919; A. PINCHERLE, La formazione teologica di S. Ag., Roma (s.d.).

28 - Retract. 2, 1; De praed. sanct. 9, 17; ecc.

29 - Epp. 225; 226 [tra le agostiniane].

30 - Solil. 1, 1, 2.

31 - Ibidem.

32 - Solil. 1, 1, 6.

33 - De ord. 2, 20, 52.

34 - De dono pers. 20, 53.

35 - De gestis Pel. 14, 33.

36 - In Io. ev. tr. 3, 9.

37 - Serm. 26, 4.

38 - Serm. 26, 5.

39 - Serm. 26, 7.

40 - De praed. sanct. 5, 10.

41 - De civ. Dei 12, 9, 2.

42 - Cf., p. es., De corrept. et gr. 7, 13;

43 - Serm. 160.

44 - Serm. 169, 3.

45 - En. in ps. 144, 10.

46 - Introd. part. al De corrept. et gr.

47 - De corrept. et gr. 10, 27-28.

48 - De corrept. et gr. 12, 37.

49 - Agostino, che lo cita spessissimo, lo intende sempre in questo modo, come pure Cipriano in De oratione dominica.

50 - De praed. sanct. 3, 7; De dono pers. 17, 43.

51 - Retract. 2, 1, 1.

52 - De praed. sanct. 3, 7; 4, 8.

53 - De corrept. et gr. 6, 9 -10.

54 - Lettera d'Ilario 226, 4 [tra le agostiniane].



1 - De gestis Pel. 14, 30.

2 - De gestis Pel. 14, 32.

3 - De gestis Pel. 14, 32-37; cf. Introduzione agli Atti di Pelagio, NBA XVII/2, p. 9 s.

4 - Cf. De gr. Chr. et de p. o.: NBA XVII/2.

5 - Vedi qui sopra: Preliminari, II, par. 1.

6 - Ep. 214, 3.

7 - Contra duas ep. pelag. 2, 5, 10 - 6, 12.

8 - Contra Iul. 4, 8, 46; vedi più sotto p. 3, c. 3, par. 3.

9 - Contra duas ep. pelag. 3, 8, 24; 4, 7, 19; cf. sotto p. 3, c. 1, par. 1.

10 - De gr. et lib. arb. 14, 27.

11 - Per il metodo agostiniano vedi Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. XVII-XXVI.

12 - Epp. 225-226 [tra le agostiniane]; vedi sopra Preliminari, II, 5.

13 - Vedi appresso p. 3, c. 1, par. 1.

14 - Ep. 214, 3.

15 - Ep. 214, 4.

16 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. XCII-CIII sulla teologia del battesimo dei bambini.

17 - Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CXLII-CL sulla progressività della giustificazione.

18 - Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CLXVIII- CLXXVI.

19 - Vedi sopra p. 2, c. 1.

20 - DS 246.

21 - Cf. Contra Iul., libri 1-2.

22 - De dono pers. 23, 63.

23 - De oratione dominica; cf. De dono pers. 2, 4 ss.

24 - De fuga saeculi 1, 1; cf De dono pers. 8, 20.

25 - Discorso sulla Pentecoste: PG 36, 440; cf. BA 24, pp. 831- 835.

26 - De pecc. mer. et rem. 2, 17, 27.

27 - Opus imp. c. Iul. 1, 140.

28 - Vedi appresso p. 3, c. 4, par. 2.

29 - De civ. Dei 10, 29, 1.

30 - Ep. 187, 12, 40.

31 - Serm. 67, 7.

32 - In Io. ev. tr. 82, 4.

33 - Ench. 11, 36; De corrept. et gr. 11, 30.

34 - Ench. 11, 36; 12, 40.

35 - Serm. 294, 9.



1 - Introduzione generale a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. 131-154.

2 - En. in ps. 30, II, s. 1, 6.

3 - En. in ps 18, II, 2.

4 - Ep. 120, 2, 8.

5 - De patientia 21, 18.

6 - Vedi appresso, p. 3, c. 1, par. 1.

7 - Ep. 225, 3 [tra le agostiniane]; 226, 2 [tra le agostiniane].

8 - De praed. sanct. 2, 3.

9 - De praed. sanct. 3, 7; cf. sopra c. 5, par. 2.

10 - De praed. sanct. 2, 3.

11 - De praed. sanct. 8, 13.

12 - De praed. sanct. 8, 15; cf. Ep. 217.

13 - Contra Iul., libri 1-2.

14 - De praed. sanct. 14, 27.

15 - Vedi p. 3, c. 4, par. 2.

16 - De praed. sanct. 15, 30-31.

17 - De praed. sanct. 15, 31.

18 - Ep. 225, 4 [tra le agostiniane]; 226, 4 [tra le agostiniane]; cf. Introd. part. al De praed. sanct. e al De dono persev.

19 - De corrept. et gr. 6, 10 - 7, 15; De dono persev. 21, 55.

20 - De dono persev. 1, 1.

21 - De corrept. et gr. 6, 10.

22 - Ibidem.

23 - De corrept. et gr. 8, 17.

24 - De corrept. et gr. 6, 10.

25 - De corrept. et gr. 7, 15.

26 - Cf. la lettera d'Ilario (Ep. 226, 4 [tra le agostiniane]).

27 - De corrept. et gr. 8, 19.

28 - De praed. sanct. 14, 26.

29 - De dono pers. 10, 24.

30 - Retract. 2, 4, 2; 2, 20; Speculum, De libro Sap., praef.; Opus imp. c. Iul. 4, 123.

31 - De praed. sanct. 14, 27-28.

32 - De dono pers. 17, 43.

33 - De praed. sanct. 14, 26.

34 - De dono pers. 2, 4 - 6, 12.

35 - De dono pers. 7, 13.

36 - De praed. sanct. 19, 39.

37 - De dono pers. 2, 3.

38 - De dono pers. 7, 15.

39 - De dono pers. 24, 67; cf. p. 3, c. 4, par. 2 di questa introduzione.

40 - De dono pers. 6, 10.

41 - De dono pers. 16, 39.

42 - Cf. p. 3, c. 9, par. 1.



1 - Cf. la dottrina dei Riformatori e, al Concilio di Trento, quella cattolica, che è l'eco fedele di quella agostiniana; cf. Decreto sulla giustificazione, c. 16: DS 1545.

2 - De perf. iust. hom. 17, 38. Vedi sopra, Preliminari, I, nota 3.

3 - Vedi cc. 5- 7.

4 - Cf., per es., En. in ps. 60, 9; 95, 15; Serm 84; 85; 87; 94; ecc.

5 - De fide et op. 14, 21.

6 - Retract. 2, 38; De fide et op. 14, 21-27, 49.

7 - En. in ps. 36, d. 2, 16.

8 - En. in ps. 36, d. 1, 8.

9 - De gr. et lib. arb. 8, 19.

10 - De gr. et lib. arb. 8, 20.

11 - Ibidem.

12 - De gr. et lib. arb. 6, 15.

13 - De gr. et lib. arb. 6, 14.

14 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 21.

15 - Cf. c. 5, par. 1.

16 - Confess. 9, 13, 34.

17 - Ep. 194, 5, 19.

18 - Ep. 186, 10.

19 - Serm. 170, 10; 297, 6.

20 - Serm. 191, 8.

21 - En. in ps.102, 7; cf. En. in ps. 70, s.2, 5; 98, 8; 142, 18; 144, 11; ecc.

22 - Vedi sopra c. 5, par. 4.

23 - En. in ps. 144, 11.

24 - En. in ps. 70, s. 2, 5.

25 - Ep. 194, 3, 6.

26 - Serm. 158, 2.

27 - Cf. P.-P. VERBRAKEN, Études critiques sur les sermons authentiques de st. Aug., Steenbrugge 1976, p. 92.

28 - De gr. Chr. et de p. o. 1, 31, 34.

29 - Ep. 194, 3, 9.

30 - En. in ps. 31, s. 2, 1.

31 - Ibidem.

32 - En. in ps. 31, s. 2, 8.



1 - De nat. et gr. 1, 1.

2 - En. in ps. 70, s. 2, 5; cf. sopra c. 8, par. 2.

3 - De gestis Pel. 3, 5. Si veda ivi stesso il commento di Ag. Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, p. 2, c. 3, par. 2.

4 - Cf. l'Introd. gen. a Natura e grazia, loc. cit., e questa stessa Introduzione, sopra p. 2, c. 6.

5 - Vedi sopra p. 1, c. 1, par. 2.

6 - Vedi sopra p. 1, cc. 1-2.

7 - Vedi sopra p. 2, II, cc. 5-8.

8 - En. in ps. 31, s. 2, 16.

9 - Cf. En. in ps. 140, 10-11.

10 - Confess. 8, 10, 22.

11 - De praed. sanct. 3, 7; De dono pers. 17, 43.

12 - Vedi nota 2.

13 - De dono pers. 8, 19.

14 - Ep. 28, 8:CSEL 88, 15.

15 - De pecc. mer. et rem. 2, 5, 5.

16 - Vedi p. 3, c. 5, par. 2.

17 - De civ. Dei 13, 15.

18 - Ibidem.

19 - Contra Iul. 1, 8, 37.

20 - En. in ps. 70, s. 2, 5.

21 - Il Vangelo dà questo giudizio del diavolo: Quando dice il falso parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna (Io 8, 44).

22 - Vedi sopra, Preliminari, II, par. 11.

23 - In Io Ev. tr. 5, 1.

24 - Vedi De civ. Dei 8, 10; ecc. sulla nozione di Dio "causa dell'essere, luce del conoscere, fonte dell'amore".

25 - Cf., per es., Serm. 166, 3.

26 - Cf. En. in ps. 91, 6.

27 - DE Trin. 15, 28, 51.

28 - DS 392.

29 - Cf. Ibidem, nota relativa.

30 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CLXVIII-CLXXVI.

31 - En. in ps. 91, 6.
MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:52

PARTE TERZA

PREDESTINAZIONE

La dottrina della predestinazione dipende totalmente dalle due verità esposte sopra: efficacia e gratuità della grazia. Ammesso che Dio ha sempre in serbo la grazia per condurre infallibilmente gli uomini alla salvezza e che questa grazia è un dono ineffabilmente gratuito, si potrebbe tacere affatto della predestinazione che non è altro, nei piani di Dio, come dice Agostino nella celebre definizione, che " la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio " 1, quei benefici appunto efficaci e gratuiti che conducono l'uomo alla salvezza o più semplicemente, come dice ancora: " la disposizione [da parte di Dio] delle sue opere future: proprio questo, nient'altro, vuol dire predestinare " 2.
Ma questa dottrina ha suscitato troppe controversie nel passato - si ricordi la violenta reazione dei semipelagiani e le distorte interpretazioni dei predestinaziani - e troppe ne suscita anche nel presente 3 per poter tacerne completamente. Ne esporrò pertanto le linee fondamentali, perché sia possibile darne un giudizio che rispetti le leggi della critica, che sono poi le leggi dell'esatta informazione, la quale esclude l'avventatezza e la superficialità, due mali non sempre assenti negli scritti di studiosi anche, per altre ragioni, benemeriti.
Comincerò dunque da una precisazione doverosa per esporne, poi, alcune premesse necessarie, indicarne il senso e i termini del mistero, le grandi verità a cui è legato, le relazioni con la vita pastorale della Chiesa. Importa, soprattutto, quest'ultimo aspetto sul quale il lettore non mancherà di fissare l'attenzione.

CAPITOLO PRIMO

PRECISAZIONE DOVEROSA

La precisazione consiste nell'avvertire il lettore che la dottrina non occupa nel complesso dell'insegnamento agostiniano sulla grazia il posto che molto spesso gli viene attribuito. Questo non è né primario né principale. Non sta infatti tra le verità fondamentali che la Chiesa cattolica, secondo Agostino, difendeva contro i pelagiani.

1. Le tre verità fondamentali

Tra queste verità fondamentali che il dottore della grazia riassume esplicitamente per ben quattro volte, la predestinazione non c'è. Né si sa bene perché ce l'abbiano messa gli studiosi, o forse si sa: la storia delle discussioni teologiche può insegnarci qualcosa. Ma per ora restiamo ad Agostino.
Scrive verso il 420, rispondendo alle due lettere dei pelagiani: " Or dunque i pelagiani con queste e simili testimonianze o voci della verità sono incalzati perché non neghino il peccato originale, perché non dicano che la grazia di Dio con la quale siamo giustificati non é data gratuitamente ma secondo i nostri meriti, perché non dicano che in un uomo mortale, per quanto santo e ben operante, si può trovare tanta giustizia da non essergli necessaria la remismissione dei peccati anche dopo il lavacro della rigenerazione fino a quando non cessi di vivere questa vita. Ma quando sono incalzati a non dire questi tre spropositi... " 4.
Poco dopo, nella stessa opera, ripete in un altro contesto le stesse idee quasi con le stesse parole. Son sempre le tre grandi verità che i cattolici difendevano contro i pelagiani. Questi esaltavano la loro dottrina con le lodi della creazione, delle nozze, della legge, del libero arbitrio, dei santi. Agostino replica che tutto questo va bene; ma essi, purtroppo, lo fanno per ingannare gli ineruditi e gli incauti su quanto negano della dottrina cattolica. Negano infatti le tre grandi verità che la Chiesa difende contro di loro: il peccato originale, la gratuità della grazia, che non viene concessa secondo i meriti, la necessità che ogni uomo, anche giustificato, chieda perdono dei propri peccati 5.
In un'altra opera di più grande respiro, nel Contra Iulianum, scritto l'anno appresso, riassume nella negazione di queste tre verità la ragione della condanna dei pelagiani. " I giudici che vi hanno condannato - scrive - sapevano che voi insegnate che i bambini nascendo non contraggono nulla di male che debba essere purificato rinascendo. Sapevano che voi insegnate che la grazia di Dio viene data secondo i nostri meriti... Sapevano che voi insegnate che l'uomo in questa vita possa non avere alcun peccato... " 6.
Ma è particolarmente significativo che in una delle ultime opere, nel De praedestinatione sanctorum - si sa che il De dono perseverantiae non era che un secondo libro di quest'opera - riassumendo le grandi verità che la Chiesa difendeva contro i pelagiani, nomina le tre ricordate sopra, e non nomina la predestinazione, della quale pur stava parlando e che aveva messo a titolo della sua opera. Data l'importanza del testo, eccolo per intero: " Tre sono i punti, come sapete, che con ogni energia la Chiesa cattolica difende contro di loro. Il primo è che la grazia di Dio non viene data secondo i nostri meriti, perché anche tutti i meriti dei giusti sono doni di Dio e per grazia di Dio sono conferiti; il secondo è che, per quanto grande sia la sua giustizia, nessuno può vivere in questo corpo corruttibile senza qualche forma di peccato; infine il terzo è che ogni individuo nasce colpevole del peccato del primo uomo e stretto nel vincolo della condanna, a meno che la colpa che si contrae con la generazione non sia eliminata dalla rigenerazione " 7.
Il testo non ha bisogno di commenti. Questo è certo: tra le verità che costituivano oggetto dell'energica difesa contro i pelagiani, non c'è la predestinazione, segno evidente che non era considerata tra le principali. In realtà non lo era, e non lo è. Serviva soltanto, nella convinzione di Agostino, come roccaforte per difendere la gratuità della grazia che era, ed è, una delle tre verità principali. Lo dice e lo ripete. " Che cosa è stato infatti che in questo nostro lavoro ci ha costretto a difendere con maggior completezza e chiarezza i passi della Scrittura nei quali si ribadisce la predestinazione, se non il fatto che i pelagiani dicono che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti? " 8. E conclude: " Bisogna predicare la predestinazione, affinché la vera grazia di Dio, cioè quella che non viene data secondo i nostri meriti, possa essere difesa con una trincea inespugnabile " 9. La stessa conclusione è ripetuta altrove 10.
.La verità dunque che stava a cuore ad Agostino e che difendeva con tutta l'energia dello spirito, convinto di difendere con essa l'insegnamento della Scrittura e della Chiesa e il fondamento stesso e la forma propria della pietà cristiana, non era la predestinazione ma un'altra, anche se connessa con essa; era la gratuità assoluta della grazia. Chi credesse di poter sostenere questa verità fondamentale, che cioè la fede, la giustificazione, la perseveranza finale, e perciò la vita eterna, sono un dono di Dio; sostenerla, dico, senza ricorrere alla predestinazione, lo faccia pure: troverebbe consenziente il vescovo d'Ippona. Ma chi dovesse confessare di non riuscire a farlo, non critichi almeno chi prima di lui ha avuto la stessa convinzione. Non c'è bisogno dunque di " deagostinizzare " - come qualcuno si compiace di dire - la dottrina della predestinazione, ma solo, se si potesse usare questo barbaro termine, di " depredestinazionizzare " la dottrina agostiniana della grazia, dando alla predestinazione il posto che le compete, che non è principale, e che nulla aggiunge alla gratuità della grazia quando non sia il considerarla nei piani di Dio. Dio infatti non può non avere la prescienza e la predisposizione dei suoi doni. Quello che importa dunque è riconoscere questi doni, che era l'unica cosa che Agostino voleva. Il resto viene da sé.

2. Agostinismo?

Quelli poi che in questa materia commettono un errore più grave sono coloro che fanno della predestinazione l'elemento discriminante per definire l'agostinismo. Tra questi il Rottmanner, che ha fatto scuola, benché a torto. Scrive il menzionato autore in un lungo studio pubblicato alla fine del secolo scorso, ripubblicato all'inizio di questo e tradotto in francese nel '49, uno studio che ha il titolo promettente e significativo di Agostinismo 11 e che è ricco di citazioni - è sempre facile, si sa, raccogliere testi dalle numerose opere agostiniane -, ma è anche ricco di errori nel principio da cui parte, nel metodo che segue e nel contenuto che espone 12; scrive, dico, il menzionato autore, che egli intende per agostinismo " la dottrina della predestinazione incondizionata e della volontà salvifica particolare che S. Agostino ha perfezionato di preferenza nell'ultimo periodo della sua vita ", cioè dal 418 in poi 13.
Ora questa definizione dell'agostinismo, anche se fosse vera nel suo contenuto, e non lo è, sarebbe falsa nel suo principio. E' sempre difficile, è vero, ridurre il vasto pensiero agostiniano a una tesi dominante e qualificante, soprattutto se non si ha cura di distinguere tra agostinismo filosofico, teologico, mistico e magari politico, come qualcuno ha cominciato a dire in questi ultimi tempi; ma anche limitandosi al solo agostinismo teologico e in questo alla sola dottrina della grazia, significa falsare totalmente la prospettiva teologica agostiniana riducendo questa dottrina alla predestinazione, e, per di più, alla predestinazione come si suppone che Agostino l'abbia proposta dal 418 in poi, che non è davvero quella che questo autore suppone.
Il vescovo d'Ippona nella dottrina della grazia è il grande teologo delle tre verità ricordate sopra e, in connessione con esse, della redenzione (natura, necessità, oggettività, universalità), della giustificazione (interiorità, progressività, gratuità), della grazia adiuvante (significato, necessità e, come si è visto sopra, gratuità ed efficacia), delle relazioni tra la natura e la grazia, ed ancora, dell'umiltà, della carità, della preghiera, ecc. 14. Ora tutto questo, che pur rappresenta il più grande progresso dommatico che la teologia abbia mai fatto, resta nell'ombra; prende invece rilievo, come tesi dominante e qualificante, solo la predestinazione e con le restrizioni di tempo indicate. E' difficile capire come si possa fraintendere più apertamente il dottore della grazia.
Qui non si vogliono scusare eventuali limiti di Agostino teologo ricordandone le benemerenze; si vuole dire soltanto che non è lecito, forse sarebbe doveroso aggiungere non è scientificamente onesto, ridurre un vasto e profondo pensiero, qual è certamente quello agostiniano sulla grazia, a una tesi non certo principale, che viene eretta poi a nota qualificante di tutto il panorama dottrinale.
L'agostinismo teologico, anche se si voglia ridurlo all'antropologia soprannaturale - ed è arbitrario, perché si dimentica che il centro del pensiero teologico agostiniano sta nella cristologia -, ha ben altre tesi fondamentali e qualificanti come la dottrina della redenzione e della necessità della grazia, o, per restare alle esplicite indicazioni di Agostino stesso, le tre grandi verità di cui si è parlato. Ad esse, non alla predestinazione di cui il nostro dottore non cessa di ricordare la misteriosità, ad esse, dico, si deve rivolgere chi vuol parlare in questo argomento - e non è consigliabile - di agostinismo.

3. Indicazioni della storia

Ho detto che è difficile capire il rilievo predominante dato alla dottrina agostiniana della predestinazione, ma ho accennato pure, di sfuggita, alla lezione della storia. La quale in rapida sintesi si può ridurre a quattro momenti, ciascuno dei quali può darci una qualche spiegazione: la reazione dei semipelagiani che si fissò principalmente sulla predestinazione, la presa di posizione dei predestinaziani che parlavano di predestinazione al male e negavano che Cristo fosse morto per tutti, i commentatori di Pietro Lombardo e i sommisti medioevali che, parlando prima di tutto per ragioni sistematiche di Dio e della sua provvidenza, parlano della predestinazione rimandando il tema della grazia a trattazioni posteriori, i teologi post-tridentini che hanno creato i noti sistemi sulla grazia, i quali parlando della predestinazione l'hanno caricata di tutti i problemi che la grazia e la prescienza divina pongono e che loro intendevano sciogliere.
Com'è noto, la reazione semipelagiana durò oltre un secolo suscitando discussioni e dando occasione al sorgere di una letteratura intorno alla predestinazione 15; durò fino a quando il secondo concilio di Orange distinse tra la dottrina della grazia, che, compreso l'inizio della fede, riaffermò con le stesse parole di Agostino, e la predestinazione su cui non entrò se non per escludere la predestinazione al male 16.
I predestinaziani, da Lucido a Godescalco a Bradwardine e poi a Calvino e a Giansenio, sostenendo opinioni lontane dalla dottrina cattolica, hanno richiamato di continuo l'attenzione dei teologi su questo difficile argomento inducendoli ad insistervi, a difendere, a spiegare 17.
Nel periodo aureo della scolastica diventa più evidente, per ragioni formali, il distacco tra la trattazione sulla predestinazione e quella sulla grazia, a tutto scapito di questa e a favore, per ampiezza ed impegno, della prima.
In quanto poi ai teologi post- tridentini, quando sorgono i diversi sistemi per spiegare la prescienza divina, la grazia, la predestinazione, quest'ultimo tema è il primo e il più sviluppato ed in esso vengono anticipate tutte le soluzioni che ognuno crede di dover dare al problema dell'efficacia e della gratuità della grazia. Tutto viene visto e trattato alla luce della predestinazione. Questo inconveniente è passato ai manualisti, e da questi a noi.
E' vero che anche Agostino ha scritto il De praedestinatione sanctorum, ma si sa quale sia la tesi di quest'opera, cioè questa: anche l'inizio della fede è un dono di Dio, quasi a dire che il problema non è quello della predestinazione, ma quello della grazia. Ammesso che la fede, anche al suo inizio, la giustificazione, la perseveranza finale sono un dono, un dono gratuito di Dio, tutto il resto è secondario: la predestinazione ci entra, perché Dio, come ho detto, non può non prevedere e non disporre i doni che darà, ma ci entra come un corollario, non come una questione principale. Del resto non è sapiente imperniare la discussione già tanto difficile sulla grazia in un punto ancor più difficile, perché più lontano dalla mente umana, qual è la prescienza e la predestinazione divina.
Forse avevano ragione i Padri del concilio di Quierzy dell'853 (Concil. Carisiacum), i quali, dopo aver ampiamente ricordato che Cristo è morto per tutti e che Dio vuol che tutti si salvino, si fermano, sulla predestinazione, a questa affermazione generale: Quod quadem salvantur, salvantis est donum: quod autem quidam pereunt pereuntium est meritum 18.
Agostino avrebbe applaudito.
Ma vediamo più da vicino il suo pensiero cominciando da alcune premesse che, tenute presenti, permettono di evitare molti malintesi.

CAPITOLO SECONDO

PREMESSE NECESSARIE

Prevalentemente due, ma fondamentali: senza di esse non è possibile capire il pensiero del vescovo d'Ippona sull'argomento che qui c'interessa, anche se si leggono e si citano di continuo i suoi scritti. Sono: la distinzione tra la prescienza divina e la predestinazione e l'altra distinzione, non meno importante, tra ciò che Dio fa e ciò che non fa ma permette.
Se qualcuno ritiene che queste siano sottigliezze teologiche o fors'anche scolastiche, ammetta almeno che sono state proposte e difese da Agostino, e smetta di citare a proprio favore - mi riferisco ai predestinaziani -, i testi di lui. Questi testi, senza il presupposto di quelle distinzioni, non ne riproducono ma ne deformano il pensiero.

1. Prescienza e predestinazione

Nei confronti dei rapporti tra prescienza e predestinazione ci sono tre possibili correnti di pensiero, che sono anche, poi, tre correnti storicamente riscontrabili: 1) la prima riconduce la predestinazione alla prescienza e basa su di essa la dottrina della salvezza: è quella dei pelagiani e dei semipelagiani della quale vedremo la portata; 2) la seconda al contrario riconduce la prescienza alla predestinazione: è quella dei predestinaziani da Lucido a Giansenio; 3) la terza distingue tra prescienza e predestinazione attribuendo alla sola prescienza i peccati degli uomini (e degli angeli), alla prescienza e alla predestinazione le opere della salvezza: è quella che Agostino insegna e difende.
Non è il caso di esporre qui come egli riconosca e difenda la prescienza divina. Basterà ricordare quanto scrive contro il suo Cicerone che la negava: Dio senza prescienza non è Dio 1. Si tratta invece di stabilire se prescienza e predestinazione s'identificano o sono distinte, cioè se hanno oggetti propri e distinti. Agostino difende apertamente la distinzione in quanto il peccato è oggetto della prescienza, mai della predestinazione.
Ecco il principio generale enunziato a proposito di una strana affermazione - una delle tante - di Vincenzo Vittore: " La prescienza di Dio conosce in precedenza i peccatori, non fa che siano tali; praescientia quippe Dei... peccatores praenoscit, non facit " 2. Il principio viene enunciato nel contesto dell'origine e della remissione del peccato originale su cui le idee di quel giovane, intelligente ma incauto, si erano imbrogliate. Il testo continua infatti: " Se Dio liberasse dal peccato le anime che, innocenti e pure, avesse egli stesso implicate nella colpa, allora sanerebbe una ferita inferta da lui a noi, non una ferita trovata da lui in noi " 3. E conclude: " Dio ci guardi bene dal dire e non ci accada mai di dire che Dio, quando monda le anime dei bambini nel lavacro della rigenerazione, corregge allora il male che ha fatto egli stesso a loro " 4.
Dunque la prescienza divina conosce in precedenza, non fa i peccatori. Principio, questo, assolutamente essenziale e fondamentale nella soluzione agostiniana del problema del male. Intendo qui per male, il male morale, il peccato. A questo proposito è nota la distinzione tra ciò che Dio fa e ordina e ciò che ordina e non fa. Inutile dire che qui ordinare significa far rientrare nell'ordine, da cui l'uomo, peccando, si allontana. " Dio, ordinatore e creatore di tutte le cose che esistono nella natura, dei peccati ordinatore soltanto " 5. Questa distinzione è ripetuta tante volte altrove, con queste o con parole simili 6.
Non si può dubitare della sua fondamentalità. Perciò resta incredibile - occorre davvero stropicciarsi gli occhi nel leggerlo - quanto riferisce Prospero sull'attribuzione ad Agostino del contrario. Ecco la proposizione o " capitolo " che gli veniva attribuito: Quod per potentiam Deus homines ad peccata compellat 7. Con tutte le attenuanti che si vogliano concedere alle esagerazioni della polemica, queste parole rappresentano un tal travisamento del pensiero del vescovo d'Ippona che fanno dubitare dell'onestà di chi le ha proferite anche se a proferirle sono stati, nella supposizione di Prospero, i monaci provenzali.
A questa distinzione va congiunta quella che qui c'interessa: la prescienza e la predestinazione. Agostino la pone in tutte lettere. Ecco le sue parole dalla Predestinazione dei Santi: " La predestinazione non può esistere senza la prescienza, invece la prescienza può esistere senza la predestinazione. Con la predestinazione Dio ha previsto ciò che avrebbe fatto egli stesso... Ma egli può sapere in precedenza anche quelle cose che non compie egli stesso, come ogni sorta di peccato " 8.
Non si può equivocare su questa distinzione: è chiara in se stessa e chiara nel contesto in cui si pone, che è il problema del male. Alla predestinazione appartiene ciò che Dio opera (cioè, nel contesto, il dono della grazia), alla sola prescienza appartiene ciò che Dio non opera (anche se lo fa rientrare nell'ordine): il peccato.
Non si comprende allora come i monaci di Marsiglia potevano, senza mentire, accusarlo di aver identificato prescienza e predestinazione 9, né perché Calvino consideri questa distinzione uno " scrupolo " 10, quando invece è tanto importante e tanto centrale che senza di essa nulla si comprende del pensiero agostiniano sul problema della predestinazione e su quello più generale del peccato e del male. L'ho detto già sopra.
Se ne può avere la conferma dall'osservazione sull'uso dei due termini presso gli scrittori ecclesiastici. Questi, dice Agostino, usano spesso il termine prescienza in luogo dell'altro 11. In realtà la predestinazione è congiunta inseparabilmente alla prescienza. Si ricordi la celebre definizione agostiniana 12. Ma non si ha esempio del contrario, dell'uso cioè di predestinazione in luogo di prescienza. E si comprende. Lo stesso Agostino quando vuol spiegare la prescienza che Dio ha dei futuri liberi, non ricorre ai decreti divini, ma alla nozione di eternità, cui tutto è presente, anche il futuro 13. Questo particolare è degno di nota e occorre tenerlo presente se non si vuole inserire il vescovo d'Ippona - e sarebbe (ed è) un grosso danno -, nelle discussioni scolastiche de auxiliis.

2. Dio permette il male, non lo fa

Alla distinzione tra prescienza e predestinazione occorre aggiungere quella, non meno importante, che corre tra azione divina e permissione. Il male c'è: dunque Dio lo permette. Se non lo permettesse, non ci sarebbe. La ragione di questa permissione è nascosta per noi nel profondo del mistero, ma non si può negare che il male non ci sarebbe se Dio non lo permettesse.
Ecco pertanto il principio generale: Non fit aliquid nisi Omnipotens fieri velit, vel sinendo ut fiat, vel ipse faciendo 14. Il sinendo si riferisce al peccato e alle sue conseguenze. Perciò a questo principio se ne aggiunge un altro, il quale attraversa, non meno del primo, tutto l'insegnamento agostiniano: " Dio può condannare l'iniquità, che giustissimamente la verità riprova, ma non la può commettere: iniquitatem, quam rectissime Veritas improbat, damnare novit ipse, non facere " 15. La conseguenza dell'uno e dell'altro principio è la seguente: " Non si deve dubitare che Dio faccia bene anche permettendo che sia fatto tutto ciò che viene fatto di male ". Ragione: " Dio permette il male solo per un giusto giudizio, ed è senz'altro buono tutto ciò che è giusto " 16.
Vedremo fra poco lo sviluppo di questa ragione. Intanto giova insistere su quella distinzione tra il fare e il permettere: la troviamo in tutte le opere agostiniane: libri, lettere, discorsi. E' bene insistervi un poco perché non venga liquidata come una sot tigliezza scolastica con conseguenze interpretative disastrose.
Leggiamo nella Città di Dio: " ...nessun uomo può agire rettamente senza l'aiuto divino e nessuno... può agire ingiustamente se non lo permette il giudizio divino, assolutamente giusto " 17. Nella Correzione e grazia, una delle opere più difficili, troviamo queste parole a proposito di quelli che si perdono: " abbandonano e sono abbandonati: deserunt et deseruntur " 18. Nel Dono della perseveranza, poi, viene ripetuto lo stesso principio enunciato sopra: 7Nihil fit, nisi quod aut ipse facit aut fieri ipse permittit. Perciò quando pregando diciamo a Dio di non indurci in tentazione che altro diciamo, osserva Agostino, se non questo: " non permettere che vi siamo indotti? " 19. Ne La continenza, un'opera di datazione incerta 20, discutendo con chi chiedeva perché mai Dio permette (i peccati) se gli dispiacciono e rispondendo Agostino che è certo che gli dispiacciono anche se li permette per il fatto che li punisce, conclude: " Ne segue che, come io ammetto che nessun peccato accadrebbe se Dio nella sua onnipotenza non lo permettesse, così anche tu devi ammettere che i peccati non si debbono fare, se Dio nella sua giustizia li punisce " 21.
In una lettera di quelle recentemente scoperte e pubblicate troviamo lo stesso principio enunciato con le stesse parole dell' Enchiridion e del Dono della perseveranza: nihil prorsus fit, nisi quod aut ipse facit aut fieri ipse permittit. Ma in questa lettera c'è anche l'avvertimento a distinguere accuratamente in Dio tra la volontà permittente e volontà operante, per la semplice ragione - aggiunge Agostino - che non possiamo negare che Dio sia giudice. Ecco il testo intero: " Perciò diciamo pure che tutto avviene per la sua volontà, ma in modo da distinguere la volontà permittente dalla volontà operante, perché non possiamo negare che Dio sia giudice. Forse che giudicando e rendendo a ciascuno secondo le proprie opere, ha condannato qualcuno per quelle opere che egli stesso ha compiuto in lui? Non sia mai! Nondimeno [condanna] per quelle opere [cattive] che egli stesso ha permesso; poiché in nessun modo sarebbero state compiute senza che l'Onnipotente, che non poteva ignorarle, le avesse permesse " 22.
Com'è continuo ed insistente il richiamo alla distinzione tra la volontà permissiva e la volontà operativa di Dio, altrettanto è continua e insistente la spiegazione che Agostino ne dà, l'unica che la mente umana ha saputo trovare. Viene espressa in molte opere in concomitanza al problema del male, che in Agostino è, come si sa, fondamentale e profondamente sentito. Ecco come viene proposta in quella sintesi di teologia che è l'Enchiridion: " In un modo mirabile e ineffabile non si compie al di là della sua volontà anche quello che si compie contro la sua volontà. Poiché non si compirebbe se non lo permettesse; e certo non lo permette nolente ma volente; né Dio, che è buono, permetterebbe il male, se non fosse onnipotente e potesse trarre bene dal male: nisi Omnipotens et de malo facere posset bene " 23. Poco prima nella stessa opera aveva detto: Melius iudicavit de malis bene facere, quam mala nulla esse permittere 24. Nella Città di Dio al melius si aggiunge il potentius. Parla degli angeli ai quali Dio aveva dato il libero arbitrio perché, aderendo liberamente a Lui, avessero acquistato la felicità. E Dio pur sapendo che alcuni avrebbero abbandonato per superbia un bene così grande, non tolse loro il libero arbitrio " giudicando cosa più potente e migliore trarre il bene anche dal male piuttosto che non permettere che ci fosse il male: potentius et melius esse iudicans etiam de malis bene facere quam mala esse non sinere " 25.
Altrove la permissione del male è legata all'onnipotenza e alla bontà somma di Dio. Può sembrar strano, ma è così. Ecco le sue parole: " Dio onnipotente... essendo sommamente buono, in nessun modo permetterebbe che ci fosse qualcosa di male nelle sue opere, se non fosse tanto onnipotente e tanto buono da ricavare il bene anche dal male " 26. La ragione dunque della permissione del male - nel caso concreto la perdizione di quelli tra gli angeli e gli uomini che si sono perduti o si perderanno -, è riposta nell'onnipotenza e nella bontà di Dio che può e sa ricavare il bene dal male.
E' questa l'ultima ragione che dà Agostino sul difficile problema della permissione del male, l'ultima che dà la filosofia cristiana e la teologia. E' la ragione, come si vede, dell'ottimismo cristiano, che non nega il male, ma annunzia il trionfo del bene sul male. Questo trionfo è per ora oggetto della fede: Si nescis qua ratione fiat, crede non iniuste fieri quod sinit aut facit Deus 27.

3. Passi difficili della Scrittura

A questo punto non resta che confermare le distinzioni esposte sopra ricordando le spiegazioni di alcuni passi biblici che sembrano attribuire a Dio il peccato dell'uomo, passi che potevano costituire un " tranello " per chi fosse convinto, come lo era Agostino, che la volontà divina è sempre, nel senso spiegato, invitta. Questi passi non sono pochi: il nostro dottore li conosce tutti, li cita e li spiega.
Nel V. T. è celebre il caso di Faraone: Ego indurabo cor Pharaonis (Es 7,3). Agostino s'imbatte in questo testo già prima dell'episcopato e lo interpreta così: " Sul Faraone la risposta è facile: per i demeriti precedenti in quanto afflisse nel suo regno i pellegrini, diventò degno che il suo cuore s'indurisse... " 28. Nell' Esposizione di alcune proposizioni della lettera ai Romani troviamo la stessa spiegazione: " Si è indurito il cuore di Faraone... ma per il giudizio di Dio che retribuisce la dovuta pena alla sua incredulità " 29.
Si dirà che questi scritti sono del periodo giovanile, quando non aveva ancora cambiato opinione sull'inizio della fede (vedi sopra), ma la stessa spiegazione la troviamo dopo. Nelle Questioni sull'Ettateuco (che sono del 419) si legge: " Indurirò il cuore del Faraone... Dio si serve bene dei cuori cattivi per ciò che vuol mostrare ai buoni o vuol fare ad essi Egli stesso ". E continua: " ...quale cuore uno abbia nel male, dipende dal vizio di ognuno, vizio che ha origine dal libero arbitrio... che dunque il Faraone avesse un tal cuore che per la pazienza di Dio non si muovesse alla pietà ma all'empietà, vitii proprii fuit ". E aggiunge: " Dobbiamo inoltre vedere se l'Io indurirò non si possa anche intendere così: dimostrerò quanto sia duro " 30.
In un'opera, poi, scritta allo spirare della controversia pelagiana, a proposito dell'Indurirò il cuore del Faraone ammonisce di non togliere a lui, per questo, il libero arbitrio: Nec ideo auferatis a Pharaone liberum arbitrium... Notando inoltre che la Scrittura dice anche: Il Faraone indurì il suo cuore (Es 8,28) conclude: " Perciò Dio indurì [il cuore di Faraone] per un giusto giudizio, e Faraone indurì [se stesso] per mezzo del libero arbitrio " 31.
Questa spiegazione, che rientra, come si vede, nella dottrina generale esposta sopra, ritorna a proposito del passo di S. Paolo che si riferisce, del resto, alle parole dell'Esodo: cuius vult miseretur et quem vult obdurat 32: la volontà di Dio, commenta Agostino già nelle prime opere, iniusta esse non otest. L'indurimento infatti venit de occultissimis meritis 33. Nella risposta a Simpliciano, quando raggiunge, com'è noto, la piena nozione della gratuità della grazia, scrive: " ...non c'è iniquità presso Dio; bisogna credere perciò, tenacemente e fermamente, che ciò che l'Apostolo dice: Dio ha misericordia di chi vuole e indurisce chi vuole, cioè ha misericordia di chi vuole e non ha misericordia di chi non vuole, proviene da un'equità occulta e ininvestigabile dalla mente umana ". Dio non induce nessuno a peccare: " si dice che indurisce alcuni peccatori, perché non ha misericordia di loro, non quia impellit ut peccent " 34.
Infine, in una delle ultime opere nella quale parla molto del potere di Dio sulle volontà degli uomini, cita, oltre l'espressione che si è vista qui sopra, un'altra espressione biblica che attribuisce a Dio la " seduzione " del profeta, e commenta: " Quando sentite il Signore che dice: 'Io, il Signore, ho sedotto quel profeta35, e ciò che dice l'Apostolo: 'Usa misericordia di chi vuole e indurisce chi vuole36, tenete per certo che in colui che permette sia sedotto o indurito ci sono i meriti cattivi " 37. E poco sopra, spiegando la maledizione lanciata contro Davide e le umili parole di Davide: " lasciatelo maledire, perché il Signore gli ha detto di maledire " 38, spiega: Non viene taciuta la causa per la quale " [Dio] miserit vel dimiserit, condusse, vale a dire abbandonò il suo cuore malvagio verso questo peccato " 39: affinché il Signore veda la mia umiltà e mi renda del bene in cambio della maledizione di oggi 40.
Altrove è il tema dell'accecamento che crea difficoltà: ha accecato i loro occhi e ha indurito il loro cuore 41. Agostino spiega: " Il Signore che conosce il futuro ha predetto per mezzo del profeta l'infedeltà dei Giudei, l'ha predetta, non l'ha fatta... In questo modo infatti Dio acceca, in questo Dio indurisce: abbandonando e non aiutando; ciò che può fare con un giudizio occulto, ma non può fare con un giudizio iniquo " 42. E quando nello stesso contesto legge: non potevano credere 43, spiega: " Se mi si chiede perché non potevano, rispondo subito: perché non volevano " 44.
Un altro caso in cui l'attento teologo ricorre alla distinzione tra il fare e il permettere è quello dell'abbandono dell'uomo in potere del demonio 45. Questo, spiega, " non si deve intendere quasi che Dio lo abbia fatto o abbia comandato che fosse fatto, ma che lo ha solo permesso, tuttavia giustamente " 46.
Nonostante dunque che le parole della Scrittura siano talvolta dure, Agostino senza ricorrere a considerazioni filologiche o a idiomatismi, come noi facciamo, oggi, e come egli stesso ha fatto in altri casi 47, applica ad esse la categoria della permissione divina, che è una delle nozioni più profonde e più essenziali del mistero della predestinazione: Dio permette, non fa il male. In quanto alla pena, essa, provenendo dalla giustizia, è un bene - il bene della giustizia - e non un male. Lo vedremo meglio nelle pagine seguenti.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:53

CAPITOLO TERZO

LA PREDESTINAZIONE E' UN GRANDE MISTERO

Ho toccato due questioni previe ma importanti e imprescindibili: se non si tengono presenti, ho detto, non ci si può inoltrare senza rischio nello studio del difficile argomento della predestinazione. Ma da sole non bastano. Occorre tener presente un altro insegnamento agostiniano ripetuto con tanta insistenza dall'inizio alla fine: la predestinazione è un grande mistero. Di fronte ad esso, come di fronte ad ogni mistero della fede, l'uomo deve inchinarsi ed adorare in attesa che ci si sveli nella luce di Dio. Agostino lo fece e insegnò a farlo; ma non senza notare che esso, anche qui in terra, è illuminato da una grande verità, la quale, se non toglie il velo del mistero, conforta nella speranza lo spirito umano, la verità della giustizia divina presso cui non c'è, non può esserci iniquità: numquid iniquitas apud Deum? Absit1

1. Questione semantica

La parola praedestinatio deriva ad Agostino dalla Scrittura, in concreto da S. Paolo, il quale la usa cinque volte e sempre per indicare i piani di Dio o nei riguardi di Cristo 2, o nei riguardi della salvezza degli uomini 3. Il significato che Agostino dà a questa parola e la ragione teologica per cui v'insiste li ho detti sopra 4. Qui voglio dire che, tutto rivolto com'è alla Scrittura e alla sorte beata degli eletti, Agostino non ha trovato e non ha coniato un termine per indicare quelli che non raggiungono la salvezza. Più tardi, a proposito di questi, si parlerà di reprobatio e di reprobi 5, allo scopo di lasciare la parola praedestinatio solo per i primi e rendere così più comprensibile il discorso.
Non avendo dunque che una sola parola, gli capita qualche volta di usarla per gli uni e per gli altri, creando in questo modo, senza volerlo, un'occasione di fraintendimenti. Nella Città di Dio usa, per esempio, l'espressione di " predestinati alla vita " e di " predestinati alla morte " 6, ed anche quest'altra: " predestinati al fuoco eterno " 7. Ma si sa quale profonda, dico meglio, quale essenziale differenza corra tra il primo caso e il secondo. Il primo è il piano della misericordia divina che dona la grazia, il secondo, supposta la prescienza della colpa (che Dio non opera ma permette), è quello della giustizia che infligge la pena. Basta ricordare le distinzioni esposte nel capitolo precedente, delle quali ho ricordato or ora l'importanza. Del resto i termini del mistero, che Agostino espone quasi ogni volta che tocca l'argomento della grazia, sono noti: a chi si perde viene inflitta la pena dovuta, a chi si salva viene elargito il premio gratuito, di modo che " l'uno non può lamentarsi di non meritare la pena, l'altro non può gloriarsi di meritare la grazia " 8. Non si può dunque confondere l'espressione, del resto rarissima, con il suo contenuto. Ascrivere il vescovo d'Ippona tra i sostenitori della " doppia " predestinazione, come hanno fatto i predestinaziani di tutti i tempi o, calunniando, i pelagiani e i semipelagiani, altro non è che tradirne il pensiero. Appare già dalle pagine precedenti, apparirà più chiaro in quelle che seguono. Intanto giova fermarsi un poco sull'ammonizione, che percorre tutti i suoi scritti, del profondo mistero di fronte al quale ci si trova quando si parla di predestinazione.

2. Questione di fondo: la predestinazione è un profondo mistero

L'insistenza sulla predestinazione-mistero comincia molto presto, comincia fin da quando affrontò per la prima volta la questione di proposito: all'inizio dell'episcopato, nella risposta a Simpliciano. Terminando la spiegazione della pericope Rom 9,10-29, dopo aver osservato che l'elezione divina è occulta e non trova motivo alcuno nei meriti umani come appare chiaro nella conversione di Paolo, continua: " E tuttavia che cosa diremo? C'è forse iniquità presso Dio che esige da chi vuole e dona a chi vuole? Egli in nessun modo esige ciò che non è dovuto, in nessun modo dona ciò che non è suo ". Ripete la grande domanda di Paolo con la sua risposta: C'è forse iniquità presso Dio? Non sia mai!, e continua: " Perché allora a questi in un modo e all'altro in un altro? ". Risponde di nuovo col testo paolino: O uomo, tu chi sei9, e conclude: " Se non rendi il debito (dovuto per il peccato), hai di che congratularti; se lo rendi, non hai di che lamentarti " 10.
Ho riportato per lungo questo testo perché il primo (del 387): dopo ce ne sono tanti e tanti altri con lo stesso contenuto se non con le stesse parole. Passando dall'inizio dell'episcopato all'inizio della controversia pelagiana, leggiamo nel Castigo e perdono del peccato (del 412): " Perché mai tale grazia arrivi a questo e non arrivi a quello può essere occulta la causa, non può essere ingiusta. Infatti c'è forse ingiustizia da parte di Dio? No certamente. Ma prima si deve piegare il collo alle testimonianze delle sante Scritture perché si arrivi poi a capire per mezzo della fede. Né infatti è detto senza ragione: Il tuo giudizio come il grande abisso. Quasi fosse spaventato dalla profondità di tanto abisso, l'Apostolo esclama: O profondità delle ricchezze, della sapienza e della scienza di Dio! " 11.
In un'opera altrettanto importante scritta poco dopo - Spirito e lettera - ripete la stessa convinzione con l'esortazione finale di cercare, per una risposta diversa, persone più dotte e l'ammonimento a non imbattersi in persone presuntuose, esortazione e ammonimento che dimostrano la profondità della convinzione. " Se poi qualcuno vuole costringerci a scrutare il profondo arcano per cui con uno l'azione suasiva riesce ad essere persuasiva e con un altro no, due sole verità mi si presentano adesso con le quali mi piace rispondere: O profondità delle ricchezze! e: C'è forse ingiustizia da parte di Dio? Se questa risposta a qualcuno dispiace, cerchi persone che ne sappiano di più, ma stia ben attento a non incappare in persone che solo presumano di saperne di più " 12.
Quando la controversia pelagiana degenerò, non certo per colpa di Agostino, in polemica egli non cessò di richiamare i suoi interlocutori al senso del mistero 13; quando, poi, proprio sulla dottrina della predestinazione si levò la protesta da parte dei monaci provenzali, fece altrettanto 14. La risposta è sempre la stessa: si tratta di un mistero imperscrutabile; come sono le stesse citazioni bibliche: una che richiama la mente umana, con un grido di stupore, all'abisso della sapienza divina - O profondità delle ricchezze della sapienza e della scienza di Dio15 -, l'altra che, a conforto della povera ragione umana vacillante di fronte a tanto mistero, ricorda la consolante certezza che in Dio non c'è iniquità 16. Vedremo fra poco il significato e la forza di questa certezza.
Intanto perché appaia che questo insistente ricorso al senso del mistero non era un espediente polemico, ma piuttosto l'espressione di un'ansia pastorale, aggiungerò che esso si ritrova anche nei discorsi al popolo; e si ritrova con la stessa insistenza e con maggiore discorsività. Invita fra l'altro gli uditori ad ammirare insieme a lui e ad esclamare: O profondità..., e li sfida a scrutare l'inscrutabile, che è lo stesso che fare le cose impossibili, corrompere le incorruttibili, vedere le invisibili 17. A chi non fosse disposto a rimanere in un atteggiamento d'umiltà di fronte al mistero dice apertamente: " Tu ragiona, quanto a me lasciami ammirare; tu discuti, io non farò che credere. Vedo la profondità, non ne raggiungo il fondo " 18. Anzi, è proprio parlando di questo argomento che enuncia questo grande principio sul senso del mistero: Melior est fidelis ignorantia quam temeraria scientia 19.

3. Mistero, non fato, non parzialità, non fortuna

Dell'accusa di fatalismo che i pelagiani facevano ad Agostino a proposito della dottrina sulla gratuità della grazia che egli sosteneva, ho parlato, per accenni, sopra 20. Qui debbo aggiungere che a questa prima ne facevano seguire una seconda: l'acceptio personarum da parte di Dio. Il vescovo d'Ippona non poteva dunque limitarsi ad affermare che la predestinazione fondata, com'egli la difendeva, sul dono gratuito della salvezza era un profondo mistero, ma doveva rispondere alle difficoltà avversarie, dimostrando che non si trattava di fato ma di sapienza divina, non di parzialità ma di libera distribuzione dei doni di Dio, non di fortuna ma di Provvidenza.
Riguardo al fatalismo ricorda l'accusa dei pelagiani: " Veniamo accusati di essere assertori del fato perché diciamo che la grazia di Dio non ci viene data secondo i nostri meriti " 21. I pelagiani infatti avevano coniato un dilemma tra merito e fato allo scopo di combattere la dottrina agostiniana della concessione gratuita della grazia; o merito o fato, dicevano; e volevano dire: o la grazia divina viene concessa secondo il merito dell'uomo, acquisito con la sua libera volontà, o la sua distribuzione è senza ragione e ubbidisce alla forza del fato 22.
Il nostro dottore che, specialmente nella polemica, ricorre volentieri all'argomento ad hominem, risponde così: se il dilemma fosse vero, anche loro - i pelagiani - sarebbero fatalisti in quanto, ammettendo la necessità del battesimo per i bambini perché entrino nel regno dei cieli 23, dovevano concludere che quelli che lo ricevono e vi entrano, lo ricevono e vi entrano per pura fatalità, come pure per una fatalità altri morivano senza battesimo e non vi entravano 24. Affrontando poi l'argomento di fondo, ricorda che si può parlare di fatalismo a proposito di coloro che fanno dipendere la sorte degli uomini, il bene e il male, dalla posizione degli astri - fatalismo astrologico 25 - ma non quando si tratta di Dio, il quale non è causa del peccato ma attribuisce la pena per il peccato o concede la grazia del perdono " secondo l'eterno ed imperscrutabile disegno della sua severità e della sua bontà. Non si tratta dunque di fato, ma di grazia. Le parole dell'Apostolo sono chiare: Per grazia siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi ma è dono di Dio 26. Se poi voi chiamate fato ciò che l'Apostolo chiama grazia, conclude Agostino, voi siete in colpa, non noi " 27.
" Come pure, continua, non si può parlare di acceptio personarum presso Dio perché non si tratta di giustizia ma di grazia ". La Scrittura esclude in Dio l'acceptio personarum 28, e giustamente, perché non c'è in lui ingiustizia: nec acceptio personarum dicenda est, quando iniquitas nulla est. In altre parole, quando non si viola il diritto di alcuno, come nel caso dei lavoratori della vigna che ebbero ognuno il suo, anche se agli ultimi fu dato quanto ai primi 29, Agostino ne conclude: " non c'è parzialità tra due debitori ugualualmente rei, se ad uno viene condonato e all'altro viene richiesto ciò che da ambedue è dovuto " 30.
Pensando inoltre alla possibilità che qualcuno potesse rifugiarsi nella spiegazione, che poi non spiega nulla, del caso fortuito, sul quale aveva discusso e scritto a proposito della grandezza dell'Impero romano che non fu " fortuita né fatale ", ma opera della divina Provvidenza 31, pensando, dico, che qualcuno potesse rifugiarsi in questa spiegazione nei riguardi del battesimo dei bambini, la scarta insieme alle altre due, scarta pure la quarta, quella dei meriti, che era propria dei pelagiani, e, richiamando di nuovo la misteriosità dei disegni di Dio giusto e buono, conclude con questo periodo fortemente sintetico: " Se dunque non si può parlare di fato perché non sono le stelle a decretarlo, né di fortuna perché non sono i casi fortuiti ad operarlo, né sono le diversità di persone o di meriti a compierlo, che cosa resta per i battezzati se non la grazia di Dio e per i non battezzati se non la giustizia di Dio... ? " 32.
Infine, per addurre un testo tratto da quella lettera della quale si è detto molto cominciando, ecco che cosa scrive al presbitero Sisto: " E poiché tutta questa massa è giustamente dannata 33, Dio rende il disonore meritato in virtù della giustizia e concede l'onore immeritato in virtù della grazia, non già di un privilegio dovuto al merito o per l'ineluttabilità del fato né per un cieco capriccio di fortuna, ma solo a causa dell'abissale ricchezza della sapienza e della scienza di Dio, che l'Apostolo non riesce a scandagliare, ma ne rimane stupito ed esclama: O profondità...! " 34.

4. Il mistero della predestinazione ricondotto a quello della misericordia e giustizia divina

Si vede bene che Agostino riconduce abitualmente il mistero della predestinazione a quello della misericordia e della giustizia di Dio. Ecco subito un altro testo della lettera or ora citata: " Al cristiano che vive ancora nella fede senza vedere ancora ciò che è perfetto, e conosce ancora parzialmente, basti per ora sapere o credere che Dio non salva nessuno se non in virtù della sua gratuita bontà per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore, e non condanna nessuno se non in forza della sua giustissima verità per mezzo del medesimo Gesù Cristo nostro Signore. Per quale motivo poi Dio salvi o non salvi uno anziché un altro, provi pure ad indagarlo chi può scrutare l'abisso insondabile dei disegni divini, badando però a non precipitare nella rovina " 35.
Nella Città di Dio, dopo aver citato un versicolo del Salmo 24: Tutte le vie del Signore sono misericordia e verità, tira questa profonda conclusione: né la grazia può essere ingiusta, né può essere crudele la giustizia 36. Infatti né la misericordia può andare disgiunta dalla giustizia, né la giustizia dalla misericordia.
Per questo i disegni di Dio sono imperscrutabili come, pieno di stupore, dice l'Apostolo 37. " Quali sono le imperscrutabili vie di Dio, se non quelle di cui parla il Salmo: Tutte le vie del Signore sono bontà e verità? La sua bontà e verità sono quindi imperscrutabili, poiché egli ha pietà di chi vuole, mosso non da giustizia ma solo dalla misericordia, e fa ostinare chi gli piace, mosso non già da sentimento d'iniquità, ma per castigarlo secondo verità. La bontà e verità di Dio sono tuttavia in pieno accordo tra loro, poiché sta scritto: La bontà e la verità si sono abbracciate, in modo che la bontà non rechi pregiudizio alla verità con cui è punito chi lo merita, né la verità alla misericordia, con cui è salvato chi non lo merita " 38.
Altrove a questo testo ne aggiunge altri e li interpreta tutti nello stesso senso. " ...per quelli a cui Dio ha voluto donare di convertirsi a lui ciò dipende dalla sua misericordia e non dai loro meriti, per quelli a cui viceversa non l'ha voluta donare ciò dipende dalla sua verità. Ai peccatori infatti è dovuta una giusta pena, perché misericordia e verità ama il Signore Dio; e (la misericordia e la verità s'incontrano) tutte le vie del Signore sono misericordia e verità. Chi potrebbe dire quanto spesso la divina Scrittura ricordi questi due attributi congiuntamente? Qualche volta anche mutando i vocaboli e ponendo il termine di grazia al posto di misericordia " 39.
Altrove ancora, riassumendo, scrive: " Sono imperscrutabili le sue vie. Dunque sono imperscrutabili sia la misericordia con cui libera, sia la verità con cui giudica giustamente " 40.
E' vero che i testi biblici nei quali si parla di misericordia e verità, di misericordia e giudizio possono non avere, esattamente, questo significato; infatti egli stesso altrove li interpreta in modo diverso 41; ma è certo che la misericordia e la giustizia sono attributi essenziali a Dio e che, essendo parimenti infiniti, costituiscono per noi un profondo mistero. " Noi, nel nostro pervertimento, vorremmo Dio tanto misericordioso, da essere ingiusto. Altri, al contrario, confidando troppo nella propria giustizia, lo vorrebbero tanto giusto da non volerlo misericordioso, Dio invece si presenta l'uno e l'altro, si mostra l'uno e l'altro. La sua misericordia non condiziona la sua giustizia né la sua giustizia elimina la misericordia. E' misericordioso ed è giusto " 42. " Dio non è misericordioso in modo da essere ingiusto, né giusto in modo da non essere misericordioso " 43. Sono questi attributi, apparentemente contrari e pur legati insieme nelle profondità della natura di Dio, che ci aiutano ad essere umili e a chinare il capo di fronte al mistero della predestinazione, lodando ed adorando. Del resto è proprio la giustizia divina a gettare una luce di conforto in questo mistero che ci tocca tanto da vicino: Dio, perché giusto, non può condannare l'innocente, perché in questo caso la giustizia non sarebbe più giustizia ma crudeltà. Vedremo come Agostino v'insista.
I testi riportati sopra sono, alcuni, un po' lunghi, ma valeva la pena citarli perché apparisse chiaro che Agostino non insiste nel senso del mistero allo scopo di precostituirsi un motivo per non rispondere alle difficoltà, ma perché questo, una volta stabilito il senso delle Scritture, è il necessario atteggiamento della fede di fronte alla rivelazione dei misteri divini. E' noto quanto egli, come teologo, applicò a se stesso, e quanto, come pastore, inculcò ai fedeli questo atteggiamento. Forse vale la pena di ricordarlo.

5. La predestinazione e gli altri misteri cristiani

Agostino è il teologo e il pastore della " dotta ignoranza " 44. Ho ricordato sopra il principio che la enuncia: " è preferibile l'ignoranza fedele, anziché la scienza temeraria " 45.
Questo principio è sempre sottinteso nelle considerazioni, molte e profonde, che fa sui misteri cristiani. Su Dio, di cui esalta l'ineffabilità 46 tanto da proclamare: Se comprendi, non è Dio 47; sulla Trinità, per illustrare il quale intraprese la difficile e lunga fatica di una delle sue opere maggiori 48; sulla Incarnazione che è " mirabile e ineffabile " 49; sulla Chiesa, intorno alla quale, se insorgono difficoltà, occorre cercare e discutere " con santa umiltà, con pace cattolica, con carità cristiana " 50. Il discorso potrebbe durare a lungo. Il desiderio infatti di capire anche le cose difficili non è riprovevole, anzi è encomiabile, purché - ecco quanto scrive a proposito dell'origine delle anime, questione, per Agostino, quanto mai oscura -, purché " sia lontana l'ostinazione della contesa e siano presenti [invece] la diligenza della ricerca, l'umiltà della richiesta, la perseveranza della preghiera " 51.
In ciascuno dei misteri cristiani ci sono due verità che occorre tenere strettamente unite anche quando non se ne comprenda l'unione - abbiamo inteso questa raccomandazione a proposito della libertà e la grazia 52 - e delle quali nessuna permette, senza cadere in gravissimi errori nella fede, di tirare una conclusione, in forza della logica umana, a sfavore dell'altra. Inutile esemplificare. Dall'unità di Dio non si può concludere all'unità delle persone in Dio, come dalla trinità delle persone non si può concludere alla trinità della natura; o, in Cristo, dalla dualità delle nature alla dualità delle persone e, ancora, dall'unità della persona all'unità della natura. Fuori dell'enunciazione cristiana del mistero non ci sono che errori, opposti ma errori, e gravissimi.
Questo vale anche del mistero della predestinazione. Esso si può enunciare, come ho accennato sopra e come vedremo meglio in seguito, così: che alcuni si salvino è dono di Dio che li salva, che altri si perdano è colpa di coloro che si perdono; nel primo caso opera la misericordia, nel secondo la giustizia. Ma guai a tirare la conclusione da una proposizione contro l'altra: ne nascerebbero, come storicamente ne sono nati, il pelagianesimo e il predestinazianesimo. Se chi si perde si perde per propria colpa, sembra logico concludere che chi si salva si salva per proprio merito. Così ragionò Pelagio. Al contrario: se chi si salva si salva per dono di Dio, chi si perde si perde per volere di Dio. Così ragionò Godescalco e, dopo di lui, ragionarono tutti i predestinaziani.
Che il ragionamento di Pelagio non fosse " illuminato ", Agostino lo ridisse in tutte lettere a proposito del De natura: " Temo che favorisca piuttosto coloro che hanno lo zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza 53, perché, affermando giustamente la responsabilità dei peccatori, ignorano la giustizia di Dio e cercano di stabilire la propria " 54. Qualcuno potrebbe soggiungere: ma non lo ridisse a proposito del ragionamento opposto, quello dei predestinaziani. Ridisse anche questo. Si può dedurlo da quanto è stato esposto nel capitolo precedente. Ma lo vedremo meglio qui appresso

CAPITOLO QUARTO

LA PREDILEZIONE DI DIO VERSO GLI ELETTI

Apprestandoci ad entrare nel nucleo centrale della questione, vediamo quali siano per Agostino i termini del mistero. Riassumendo il suo pensiero possiamo dire che sono questi: la predilezione di Dio per gli eletti e l'amore di Dio per tutti gli uomini. Per ovvie ragioni il dottore della grazia dovette insistere sulla prima verità, negata dai pelagiani e rimessa in questione dai monaci provenzali, ma vedremo nel prossimo capitolo che non dimenticò la seconda. Tra queste due verità passa il mistero o, per dir meglio, nell'unione di queste due verità consiste il mistero.

1. Definizione della predestinazione

Sulla gratuità della predestinazione e sulla conseguente predilezione di Dio verso gli eletti potrebbe bastare quanto si è detto sopra (Parte 2ª, c. 5) sulla gratuità della grazia, perché " tra la grazia e la predestinazione questa sola è la differenza, che la predestinazione è la preparazione della grazia, la grazia il dono stesso ", o " l'effetto della predestinazione " 1. Qui posso aggiungere la nozione che Agostino dà della predestinazione e il suo inserimento nel mistero di Cristo.
La nozione è notissima: " Questa è la predestinazione dei santi, nient'altro: cioè la prescienza e la preparazione dei benefici di Dio con i quali sono certissimamente liberati tutti quelli che sono liberati " 2. Questa definizione, giustamente celebre, contiene tutti gli elementi della nozione agostiniana della predestinazione. Parlarne compiutamente non è possibile, ma dedicarvi qualche accenno non sarà fuori luogo. Del resto quello che si è detto finora e quello che si dirà in seguito potrà servire come commento.
Vi si parla di prescienza, ma non è la prescienza con la quale Dio prevede i peccati o i meriti degli uomini bensì quella con cui prevede le sue stesse opere. Infatti " la predestinazione non può esistere senza la prescienza; invece la prescienza può esistere senza la predestinazione. Per la predestinazione Dio ebbe la prescienza delle cose che egli avrebbe fatto " 3. Altrove nello stesso senso: " per Iddio predestinare è lo stesso che avere la prescienza di ciò che egli stesso farà: praedestinare est hoc praescisse quod fuerat ipse facturus " 4.
Vi si parla di preparazione: è l'arcano, eterno disegno con cui Dio dispone gli aiuti che portano gli uomini alla salvezza; è il propositum, o consiglio o decreto di cui parla S. Paolo 5 e che Agostino commenta spesso.
Vi si parla di liberazione. Agostino pensa agli uomini, per i quali la salvezza è prima di tutto liberazione; liberazione da tutti i mali che li affliggono, dal male del peccato a quello lacerante del tempo. Vale qui tutto quello che si è detto sopra della libertà cristiana. L'ottica agostiniana è sempre la stessa: la libertà, e perciò la liberazione. Cristo è la universalis via liberandae animae 6.
Vi si parla ancora di liberazione certissima. Quest'aggettivo ha un grande significato. Esso vuol dire che nessuno dei predestinati perirà: ex eis perire nullus potest 7. " Coloro che sono stati riconosciuti fin da prima nella disposizione sommamente previdente di Dio, che sono stati predestinati, chiamati, giustificati, glorificati... assolutamente non possono perire " 8. Questa certezza che Agostino chiama: " l'immobile verità della predestinazione " 9, è legata non solo a un motivo teologico qual è la disposizione divina che non può fallire, ma anche a un motivo biblico, cioè alle parole di Gesù, fonte di consolazione per ogni credente: " Tutto ció che il Padre mi dà verrà a me; e colui che viene a me, io non lo caccerò fuori ". E poco dopo: " Questa è la volontà del Padre che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato " 10. Agostino vi si riferisce esplicitamente e spiega chi siano coloro che sono dati a Cristo: " ...sono dati a Cristo quelli che sono stati ordinati per la vita eterna. Essi appunto sono i predestinati e chiamati secondo il decreto [di Dio], e di essi nessuno perisce " 11. In altre parole sono stati dati a Cristo quelli che sono stati predestinati con Cristo e in Cristo.
Con questo sublime e commovente pensiero veniamo introdotti nel cuore stesso del mistero della predestinazione. Agostino vi si inoltra e vi spazia con l'acume del teologo e la passione del convertito. Ne parla spesso e a lungo, proponendo Cristo come " lume splendidissimo di predestinazione e di grazia " 12.

2. Cristo " praeclarum lumen praedestinationis et gratiae "

L'argomento l'ho toccato sopra a proposito della gratuità della grazia 13. Qui solo un breve approfondimento, che raggiunge però l'apice della teologia cristologica, ecclesiologica e antropologica del vescovo d'Ippona. Non v'è dubbio che le pagine su Cristo uomo, predestinato ad essere Figlio di Dio e diventato causa ed esemplare della nostra predestinazione, siano da annoverarsi tra le più alte della teologia agostiniana, che pur ce ne ha lasciate molte ed altissime.
Nel leggere le opere qui contenute, il lettore faccia attenzione ai lunghi passi della Predestinazione dei santi 15,30-31 e al Dono della perseveranza 24,67. Io mi permetto solo un rapido commento. Agostino, seguendo S. Paolo, parla della predestinazione di Cristo, e la spiega e la difende. Non dobbiamo aver paura di dire che Cristo sia stato predestinato. Negarlo è lo stesso che negare che sia stato uomo. " Giustamente si dovrà dire che egli non è stato predestinato in quanto Verbo di Dio presso Dio. Come avrebbe potuto infatti essere predestinato, se già era ciò che era, eterno, senza principio e senza fine? Di lui doveva essere predestinato, invece, ciò che egli ancora non era, perché divenisse, a suo tempo, ciò che era stato predestinato prima di tutti i tempi. Chi dunque nega che il Figlio di Dio è stato predestinato, nega che egli è il Figlio dell'uomo " 14. E cita le parole dell'Apostolo 15.
Posta dunque la predestinazione, ne studia i particolari per dimostrare il suo intento, che era quello di provare che la nostra predestinazione è un dono totalmente gratuito come lo fu quella di Cristo. Insiste pertanto sull'assunzione di Cristo uomo all'unità della persona del Verbo - a Verbo... in unitate personae assumptus -, una delle tante formule che esprimono nel modo più esatto l'unione ipostatica; ma insiste anche, e soprattutto, nel momento dell'assunzione, che è quello della concezione, di modo che Cristo uomo non è stato mai uomo senza essere Figlio di Dio: ex quo esse coepit, Filius Dei unicus esse coepit 16. Altrove aveva detto: " non prima creato e poi assunto, ma creato ipsa assumptione " 17. Maria infatti - ed ecco una grande verità cristologica insieme e mariana - Maria, piena di grazia, concepì l'unico Figlio di Dio 18, non l'uomo diventato poi Figlio di Dio, ma " Dio fatto uomo e così l'uomo fatto Dio " 19, perciò si può e si deve dire con tutta verità che " Dio è nato da una donna " 20. Questa insistenza aveva uno scopo preciso: mostrare che l'assunzione dell'uomo Cristo alla somma dignità di Figlio di Dio - una dignità che non ne ha un'altra superiore - era assolutamente gratuita.
Dalla verità dell'assunzione ne seguiva un'altra, questa volta cristologico-ecclesiologica, cioè questa: con l'incarnazione Cristo diventa " fonte della grazia " e Capo della Chiesa, il Cristo totale. Ne segue che la stessa grazia che ha fatto di Cristo uomo il Figlio di Dio fa noi cristiani. " Per la medesima grazia, fin dall'inizio della sua fede ogni uomo diviene cristiano, per la quale quell'uomo fin dall'inizio del suo esistere divenne Cristo; dal medesimo Spirito quegli è rinato e questi è nato ". E questa appunto è la predestinazione dei santi. " Dio, conclude Agostino, conobbe certamente per prescienza che avrebbe compiute queste cose. Dunque questa è la predestinazione dei santi, che si manifestò al grado più alto nel Santo dei santi. E chi potrà confutarla tra coloro che rettamente intendono le parole della verità? " 21.
L'ultima conclusione, profonda e luminosa, è che la nostra predestinazione dev'essere vista in quella di Cristo da cui è inseparabile: Dio ha predestinato insieme lui e noi: illum ergo et nos praedestinavit. La stessa scelta, lo stesso dono, la stessa predilezione. Dio infatti " nella sua prescienza vide che non ci sarebbero stati meriti precedenti né in Cristo perché fosse il nostro capo, né in noi perché fossimo il suo corpo, ma che tutto questo sarebbe avvenuto per opera sua " 22.
Inutile dire che la visione agostiniana della predestinazione non riguarda direttamente il singolo, ma il Corpo di Cristo che è la Chiesa. Dio col suo amore infinito abbraccia la Chiesa in Cristo, la guida lungo la peregrinazione terrena da Abele, il giusto, fino alla consumazione dei secoli 23 e la conduce ad essere " senza macchia e senza ruga ", quando i suoi membri saranno nel senso pieno " santi ed immacolati al suo cospetto " 24; la Chiesa, dico, composta qui in terra, tra le persecuzioni del mondo, di buoni e di cattivi, nel cielo invece, dove canterà la gloria di Cristo dal cui sangue è stata salvata 25, di soli buoni, cioè di soli predestinati. Noi dunque siamo stati predestinati in Cristo: un solo atto di amore ha compreso fin dall'eternità lui e noi. L'insistenza sulla predestinazione del singolo sarà propria di chi, rovesciando con la logica umana la visione di Agostino, pensa alla predestinazione al male, che non è affatto, come vedremo, agostiniana. Questo rovesciamento, che operarono per primi i monaci provenzali e fecero proprio i predestinaziani, ha un duplice inconveniente: applicare ai reprobi quel che vale solo per gli eletti e separare Cristo dalla predestinazione delle sue membra. Quanto siano gravi questi inconvenienti lo giudichi il lettore. A me interessa offrirgli un altro argomento di cui si serve molto Agostino per illustrare quest'aspetto esaltante del mistero, che è la predilezione di Dio verso gli eletti.

3. Il battesimo dei bambini

Questo argomento è la sorte beata dei bambini che ricevono il battesimo e, morendo, raggiungono la salvezza; un argomento evidente che la salvezza è un dono assolutamente gratuito.
Quanto Agostino abbia parlato del battesimo dei bambini difendendone la necessità e il significato nell'ambito della redenzione di Cristo e del peccato originale, l'ho detto altrove esponendone la teologia 26. Qui l'argomento viene ripreso in ordine alla predilezione di Dio verso gli eletti o gratuità della salvezza, ma non si può capire questo nuovo aspetto del problema se non si tengono presenti alcuni princìpi di quella teologia: 1) nessuno può salvarsi fuori della societas Christi, cioè fuori del passaggio dalla solidarietà del primo Adamo, cui si appartiene nascendo, alla solidarietà del nuovo Adamo, cui si appartiene rinascendo; 2) i bambini non passano da una solidarietà all'altra, da Adamo a Cristo, se non per il battesimo d'acqua o di sangue. Così egli intende il sensus Ecclesiae 27: il problema di altre possibili vie di salvezza non se lo pone, come nessuno se lo poneva allora.
Da questi princìpi nascono queste conclusioni:
1) i pelagiani, che volevano far dipendere la grazia dai meriti, nel caso dei bambini perdevano la loro causa, perché non avevano nulla da rispondere: de parvulis certe pelagiani quid respondeant non inveniunt 28; nei bambini infatti non si può trovare alcun merito che preceda il dono ineffabile della vita beata;
2) il ricorso ai futuribili, che vorrebbe far ricadere sui bambini stessi la distinzione tra i battezzati e i non battezzati, è contrario alla Scrittura e appare assurdo alla ragione.
MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:54
Sulla prima conclusione Agostino insiste di continuo, dalla prima opera contro i pelagiani 29 alle ultime su la lunga controversia 30. Il tono è sempre quello della sfida: dicatur mihi... chiede nella prima delle opere citate, quid respondeant non inveniunt dice nella terza, l'assenza del merito maxime apparet in parvulis, afferma nella stessa 31. Qualche volta ravvicina l'esempio dei bambini battezzati a quello di Cristo di cui ho parlato or ora. Scrive: " Ma quando si viene ai bambini e al Mediatore stesso di Dio e degli uomini, l'uomo Gesù Cristo, ogni possibile rivendicazione di meriti umani precedenti alla grazia di Dio viene meno ". E spiega: " non si può sostenere né che alcuni bambini sono distinti dagli altri per qualche merito precedente, in modo da appartenere al Liberatore degli uomini, né che, essendo Egli pure uomo, Cristo divenne liberatore degli uomini per un qualche merito umano " 32. Di fatti come esempi dell'assoluta gratuità della predestinazione e della grazia adduce e spiega lungamente questi due 33, resistendo ai monaci provenzali che al secondo esempio, quello di Cristo, forse non pensavano, ma ricusavano apertamente il primo 34.
Agostino sostiene che anche il primo è valido, perché anche i bambini sono stati redenti da Cristo e quindi soggetti al peccato originale, da cui non vengono liberati se non dal battesimo, che ricevono o non ricevono secondo le disposizioni della Provvidenza che sceglie o permette 35.
Ma dove il nostro dottore trovava una conferma inaspettata della sua argomentazione era nella ragione che davano i monaci provenzali per spiegare il perché alcuni bambini venivano battezzati ed altri morivano senza battesimo. Tutti preoccupati a porre nell'iniziativa dell'uomo il motivo della grazia di Dio - è l'uomo che comincia l'opera della salvezza e Dio continua con la sua grazia 36 -, volevano applicare questo principio anche ai bambini e non trovavano di meglio che ricorrere ai futuribili, cioè a quelle azioni che i bambini avrebbero fatte se fossero giunti all'età della ragione: il ricevere o non ricevere il battesimo sarebbe dipeso da quelle azioni secondo che sarebbero state buone o cattive.
Agostino non finisce di stupirsi per questa trovata: " resto meravigliato e stupito e non riesco a capire da dove uomini, il cui ingegno non è trascurabile, come indicano le vostre lettere, abbiano potuto dedurre che qualcuno possa essere giudicato non secondo i meriti che ha avuto finché fu nel corpo, ma secondo i meriti che avrebbe riportato se fosse vissuto più a lungo nel corpo " 37. La trova contraria alle parole di S. Paolo 38, contraria alla ragione (è assurdo che Dio possa giudicare e condannare non per le opere compiute ma per quelle che sarebbero state compiute se non fosse sopraggiunta la morte), contraria allo scopo perché inutile. Neppure i pelagiani l'hanno pensata 39.
Egli pertanto continua ad insistere nel suo argomento, ritenendo fermamente che la predestinazione di Cristo- uomo e il battesimo dei bambini siano un esempio eloquente della predilezione di Dio verso gli eletti, e perciò dell'assoluta gratuità della grazia e della salvezza.
Ma il mistero della predestinazione ha un altro aspetto che bisogna esaminare.

CAPITOLO QUINTO

L'AMORE DI DIO VERSO TUTTI GLI UOMINI

E' questo il secondo aspetto, anch'esso fondamentale, del mistero. Agostino, come si sa, è tutto rivolto ad illustrare il primo, ma su questo secondo qual è il suo pensiero? Non lo avrà forse dimenticato o addirittura negato? Molti lo credono, biasimando o lodando, ma lo credono. Lodano i predestinaziani, biasimano i pelagiani e quanti, anche oggi, si ritrovano tendenzialmente nel loro pensiero.
Molti infatti hanno pensato e pensano che su questo secondo aspetto la teologia agostiniana sia da considerarsi apertamente predestinaziana, in quanto l'amore di Dio non si estenderebbe a tutti gli uomini ma solo a quelli che si salvano: Dio non avrebbe la volontà di salvare tutti gli uomini, Cristo non sarebbe morto per tutti ma solo per i predestinati. Lode o biasimo, questa interpretazione non espone ma deforma il pensiero del vescovo d'Ippona.
Cominciamo proprio dalla morte di Cristo che è una verità cardine della dottrina cristiana.

1. Cristo è morto per tutti

Ho detto altrove quale posto occupi la croce di Cristo nella controversia pelagiana e quali siano le prerogative della redenzione: liberazione dal male, necessità, oggettività, universalità; come pure quale sia e quanto sia profonda la solidarietà di tutti gli uomini con Adamo e con Cristo 1. Non c'è bisogno di ripeterlo. Qui vorrei approfondire un poco il tema dell'universalità, che riguarda da vicino il nostro argomento ed è decisivo per esso.
Ecco dunque l'affermazione generale. Cristo è morto per tutti, nessuno escluso; è morto anche per Giuda che lo tradì. Questa universalità è legata teologicamente a tre ordini di argomentazioni:
a) all'universalità del peccato originale, di cui induttivamente è il fondamento;
b) all'universalità del giudizio universale, che comprenderà tutti perché tutti sono stati redenti;
c) all'universalità del significato del nome di Gesù, che è Gesù, cioè Salvatore, per tutti.
Tre argomentazioni che meritano un'attenzione particolare.
a) La prima è certamente la più importante. Non c'è chi non ricordi, e al momento opportuno non ripeta, che tutti gli uomini sono una massa dannata, perché tutti, nessuno escluso, nascono soggetti al peccato originale. Ma non molti sanno che, per il nostro dottore, tutti gli uomini, nessuno escluso, sono una massa redenta. Le due concezioni corrispondono anche semanticamente. " Per mezzo del Mediatore viene riconciliata a Dio la massa di tutto il genere umano da Lui alienata per mezzo di Adamo " 2.
Si sa che il dottore della grazia, fin dall'inizio della controversia pelagiana, propose e sviluppò un argomento di teologia biblica da cui si evince che il Verbo si è incarnato per liberare, salvare, redimere il genere umano e che pertanto nessuno può appartenere a Lui se non ha bisogno d'essere liberato, salvato, redento. Ne segue che i bambini o hanno bisogno di essere redenti e quindi hanno il peccato, che per loro non può essere se non il peccato originale, o non appartengono a Cristo e restano fuori della sua salvezza 3.
Dopo aver esaminato una sessantina di testi biblici per stabilire la sua dottrina di fondo 4, ne ripete qua e là, durante la lunga controversia, solo alcuni che ritiene i più efficaci, come quelli paolini della riconciliazione con Dio 5 e quello che afferma che Cristo è morto per tutti e che perciò tutti sono morti: Se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti 6.
Quest'ultimo è il testo che più c'interessa perché stringe insieme e mette in correlazione due verità: che Cristo è morto per tutti (universalità della redenzione) e che perciò tutti sono morti (universalità del peccato). Non c'è bisogno di discutere qui se la morte per cui tutti gli uomini sono morti sia quella del peccato, come intende Agostino, o non piuttosto quella mistica della partecipazione alla morte di Cristo loro capo e rappresentante, come intendono oggi, per lo più, gli esegeti. Qui interessa il pensiero teologico di Agostino non la sua esegesi. Egli, contro Giuliano che negava la realtà del peccato originale, argomentava così: Se Cristo è morto per tutti, anche per i bambini, vuol dire che anch'essi, i bambini, sono morti a causa del peccato, che per loro non può essere se non il peccato originale. C'è dunque una sola via per sostenere che i bambini non nascono con il peccato, quella di affermare che Cristo non è morto per loro. A questo Giuliano non voleva risolversi; rendeva perciò insanabile il dilemma agostiniano: ammetti che i bambini nascano con il peccato o neghi che Cristo sia morto per loro.
Il testo paolino viene ripetuto una ventina di volte durante la controversia pelagiana, particolarmente da quando cominciò la polemica 7. Basti una sola citazione. " Uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti... ma poiché non si tratta di morte corporale, non resta se non che siano morti a causa del peccato tutti coloro per i quali Cristo è morto... Ne segue che, se i bambini non contraggono il peccato originale, non sono morti; se non sono morti, non è morto per loro Colui che non è morto se non per i morti. Ma tu, conclude Agostino, nel tuo primo libro contro di me hai detto che Cristo è morto anche per i bambini " 8. Da questa concessione dell'avversario egli deduce contro di lui la sua conclusione.
L'argomento è sempre lo stesso: dall'universalità della redenzione all'universalità del peccato originale. Se tutti ammettono che il vescovo d'Ippona abbia difeso questa seconda universalità, non si comprende perché non tutti ammettano che abbia difeso anche la prima. Non voglio dare giudizi. Li dia, se vuole, il lettore. Mi si consenta però di fare un'osservazione: le due espressioni assiomatiche che ho ricordato sopra non vanno solo ravvicinate, ma, sul piano dell'argomentazione teologica, addirittura rovesciate; perché sappiamo che l'umanità è una massa redenta, non possiamo negare che sia anche una massa dannata. Era questa conclusione che qui importava tirare. Essa, come si vede, rovescia molti pregiudizi sulla dottrina agostiniana della grazia.
b) Ma l'universalità della redenzione è legata anche all'universalità del giudizio. Ho detto sopra che le due tesi fondamentali di un'opera qui riportata - Grazia e libero arbitrio - si riducono alle due prerogative di Cristo, che è insieme redentore e giudice: perché è redentore, occorre difendere la grazia; perché è giudice, occorre difendere la libertà 9. Qui si deve aggiungere che redenzione e giudizio sono, in quanto all'universalità, correlativi fra loro: Cristo sarà il giudice unico ed universale perché è stato l'unico ed universale redentore che ha redento tutti. " E' venuto Cristo, scrive Agostino, prima a salvare, poi a giudicare " 10. " Giudicherà il mondo con giustizia 11. Non giudicherà solo una parte, perché non ha redento solo una parte. Deve giudicare la totalità, poiché per la totalità ha pagato il prezzo. Totum iudicare debet, quia pro toto pretium dedit " 12. Quando perciò si leggono in Agostino parole come queste: " Venne sparso un sangue innocente e con esso vennero cancellate tutte le colpe dei peccatori; venne sborsato un prezzo talmente grande che valse a redimere tutti i prigionieri dalle mani del nemico che li teneva imprigionati " 13, non si possono non intendere nel senso di un genuino e consolante universalismo.
c) Possiamo aggiungere che l'universalismo della redenzione emerge anche dalla costante affermazione che Gesù è Gesù, cioè Salvatore, anche dei bambini; un'affermazione che attraversa tutta la controversia pelagiana e rivela l'animo pastorale del vescovo d'Ippona, il quale non faceva teologia per la teologia e meno ancora controversia per la controversia, ma l'una e l'altra per la vita quotidiana della Chiesa. Da quest'animo pastorale nasce l'accorato appello di lasciare che i bambini vadano a Cristo. " Pensi come vuole, scrive rivolto a Giuliano, pensi come vuole della concupiscenza - e questa concessione è significativa in chi ha sempre insistito per difendere la propria visione teologica della concupiscenza - ma almeno, continua, abbia pietà dei piccoli... conceda che Gesù sia Gesù anche per loro... se vuol essere cristiano cattolico... Gesù è Gesù perché è Salvatore: Egli infatti salverà il suo popolo, e in questo popolo ci sono anche i piccoli " 14. Lo stesso appello, sempre accorato, nell'ultima opera 15; lo stesso, anzi più ancora, nei discorsi al popolo 16.
Vediamo ora l'esatta interpretazione di alcuni testi e poi la visione agostiniana del problema:
1. Testi decisivi in contrario. Forse il lettore si domanderà stupito come mai sia nata e come sia ripetuta ancora oggi la... leggenda che Cristo, secondo Agostino, è morto solo per coloro che si salvano. Di recente un autore scriveva che la dottrina agostiniana sulla redenzione non si deve, non si può intendere senza una " desolante restrizione " 17. Per provarlo citava due testi dei quali uno non dice nulla, l'altro, come viene riportato, non è esatto. Segno evidente che certe convinzioni sono tanto generali e tanto profonde che anche studiosi seri cadono nell'illusione ottica di vederne le prove dove non stanno.
Il citato autore, benemerito del resto di studi agostiniani per il suo lavoro sull'esegesi di S. Agostino predicatore, ricorda un testo del commento al Salmo 87: Solis praedestinatis ad aeternam salutem, non autem omnibus hominibus eius [Christi] opera bona profuerunt 18, e un secondo dell'Epistola 169: Non perit unus ex illis pro quibus [Christus] mortuus est 19.
Ognun vede che il primo testo non dice nulla più di quanto i teologi, Agostino compreso, hanno sempre detto e la Chiesa nei suoi documenti solenni ha spesso ripetuto, che cioè la redenzione non giova di fatto se non a coloro che si salvano, poiché non tutti mortis eius beneficium recipiunt 20. Una distinzione tra redenzione e partecipazione effettiva ai benefici della salvezza s'impone. Vedremo fra poco dove e come Agostino la fondi 21. Qui dirò solo che egli la conosce. Sarebbe strano, del resto, pensare il contrario. Nel Contro Giuliano, dopo aver ricordato e spiegato ancora una volta il noto testo dell'Apostolo: Se uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti 22, scrive: " Possiamo dire più chiaramente così: sono liberati dal peccato coloro per i quali è morto Colui che non aveva il peccato. E, pur essendo morto una sola volta, tuttavia allora muore per ciascuno quando ciascuno, in qualunque età, viene battezzato nella sua morte; cioè, la morte di Colui che fu senza peccato gli giova quando, battezzato in quella morte, muore anch'egli al peccato " 23. La controprova la troviamo nel fatto che Cristo ha redento anche Giuda, il quale " gettò via la somma di denaro con cui aveva venduto il Signore e non seppe riconoscere il prezzo col quale egli stesso era stato comprato dal Signore: nec agnovit pretium quo ipse a Domino redemptus erat 24 ".
L'altro testo, sul quale tanto confidava Giansenio 25, è criticamente inesatto. Si deve leggere così: ...non perit unus pusillus pro quibus [Christus] mortuus est 26. Il suono e il significato sono completamente diversi. V'è, come risulta dal contesto, un'allusione a Mt 18,14 e non, come avevano creduto i benemeriti Maurini, a Gv 17,12. " Il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli ", aveva detto Gesù. Agostino vi allude, incidentalmente, mentre, rispondendo all'amico Evodio, parla dei grandi che irridono la croce e dei piccoli che, pur ignari di dotte discussioni, aderiscono ad essa e se ne gloriano 27. Che poi l'espressione non abbia nulla di esclusivo risulta chiaramente dalla frequenza con la quale ripete il binomio biblico: piccoli e grandi (pusilli et magni28 e afferma che Gesù è Salvatore degli uni e degli altri. Basti un solo testo: " ...la grazia di Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo trasferisce dalla morte del primo uomo alla vita del secondo i piccoli e i grandi: è questa la fede vera e cattolica che da sempre tiene la Chiesa " 29. I testi decisivi in contrario sono, come si vede, molto poco decisivi. Tiriamo la conclusione di una dottrina tanto luminosa e confortante.
2. Dio ama tutti gli uomini e vuole tutti salvi. Questa conclusione s'impone e dai testi espliciti di Agostino e dalla storia della controversia sulla predestinazione. Dice il vescovo al suo popolo - si ricordi che tutta la controversia sulla grazia ha per lui uno sfondo pastorale a favore del quale interviene -: Chi ci ha redento con tanto prezzo non vuole che periscano coloro che ha comprato 30; ed ancora: " Per l'uomo il Padre ha consegnato alla morte il suo unico Figlio. Chi può spiegare, chi potrà degnamente almeno pensare quanto ci ami? " 31. Nel De correptione et gratia, poi, una delle ultime opere sulla grazia alla quale ci si appella volentieri, in senso contrario, scrive terminando: " E chi amò i deboli più di Colui che si fece debole a vantaggio di tutti, e a vantaggio di tutti nella sua debolezza fu crocifisso? " 32.
Non poteva, non può essere diversamente: nella dottrina dommatica della morte di Cristo per tutti è contenuta, implicitamente ma inequivocabilmente, quest'altra: Dio vuole la salvezza di tutti. Ne abbiamo una conferma nell'insegnamento dei predestinaziani di tutti i tempi, i quali, negando questa seconda, hanno negato in tutte lettere la prima. Agostino, che ha affermato in tutte lettere la prima - Cristo è morto per tutti - non può essere accusato di aver negato la seconda: Dio vuole tutti salvi. Del resto il magistero della Chiesa ha ribadito la seconda affermando esplicitamente la prima, condannando cioè i predestinaziani di tutti i tempi che negavano che Cristo è morto per tutti. Ad Arles contro Lucido, a Quiersy contro Godescalco, a Trento contro i protestanti, nella condanna delle cinque proposizioni contro Giansenio, in quella delle trenta contro i giansenisti, il giudizio di riprovazione della Chiesa cade sempre su questa proposizione: Cristo non è morto per tutti 33. Nella condanna di questa è implicita l'affermazione dell'altra: Dio vuol salvi tutti.
Qualcuno dirà: ma il vescovo d'Ippona ha negato esplicitamente quest'ultima affermazione dando un'interpretazione restrittiva del passo di S. Paolo 1 Tim 2,4. Vedremo il significato della sua interpretazione. Intanto, per non confondere le cose chiare con le oscure, prendiamo atto che i predestinaziani, volendo negare la volontà salvifica universale, hanno negato che Cristo sia morto per tutti, e che la Chiesa, per riaffermare quella volontà, ha condannato questa proposizione. Continuiamo pertanto ad illustrare il nostro assunto: Dio è Padre, Dio ama tutti gli uomini. Agostino ha molte altre cose da dirci.

2. Dio non abbandona se non è abbandonato

In particolare lo stupendo principio che Dio non abbandona se non è abbandonato, principio che rivela la misericordia infinita di Dio verso gli uomini e illumina tutta la dottrina della grazia. Lo intuì fin dall'inizio, nella sua conversione, e lo ridisse poco dopo in una delle sue prime opere. Scrive nei Soliloqui parlando a Dio: " Se tu abbandoni, si va in rovina; ma tu non abbandoni perché sei il sommo Bene: si deseris peritur, sed non deseris, quia tu es summum Bonum " 34.
Da quel momento questo principio animò la sua pietà e sorresse la sua dottrina della grazia. Nelle Confessioni lo esprime, a causa dell'allitterazione, in maniera più icastica: Te nemo amittit, nisi qui dimittit; e aggiunge: " chi ti abbandona ove va, ove fugge, se non dalla tua benevolenza alla tua collera? " 35.
Sorta la controversia pelagiana, lo ripeté nella terza delle molte opere che scrisse in quell'occasione, lo ripeté, dico, nella formula più breve, restata classica, citata anche dal Concilio di Trento 36 e poi dal Concilio Vaticano I 37: non deserit, si non deseratur 38. Nel De correptione et gratia, una delle ultime opere, lo applicò ad Adamo: deseruit et desertus est 39 e poi a tutti gli uomini che, secondo la prescienza di Dio, si perderanno: deserunt et deseruntur. Sono infatti lasciati al loro libero arbitrio per un giudizio di Dio giusto ed occulto 40. Infine nel De dono perseverantiae ai provenzali, i quali sostenevano che " ognuno abbandona Dio di propria volontà e così merita di essere abbandonato da Dio ", senza prendersi la soddisfazione di ricordare loro che questo principio lo aveva enunciato tante volte egli stesso, rispose semplicemente così: " E chi potrà negarlo? "; aggiungendo peraltro che non bisognava dimenticare la dottrina sulla necessità della grazia e della preghiera: " Ma è per questo, continua, che chiediamo nel Padre nostro di non essere indotti in tentazione, perché ciò non avvenga " 41.
Se poi dalle opere sulla controversia pelagiana e semipelagiana passiamo alle altre, troviamo nella Città di Dio lo stesso principio con l'aggiunta di una spiegazione metafisica della quale ho parlato altrove 42. Dice dunque: " L'anima non abbandona Dio perché è stata abbandonata da lui, ma viceversa: è abbandonata perché ha abbandonato. Non c'è dubbio che la sua volontà è prima nei confronti del male, mentre nei confronti del bene è prima la volontà del suo Creatore, sia nel crearla quando non era, sia nel rianimarla quando, cadendo, s'era perduta " 43.
Se infine passiamo ai discorsi, è la stessa dottrina che incontriamo, qualche volta rivestita di belle immagini, come quella della fonte - " la fonte non abbandona se non siamo noi ad abbandonare la fonte " 44 -, altre volte in occasione delle parole di un salmo, come nel Salmo 26,9: Sii il mio aiuto; non abbandonarmi, Dio mio Salvatore. Agostino commenta: " Tu infatti mi aiuti, tu che mi hai plasmato; tu non mi abbandoni, tu che mi hai creato: tu non deseris qui creasti " 45.
Mi sono trattenuto su questo principio non solo perché apre il cuore al più genuino ottimismo cristiano di cui il vescovo d'Ippona fu profondamente compreso, ma anche perché c'è chi pensa che un tal principio non trovi posto nella dottrina agostiniana, tanto che quando lo usa Prospero per rispondere alle accuse dei provenzali 46 si pensa ad una novità, a una mitigazione del pensiero di Agostino che sarebbe, si dice, assai più rigoroso 47. Troppe volte, e questa è una, i giudizi sull'insegnamento del vescovo d'Ippona nascono dall'ignoranza!
Vorrei terminare con un testo delle Confessioni che, confermando quanto detto sopra, rivela, come meglio non si potrebbe, l'animo grande e fiducioso del dottore della grazia. " Tu non abbandoni nulla di ciò che hai creato... non abbandoni le tue creature come esse abbandonarono il loro Creatore. Si volgano a te, ed eccoti già lì, nel loro cuore, nel cuore di chiunque ti riconosce e si getta ai tuoi piedi, piangendo sulle tue ginocchia dopo il suo aspro cammino. Tu prontamente ne tergi le lacrime, e più singhiozzano allora e si confortano al pianto perché sei tu, Signore, e non un uomo qualunque, carne e sangue, ma tu, Signore, il loro creatore, che le rincuori e le consoli. Anch'io dov'ero quando ti cercavo? Tu eri davanti a me, ma io mi ero allontanato da me e non mi ritrovavo. Tanto meno ritrovavo te " 48. Questo il vero Agostino, il vero dottore della grazia e insieme il vero filosofo dell'interiorità!

3. Non c'è iniquità presso Dio

Ma dobbiamo continuare, considerando lo stesso argomento in ordine alla giustizia divina. Le parole: Numquid iniquitas apud Deum?, tratte letteralmente dalla Scrittura 49, Agostino le cita infallibilmente, come si è visto, ogni volta che il discorso torna sul mistero della predestinazione; le cita per rasserenare il suo spirito e perché i lettori rasserenino il proprio. Vale la pena di fermarvi per un istante l'attenzione. E' una verità rasserenante perché ne suppone molte altre, almeno queste: Dio, perché giusto, non può condannare l'innocente; nessuno è peccatore se non per propria colpa; nessuno può commettere una colpa se non per libera scelta; nessuno sceglie liberamente il male se non ha il potere di scegliere il bene. Tutte conseguenze presenti all'animo e negli scritti di Agostino: sono esse che giustificano il continuo appellarsi a quelle parole.
1) Cominciamo dalla prima: Dio non può condannare l'innocente. Ecco le ripetute affermazioni del nostro dottore: " Dio è buono, Dio è giusto: può liberare ognuno senza meriti perché è buono, non può condannare alcuno senza demeriti perché è giusto " 50. Spiegando poi le parole del Vangelo: Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere 51, scrive nel De gratia et libero arbitrio: " Sicuramente Dio renderà male per male, perché Egli è giusto; e bene per male perché Egli è buono; e bene per bene perché è buono e giusto; non sarà possibile soltanto che renda male per bene perché non è ingiusto ". Esemplificando continua: " Renderà dunque male per male, castigo per ingiustizia; e renderà bene per male, grazia per ingiustizia; e renderà bene per bene, grazia per grazia " 52. Altrove, in una lettera a Paolino sulla questione pelagiana, è ancora più esplicito dicendo in tutte lettere che Dio non sarebbe alieno dall'iniquità se condannasse un innocente: " E' conforme alla retta fede e alla verità credere che quando Dio rende giusti i peccatori e gli empi, li salva dai castighi giustamente meritati; credere, al contrario, che Dio condanni uno che non merita il castigo e che non è colpevole di nessun peccato, vuol dire credere che Dio è ingiusto: alienus ab iniquitate non creditur ". Ed insiste: " Allorché dunque Dio salva chi non lo merita, dev'essere tanto più ringraziato quanto più giusto era il castigo; quando invece venisse condannato chi non lo merita, non si fa trionfare né la misericordia né la verità " 53.
Dopo queste reiterate affermazioni si stenta a capire come sia stato accreditata al nome di Agostino un'opera in cui si dice fra l'altro: " Se il genere umano, creato dal nulla, nascesse senza il debito della morte e del peccato originale e tuttavia Dio, il Creatore onnipotente, volesse condannare alcuni alla morte stessa, chi potrebbe dire all'onnipotente Creatore: perché hai fatto così? " 54. Questo non è certo Agostino; e bene hanno fatto gli editori a rimandare l'opera tra quelle spurie 55.
Meno ancora si comprende come un grande erudito qual era Erasmo abbia potuto accettare come agostiniane - alicubi [?] scribit Augustinus - parole come queste: Deum et bona et mala operari in nobis, et sua bona opera remunerare in nobis, et sua mala opera punire in nobis 56; parole che contengono il più cupo predestinazionismo e sono diametralmente opposte a quelle ricordate sopra, che pur Erasmo, editore di Agostino, doveva conoscere.
Per quanto io sappia, non ci sono studi sufficienti sull'influsso della letteratura spuria sull'immagine che spesso ci si è fatta - ed è talvolta la più tenace - della dottrina agostiniana della grazia. L'autentico Agostino è molto lontano da quelle immagini.
2) Per il resto si può essere brevi. Abbiamo visto sopra 57 che Agostino difende la libertà dell'uomo ricorrendo alla nozione della giustizia divina che ne punisce il peccato: Dio non potrebbe punirlo giustamente se non fosse stato commesso liberamente. Vale la pena di riportare qui un passo già citato: " Le azioni cattive sono punite dalla giustizia di Dio ": questo il principio. Ed ecco la conseguenza: " non sarebbero punite con giustizia se non fossero compiute con libertà " 58. In caso contrario, come dirà nella Città di Dio, la giustizia sarebbe " crudele ", il che, quando si tratta della giustizia divina, non è possibile 59. Questa insistenza sulla libertà del peccato gli crea difficoltà per quello originale. I pelagiani ne approfittano. Agostino risponde ribadendo il principio - non c'è peccato senza libertà 60 - e spiegando la conseguenza: il peccato originale ha questo di proprio, che è insieme peccato e pena del peccato 61.
3) Questa affermazione ne richiama un'altra: nessuno sceglie liberamente il male se non ha il potere di evitarlo, cioè di scegliere il bene. E' la nozione del peccato che lo esige 62. Per questo Agostino dice e ripete che ognuno è cattivo per propria colpa: tuum quippe vitium est quod malus es 63. Né può mancare l'aiuto divino necessario per evitare il peccato. Il principio viene enunciato a proposito del primo uomo cui Dio aveva dato un aiuto senza il quale non avrebbe potuto permanere nel bene se lo avesse voluto. Infatti " se questo aiuto fosse mancato sia all'angelo che all'uomo fin dal primo momento che furono creati, poiché la loro natura non era stata creata tale da poter perseverare, se lo voleva, senza l'aiuto divino, certamente non sarebbero caduti per loro colpa: evidentemente sarebbe mancato loro l'aiuto senza il quale non potevano perseverare " 64.
E' vero che questo principio è detto dell'uomo prima del peccato, ma è tanto generale che vale anche dell'uomo dopo il peccato. E' vero altresì che subito dopo averlo enunciato, continua: " se ora [appunto dopo il peccato] a qualcuno manca tale aiuto, ciò è ormai castigo del peccato " 65, ma queste parole si devono intendere di quell'indurimento del cuore di cui si è parlato 66 o dell'economia generale della grazia di cui parleremo 67.
Per concludere possiamo dire che Agostino faceva bene ad appellarsi, si direbbe piuttosto ad aggrapparsi, alla giustizia di Dio, che non può esser crudele, che non può essere iniqua, per tranquillizzare il suo animo di fronte al mistero della predestinazione, il quale, se importa la predilezione divina verso gli eletti, non nega l'amore di Dio verso tutti gli uomini; amore che dà a tutti, attraverso la redenzione di Cristo, la possibilità di salvarsi, benché in realtà non tutti si salvino.
Del resto il maestro d'Ippona ha un'idea tanto alta della giustizia divina e, di conseguenza, delle relazioni tra questa giustizia e il male, da sostenere che Dio non poteva creare l'uomo nelle condizioni in cui si trova, perché - ecco un suo solenne principio - nessuno può essere misero sotto la provvidenza di Dio giusto, se non l'ha meritato: Neque enim sub Deo iusto miser esse quisquam nisi mereatur potest 68. L'ho detto altrove 69. Il peccato originale, poi, ha per lui un compito tanto importante nella dottrina della predestinazione, che questa non s'intende senza quello 70.
A questo punto il lettore non ignaro della storia del domma obietterà che il vescovo d'Ippona, dando spesso, come ha fatto, un'interpretazione restrittiva al celebre passo paolino 1 Tim 2,4, nega in Dio la volontà di salvare tutti gli uomini e contraddice a quanto si è detto or ora o si è esposto sopra. La difficoltà c'è, e bisogna scioglierla. Lo farò, ma un poco più appresso. Credo maggiormente utile, ora, esporre le grandi verità che guidano la riflessione agostiniana intorno al mistero di cui stiamo parlando. E' importante tenerle presenti anche per capire meglio quella interpretazione.

CAPITOLO SESTO

LE GRANDI VERITA' CHE FANNO DA SFONDO AL MISTERO DELLA PREDESTINAZIONE

Credo che si possano ridurre a tre: una escatologica, una teologico-metafisica, una esegetica. La verità escatologica è quella dell'esistenza delle due città, ambedue eterne, anche se la città dei reprobi non può chiamarsi città. La verità teologico-metafisica è quella dell'onnipotenza divina che può cambiare in meglio ogni volontà, anche se ostinata, senza lederne il dono della libertà. Infine quella esegetica è l'interpretazione che dà Agostino all'elezione secundum propositum di S. Paolo.

1. Le due città

E' inutile dire quale parte occupi nel sistema teologico agostiniano la concezione delle due città. Ne ho dato una rapida idea altrove e rimando ad essa 1. Qui riprenderò un tema dei debiti fines, precisamente quello delle sorti delle due città, tanto diverse, ma ambedue eterne. La questione è molto importante per il nostro argomento. Agostino si chiede " perché la Chiesa non abbia potuto sopportare l'opinione di coloro che promettono anche al diavolo, dopo grandissime e lunghissime pene, la purificazione ed il perdono " 2. Si tratta evidentemente dell'apocatastasi di Origene. Il nostro dottore risponde: " Non certo perché tanti uomini santi e dotti nelle Scritture abbiano visto malvolentieri la purificazione e la beatitudine degli angeli prevaricatori... ma perché videro che non può essere annullata né infirmata la sentenza che il Signore annunziò che proferirà nel giudizio " 3.
MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:54
Agostino, che legge la Scrittura nella Chiesa e attraverso la Chiesa, non può che approvare questa conclusione. Le parole della Scrittura sulla condanna divina degli empi dev'essere presa secondo verità e non come una minaccia. " Coloro invece che pensano che siano state usate minaciter potius quam veraciter, non li confuto io, continua, ma li redarguisce e li confuta in maniera evidente e piena la Scrittura " 4. Questa prima evidenza emerge dal rapporto stabilito tra la vita eterna e la pena eterna. " Se entrambi i destini sono eterni, non c'è dubbio che si debbano intendere o tutti e due d'una lunga durata a cui segua la fine o tutti e due d'una perpetuità che non abbia fine. Difatti sono messi in relazione di parità: da una parte la pena eterna, dall'altra la vita eterna. Dire che in un solo e medesimo contesto vita eterna significhi vita senza fine, pena eterna pena che avrà fine, è troppo assurdo. Poiché dunque la vita eterna dei santi non avrà fine, anche la pena eterna per coloro che vi andranno soggetti sarà, non v'è dubbio, senza fine " 5.
Dopo questa netta presa di posizione e dopo aver messo da parte la posizione di Origene che estendeva la misericordia divina anche al diavolo e ai suoi angeli, sed illum et propter hoc... non immerito reprobavit Ecclesia 6, passa in rassegna le opinioni dei così detti " misericordiosi " dando nella risposta un bel quadro dell'alto ideale della perfezione cristiana e un raro esempio di modestia di fronte a questioni difficili, come la distinzione tra peccati che escludono dal regno di Dio - peccati gravi o mortiferi - e peccati che non importano questa esclusione. Di tale distinzione confessa che è difficile e che stabilirla è rischioso: " io fino al presente, pur essendomene molto occupato, non sono riuscito ad indagarla " 7; ma non dubita che sono quelli dei quali l'Apostolo dichiara: qui talia agunt regnum Dei non possidebunt 8; non dubita pertanto che non solo tra gli angeli, ma anche tra gli uomini ci sono dei reprobi e che la loro pena, benché diversa, sarà eterna. Lasciamo per ora gli angeli e occupiamoci solo degli uomini. La conclusione che ne deriva è molto importante. Ne segue che non tutti gli uomini si salvano; ne segue che la redenzione di Cristo e l'amore infinito di Dio che in essa si esprime non sono ugualmente efficaci per tutti; ne segue infine che la volontà divina, con la quale Dio vuole che tutti gli uomini si salvino 9, resta per molti inoperosa.
A questo fatto ineludibile, cioè all'esistenza eterna delle due città, si aggiunge un altro insegnamento biblico su cui Agostino non ha alcun dubbio e che, a suo parere, se considerato alla luce della ragione, solo gli " sciocchi " possono negare: l'onnipotenza del volere divino. Occorre fermarsi un poco anche su questo. Il mistero cresce, ma forse, nello stesso tempo, s'illumina, apparendo nella sua giusta impostazione.

2. Dio può cambiare in meglio ogni volere umano per quanto sia ostinato nel male

Anche di questo argomento ho parlato a lungo 10. Lo ricordo qui per l'influsso che ne deriva sul mistero della predestinazione. Tra i pelagiani ed Agostino - per i primi mi riferisco prevalentemente a Giuliano - c'erano due differenze di fondo: una riguardava le relazioni tra Dio e la libertà dell'uomo, l'altra riguardava la natura stessa della libertà. Giuliano pensava che Dio, avendo creato l'uomo libero, lo avesse " emancipato " da sé e dovesse pertanto arrestarsi di fronte al suo stesso dono; pensava altresì che la libertà consistesse nel potere di fare il bene o il male. Agostino respingeva come assurda l'una e l'altra pretesa. La libertà non consiste nel posse peccare 11 e Dio può, se vuole, cambiare in meglio qualunque volontà umana senza lederne la libertà 12.
Data questa differenza di fondo, la controversia rischiava di somigliare a un dialogo tra sordi. Giuliano non capiva Agostino e interpretava in chiave di negazione della libertà o in chiave di fatalismo tutto ciò che egli scriveva intorno alla grazia. Come fanno alcuni - forse molti - anche oggi. Agostino non capiva come il suo avversario, di cui conosceva e riconosceva l'ingegno, potesse sostenere certe assurdità e si sforzava di mostrargli che erano contrarie sia alla fede che alla ragione. Ma inutilmente. Giuliano non comprese, come non compresero i monaci provenzali, e quanti dopo di loro lessero e leggono gli scritti agostiniani con la mentalità pelagiana.
Per Agostino invece questa indiscutibile verità del potere di Dio sulla volontà umana, congiunta all'altra dell'esistenza eterna delle due città, rende più profondo e più oscuro il mistero della predestinazione, ma ne mostra anche, lo vedremo fra poco, il punto focale. Se Dio è padre, se Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito per la salvezza del mondo 13 - si veda il bel commento che Agostino fa a queste parole 14 -, come mai permette che tanti si perdano quando potrebbe, salva la loro libertà, cambiarne in meglio il volere?
A questa domanda egli non sa dare una risposta - e chi lo potrebbe? - e s'inchina, adorando, al mistero. Conforta poi il suo animo col solito principio: numquid iniquitas apud Deum? Né si può rispondere come facevano i pelagiani, che Dio lascia l'uomo in potere del libero arbitrio limitandosi a dare il premio ai buoni e il castigo ai cattivi. Non si può, perché c'è una terza verità da salvare: la scelta degli eletti secundum propositum. Di questi nessuno perisce, perché vengono condotti infallibilmente, non senza la loro libera cooperazione, alla salvezza.

3. L'elezionesecundum propositum "

Questa elezione divina secundum propositum Agostino la trova nella Scrittura, in S. Paolo, e ne fa un cardine del suo insegnamento. I testi biblici son quelli della Lettera ai Romani 4,5: secundum propositum gratiae Dei; 8,28: secundum propositum vocati; 9,11: ut secundum electionem propositum Dei maneret.
Confrontando questi testi ed altri molti riguardanti la grazia e partendo dalla distinzione evangelica tra chiamati ed eletti - multi sunt vocati, pauci vero electi 15 - sostiene che sono " eletti " solo quelli chiamati secondo il disegno, disegno di Dio, non dell'uomo. " Sono eletti perché sono chiamati secondo il disegno, ma il disegno di Dio, non loro... questi stessi sono anche predestinati e presciti ". " Di questi, continua Agostino mettendo in rilievo la relazione che lega infallibilmente l'elezione alla salvezza, di questi se qualcuno perisce, è Dio che s'inganna; ma nessuno di essi perisce perché Dio non s'inganna. Se qualcuno di questi perisce, è Dio che è vinto dalla malizia umana; ma nessuno di essi perisce, perché Dio non è vinto da nessuna cosa " 16.
Distingue, poi, una duplice vocazione divina: la vocazione con la quale furono chiamati " coloro che non vollero venire alle nozze " - si noti questo riferimento alla parabola di Mt 22,1-14 -, o i giudei e i gentili per i quali Cristo crocifisso era uno scandalo oppure una stoltezza; e la vocazione di quelli che sono stati chiamati secundum propositum, cioè gli eletti o coloro che Dio ha da sempre conosciuto e predestinato ad essere conformi all'immagine del Figlio suo 17. Questi Dio li ha chiamati non a causa delle loro opere, ma per sua volontà. Vale la pena di rileggere tra tanti un testo agostiniano: " Dio chiama i suoi molti figli predestinati per renderli membra del suo unico Figlio predestinato, ma non con quella vocazione che ricevettero anche coloro che non vollero venire alle nozze. Questo secondo genere di chiamata fu rivolto anche ai Giudei, per i quali Gesù crocifisso è scandalo, e ai gentili, per i quali il Crocifisso è stoltezza; al contrario la chiamata dei predestinati è quella che l'Apostolo distinse dicendo che egli predicava ai chiamati, Giudei e Greci, Cristo potenza e sapienza di Dio. Le parole: appunto per i chiamati, servono a contraddistinguere i non chiamati. Sapeva che c'è un tipo di appello sicuro per quelli che sono stati chiamati secondo il decreto, perché Dio ne ebbe prescienza e li predestinò ad essere conformi all'immagine del Figlio suo. Riferendosi a questa chiamata, dice: Non dalle opere, ma dal volere di Colui che chiama le fu detto: Il maggiore servirà il minore " 18.
Quella degli eletti è dunque " l'elezione della grazia ", quell'elezione che non proviene dai meriti ma che precede ogni merito, e assicura la salvezza, elezione che Agostino si duole di non aver compreso pienamente prima che la risposta a Simpliciano lo inducesse ad approfondire i versicoli 9,10-29 della Lettera ai Romani, versicoli che rivelano l'insondabile mistero della salvezza 19.
Tre dunque sono le grandi verità che Agostino tiene presenti quando parla del mistero della predestinazione:
1) nonostante l'universalità della redenzione di Cristo, non tutti gli uomini si salvano;
2) Dio se volesse potrebbe salvare tutti, rispettando - lo ripeto ancora - la loro libertà;
3) quelli che si salvano sono oggetto di un'imperscrutabile elezione divina e devono la loro salvezza a questa elezione; pertanto non possono fare nulla di meglio che ringraziare Dio per l'ineffabile dono che hanno ricevuto. Alla luce di queste verità dev'essere capita l'interpretazione agostiniana del passo paolino 20, che tanta difficoltà presenta a molti studiosi.

CAPITOLO SETTIMO

L'INTERPRETAZIONE DI 1 TIM 2, 4

La difficoltà la fanno tutti, la soluzione la cercano pochi. Per molti la sentenza di condanna è passata in giudicato: viene ricordata solo per costruire quell' " agostinismo " - il loro - contro il quale, poi, lanciare l'anatema 1. Qui più che altrove Agostino ha bisogno di essere esposto. Facciamolo dunque con la massima imparzialità. Se ha sbagliato, ha sbagliato. Era uomo: nel difendere una verità, può averne perduta di vista un'altra. Ma per cercar di capire occorre fare prima alcune osservazioni.

1. Controversia pelagiana

Cominciamo con la posizione dei pelagiani i quali interpretavano a loro favore due testi paolini: Rom 5,18; 1 Tim 2,4. Nell'uno e nell'altro si parla di universalità: omnes homines. Del primo si servivano per negare il peccato originale, del secondo per affermare che l'iniziativa della salvezza dipende dalla nostra libera volontà. Su Rom 5,18 ragionavano così: quando l'Apostolo dice: Per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita, non si può intendere quel tutti dell'universalità numerica perché è certo che non tutti si salvano; ne segue che quando dice poco prima: Per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, non si può intendere dell'universalità numerica quasi che tutti traggano dal primo uomo il peccato, ma si deve intendere di quelli che, peccando, hanno imitato il primo uomo. Torna la tesi, cara appunto ai pelagiani, della trasmissione del peccato originale per imitazione 2. Sul secondo testo facevano un ragionamento non meno lineare che sul primo: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi; se dunque non tutti si salvano vuol dire che non tutti lo vogliono: la colpa è loro. Ma se chi non si salva, non si salva per propria colpa, ne segue che chi si salva, si salva per proprio merito.
La prima conseguenza urtava, per Agostino, contro il fatto dei molti bambini che muoiono senza battesimo, la seconda urtava contro la necessità e la gratuità della grazia, riaffermava infatti pari pari la dottrina fondamentale dei pelagiani sulla grazia che verrebbe concessa secondo i nostri meriti. Per questo egli vuol togliere dalle loro mani l'uno e l'altro testo interpretandoli insieme non nel senso dell'universalità numerica bensì in quello dell'universalità causale 3. " Perché non prendere allora, secondo la medesima accezione, le due seguenti espressioni dell'Apostolo: Dio vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, e: Per l'opera di giustizia di uno solo perviene a tutti gli uomini la giustificazione che dà la vita? " 4
Inutile dire che la controversia pelagiana influenza e domina l'interpretazione che Agostino dà di 1 Tim 2,4. E' doveroso capirla in quel contesto, se si ama capirla davvero. Ma c'è una seconda osservazione da fare.

2. Spostamento di accento nell'argomentazione teologica posteriore

Questa riguarda lo spostamento di accento che si nota nell'uso dei testi biblici, per dimostrare che c'è in Dio la volontà di salvare tutti gli uomini. Agostino insisteva sull'unus pro omnibus mortuus est 5 - abbiamo visto sopra quanto frequentemente e con quale forza di argomentazione a favore dell'universalità del peccato originale 6 -; dopo di lui s'insisterà - da parte dei teologi, non dei documenti ecclesiastici 7 - sul nostro testo: Deus vult omnes homines salvos fieri 8. Non già che il secondo sia più efficace del primo - è infatti il primo che serve di fondamento al secondo -, ma forse perché il secondo è di più immediata percezione.
In ogni modo, di fronte al fatto che non tutti si salvano - si è detto or ora dell'esistenza eterna delle due città -, questo secondo testo ha bisogno di una qualche distinzione. E' restata celebre quella di S. Giovanni Damasceno, che, ripresa - tra le altre - da S. Tommaso 9, è diventata patrimonio di tutti i teologi cattolici. Dice dunque Damasceno: " Dio con volontà primaria e antecedente vuole tutti gli uomini salvi... L'altra volontà è detta conseguente: non è che una permissione che ha la radice nei nostri atti " 10.
Non già che questa distinzione sciolga il problema, tutt'altro! ma almeno lo sposta, che è già qualcosa. Che non lo sciolga ma lo sposti soltanto si vede bene dalle interminabili discussioni dei teologi sul tema della predestinazione e della grazia e dai sistemi diversi che ne sono nati. Si trattava e si tratta di trovare il modo d'intendere queste solenni parole senza cadere nelle conseguenze che ne traevano i pelagiani e i semipelagiani. In ogni modo Agostino ha il torto, si dice, di non aver proposto questa distinzione, dunque egli nega in Dio la volontà salvifica universale. Come la neghi quando ripete senza posa che Cristo è morto per tutti, è difficile capirlo; ma tant'è, molti suoi critici non cessano di affermare che la neghi. Vediamo un po' più da vicino la non facile questione.

3. Interpretazione universalistica di1 Tim 2,4

Lasciando da parte le prime citazioni del testo paolino fatte incidentalmente senza commento 11 e corrispondenti al periodo in cui Agostino riteneva che l'inizio della fede era opera dell'uomo - posizione che sarà poi quella dei semipelagiani 12 -, esaminiamo il celebre testo del De spiritu et littera 33,57-58.
Il contesto è chiaro: da dove deriva in noi la buona volontà di credere? Se dalla natura, com'è che non tutti credono se uno solo è Dio creatore di tutti? Se poi è un dono di Dio, com'è che non lo ricevono tutti - infatti non omnium est fides 13, ripete Agostino con S. Paolo 14 - quando Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e raggiungano la cognizione della verità 15 ? Spiega: l'uso buono della volontà è un dono di Dio, ed è certo altresì che " Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati ed arrivino alla conoscenza della verità, ma senza togliere tuttavia ad essi il libero arbitrio, del cui uso buono o cattivo saranno giudicati con assoluta giustizia " 16.
V'è qui una difesa del libero arbitrio e insieme la difesa del potere di Dio sull'uomo. L'autore si fa un dovere di asserire e di dimostrare lungamente che anche chi opera contro la volontà di Dio non sfugge alla volontà di Dio, la quale pertanto semper invicta est.
Ho spiegato sopra il significato di queste parole 17. Ma v'è anche l'affermazione del volere di Dio di salvare tutti gli uomini: quell'omnes qui significa veramente omnes, cioè ha un senso universalistico innegabile.
Eppure due osservazioni s'impongono. Immediatamente prima di scrivere queste parole, nel De peccatorum meritis et remissione, ne aveva scritte altre intorno all'omnes di Rom 5,18, interpretandolo nel senso dell'universalismo causale, cioè in senso restrittivo 18. Poco dopo, nell'opera che stiamo esaminando, propone il mistero della predestinazione in forza del quale uno è attratto con " azione suasiva che diventa persuasiva, un altro no ". Di fronte ad esso ricorre ai soliti due testi biblici: O profondità della ricchezza19, e: C'è forse iniquità presso Dio20 e rimanda quelli che non si contentassero di questa risposta ai più dotti, ammonendo però del pericolo di incontrare dei presuntuosi 21.
Nonostante tutto questo, interpreta il testo paolino 1 Tim 2,4 in un senso apertamente universalistico; ma dicendo subito dopo che Dio condanna secondo giustizia coloro che non hanno voluto credere, lascia supporre che circa la volontà divina di salvare tutti gli uomini c'è da fare una distinzione. Agostino non l'ha fatta, ma non per questo non l'ha sottintesa. Volontà antecedente e conseguente? Volontà condizionata ed assoluta? Si dice: distinzioni posteriori. Bene. Ma qui Agostino ne suppone una. Quale? La più vicina al suo pensiero mi sembra questa: volontà operativa e volontà permissiva. Dio vuol tutti salvi e opera in tutti con azione " suasiva ", ma non a tutti dà la grazia persuasiva; permette infatti che alcuni, abusando della loro libertà, ricusino di credere e si perdano: su di essi esercita la sua giustizia.
Su questo passo agostiniano si è scritto molto, e non sempre a proposito: chi ci vede troppo - vuol fondarci tutto un sistema teologico sulla grazia -, chi non ci vede nulla 22. Giansenio, poi, lo considera non di Agostino ma di Pelagio nel cui nome Agostino starebbe parlando 23. Ad altri infine non interessa affatto perché anteriore al 418, quando il vescovo d'Ippona avrebbe cambiato opinione passando da una interpretazione universalistica a quella restrittiva 24. Credo che si stia esagerando: il passo, mai ritrattato o corretto, suona come suona e in quel senso bisogna capirlo.
Del resto non è l'unico. Nella risposta a Paolino del 415 ritorna nello stesso senso universalistico con due aggiunte preziose: la Chiesa deve pregare pro omnibus hominibus; la salvezza di tutti gli uomini che Dio vuole è legata alla partecipazione alla mediazione del Cristo. Dopo aver ricordato che la Chiesa deve pregare per tutti gli uomini, anche per quelli dai quali soffre persecuzione, ne aggiunge la ragione: Questo è buono e gradito a Dio, Salvatore nostro, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla piena conoscenza della verità 25. Ma queste parole, continua, non si attuano se non per mezzo di Cristo: " l'affermazione di Paolo: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi non si attua in nessun altro modo se non per mezzo del Mediatore Gesù Cristo, non in quanto Dio e nello stesso tempo Verbo eterno, ma in quanto uomo, poiché il Verbo si fece carne ed abitò in mezzo a noi " 26. Che poi Agostino dica nel contesto che le membra di Cristo devono essere raccolte ex omni genere hominum, non è una restrizione del vult omnes salvos fieri, ma un'esigenza del discorso generale che sta facendo, che è la salvezza dei giudei.
Del resto dopo qualche anno usa la stessa espressione perché il contesto del discorso lo esige. Dopo aver accennato ai martiri, alle vergini, agli sposati, alle vedove, se ne esce con questa bella esortazione: Prorsus, dilectissimi, nullum genus hominum de sua vocatione desperet. E ne dà la ragione avvicinando due testi che costituiscono il fondamento della grande speranza di tutti gli uomini: Pro omnibus passus est Christus 27. Veraciter de illo scriptum est: Qui vult omnes homines salvos fieri et in agnitionem veritatis venire 28. Si noti quel veraciter che non è messo a caso, si noti l'avvicinamento dell'altro testo su cui Agostino ha basato l'universalità della redenzione e perciò l'universalità del peccato originale. Il significato universalistico che egli dà al testo di 1 Tim 2,4 non può essere messo in dubbio. Eppure...

4. Un cambiamento di esegesi, non di teologia

Eppure da un certo momento cambia l'esegesi di questo testo. Questo momento può essere indicato intorno al 421, data del Contra Iulianum. Perché il cambiamento? Non sembra esservi dubbio: i pelagiani cominciarono a servirsi di quel testo per rafforzare la loro dottrina. Vi ho accennato sopra. Fu allora che, riflettendo, Agostino si convinse che, salve le regole del linguaggio umano, si poteva intendere come altri testi biblici nei quali ricorre l'omnes 29, benché poi, in realtà, l'omnes non si verifica, perché non tutti sono illuminati da Cristo, non tutti sono vivificati in Cristo, non tutti ricevono la giustificazione da Cristo. Vediamone alcuni passi.
Per primo indicherei quello dell'Enchiridion, un'opera quasi contemporanea al Contra Iulianum. E' un'esposizione breve, precisa e profonda della dottrina cattolica: appunto un manuale. Per l'argomento che ci riguarda il taglio del pensiero agostiniano è quello dell'onnipotenza del volere divino 30. Perciò, conclude, quando leggiamo che Dio vuol tutti gli uomini salvi, e tuttavia sappiamo che non tutti si salvano, non dobbiamo togliere qualcosa all'onnipotenza divina, " ma intendere ciò che è scritto: il quale vuole che tutti gli uomini siano salvi, come se dicesse: nessun uomo si salverà se non colui che egli vuole che si salvi ", " ...e perciò, continua, si deve pregare perché voglia, perché è infallibilmente vero che avvenga se egli lo vuole " 31. Oppure bisogna intendere l'omnes homines per ogni genere di uomini - omne genus hominum - in qualunque differenza distribuito, " o in qualsiasi altro modo si possa intendere, purché tuttavia non veniamo costretti a credere che Dio onnipotente ha voluto che qualcosa fosse fatto e non è stato fatto: colui che senza alcun dubbio, come gli canta la verità, ha operato in cielo e in terra tutto ciò che ha voluto 32, certamente non ha voluto fare tutto ciò che non ha fatto " 33.
Si vede bene che qui Agostino è tutto intento a difendere la trascendenza di Dio e l'onnipotenza del suo volere; intende pertanto il vult sulla linea della volontà assoluta ed operativa e l'omnes in senso limitativo per il fatto che non tutti si salvano. Di questa onnipotenza del volere divino che non toglie la libertà ma la porta a scegliere infallibilmente il bene, ho parlato a lungo sopra 34.
Qui continuiamo con la spiegazione del passo paolino che chiama in causa il volere di Dio onnipotente. Altrove lo stesso atteggiamento e la stessa spiegazione. Anzi, qualche volta, come nella lettera a Vitale, con formule piuttosto forti, perché, secondo l'indole stessa della lettera, troppo sintetiche. Dopo aver esposto in 12 brevi proposizioni, in forma si direbbe gnomica, rette dal verbo scimus, la dottrina antipelagiana, scrive: " così l'espressione: Dio vuole che tutti gli uomini si salvino, sebbene non voglia che tanti si salvino, vuol dire che quanti si salvano, non si salvano se non perché Dio lo vuole " 35. Se Agostino avesse qui ricordato la volontà divina permissiva di cui si è detto 36 o la morte di Cristo per tutti gli uomini, di cui pure si è parlato 37, la comprensione del testo sarebbe più facile. Si deve però ricordare un testo citato sopra 38 sulla volontà permissiva, che è volontà anche se permissiva: Non fieret si non sineret; nec utique nolens sinit, sed volens 39.
Insistendo sulla stessa linea, nelle ultime opere, particolarmente in quella non facile e pur tanto importante del De correptione et gratia scrive: " E l'affermazione della Scrittura: Egli vuole che tutti gli uomini siano salvi, mentre invece non tutti si salvano, si può certo intendere in molte maniere e ne abbiamo ricordate diverse negli altri nostri opuscoli. Ma qui ne presenterò una. E' detto: Vuole che tutti gli uomini siano salvi, ma si deve intendere tutti i predestinati, perché in essi c'è ogni genere di uomini " 40.
Insiste poi nel mostrare che questo modo d'intendere il testo non esula dalle leggi del linguaggio umano. Poco dopo dà un'altra spiegazione: " Si può intendere anche così: Dio vuole che tutti gli uomini siano salvati, perché lo fa volere a noi; allo stesso modo: Mandò lo Spirito del Figlio suo a gridare: Abba, Padre! vuol dire che lo fa gridare a noi " 41.

5. Reazione dei monaci provenzali

Questa spiegazione non piacque ai monaci di Marsiglia, anzi li irritò, e reagirono. Essi partivano dal polo opposto, cioè dall'affermare quella verità che Agostino sembrava trascurare: la volontà salvifica universale. Facevano leva sul testo paolino, a cui aggiungevano, stando a Prospero, un avverbio significativo: indifferenter, che può voler dire senza eccezione o senza distinzione, cioè senza differenza tra i reprobi e gli eletti. " La bontà di Dio si manifesta nel fatto che non esclude nessuno dalla vita eterna, ma vuole indifferenter che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità " 42. Partendo da questo principio e per spiegare quell'indifferenter negavano alcuni aspetti essenziali della grazia, cioè che l'inizio della fede e la perseveranza finale fossero doni di Dio, e, per i bambini che muoiono senza battesimo - l'argomento su cui tanto insisteva Agostino -, si rifugiavano nei futuribili, voglio dire nei peccati che avrebbero commesso se fossero vissuti: per questi peccati mai commessi subivano il giudizio di condanna 43.
Queste conseguenze gravemente lesive della necessità della grazia (inizio della fede e perseveranza finale) e delle esigenze della ragione, non potevano non confermare Agostino nella sua interpretazione. Lo ripete infatti nelle ultime opere, e quasi con le stesse parole e gli stessi esempi sull'uso del linguaggio umano, con i quali nella prima sulla questione pelagiana aveva spiegato l'omnes di Rom 5,18 44. A questo omnes ne aggiunge altri e dà a tutti, compreso quello del nostro testo, un'interpretazione compatibile con il linguaggio umano e insieme con le grandi verità della fede: l'onnipotenza del volere divino, la predilezione di Dio verso gli eletti e l'esistenza eterna delle due città 45.

6. Conclusione: le due spiegazioni, in quanto al contenuto, sussistono insieme

Che dando queste spiegazioni il vescovo d'Ippona abbia avuto in mente la volontà divina assoluta, quella che si compie sempre e non fallisce mai allo scopo, è troppo evidente, e non c'è chi possa negarlo. Parimenti non c'è chi possa negare lo sforzo del dottore della grazia di tenere insieme e ridurre in sintesi le grandi verità rivelate che entrano nel mistero della predestinazione e della grazia. Ma non è questo il problema. Il problema è di sapere se in questa sintesi ha trovato posto la volontà salvifica universale, cioè, in altre parole, se le due spiegazioni del testo paolino, quella universalistica e quella restrittiva, sussistono insieme in quanto al contenuto. Nonostante la difficoltà che egli trovava - e quale teologo attento non l'ha trovata? - per la sorte dei bambini che muoiono senza battesimo, credo che si debba rispondere di sì.
Riassumendo quello che si è detto e anticipando qualcosa di ciò che resta da dire, le ragioni della risposta affermativa mi paiono queste:
1) Cristo è morto per tutti. Questa verità fondamentale Agostino l'ha messa a base, come tante volte si è detto, dell'universalità del peccato originale e, come si dirà fra poco, della via universale della salvezza che non è mai mancata al genere umano 46; nella morte di Cristo c'è il segno e l'argomento dell'amore di Dio per tutti gli uomini e quindi della volontà di salvare tutti, anche se, poi, Dio permette che alcuni si perdano: com'è il caso di Giuda, redento da Cristo, ma che la indulgentiae desperatio 47 trasse all'estrema rovina.
2) L'interpretazione universalistica del " De spiritu et littera " mai revocata e corretta. Si deve pertanto concluderne che, data la prevalente preoccupazione dommatico-polemica che indusse al cambiamento di esegesi, questo non comportava un cambiamento teologico.
3) La distinzione tra prescienza e predestinazione, fondamentale nel sistema agostiniano della grazia 48. Essa dimostra che la condanna, dovuta alla giustizia, è posteriore alla prescienza della colpa, mentre, negli eletti, la predestinazione alla grazia della salvezza precede l'atto di fede e di perseveranza.
4) La distinzione tra volontà permissiva e volontà operativa. Questa rende ragione delle due interpretazioni, ambedue vere; in quanto Dio vuole che tutti si salvino, ma permette che alcuni per propria colpa si perdano, mentre altri li conduce gratuitamente e infallibilmente alla salvezza. E' questo il punto più oscuro del mistero che tormenta Agostino: la domanda che egli si pone, cui non sa dare una risposta, l'ho accennata sopra e vi tornerò più distesamente appresso.
Intanto vorrei avvertire il lettore che partire dal principio che Dio vuole tutti salvi, per inoltrarsi, poi, nello studio del mistero della predestinazione, come hanno fatto e fanno alcuni teologi, è facile e difficile insieme: è facile perché si parte da una verità luminosa e consolante; è difficile perché si devono evitare gli errori dei pelagiani e dei monaci provenzali, che la teologia cattolica ha sempre respinti, i quali errori partirono proprio da quel principio che compresero male, cioè in modo unilaterale, e si deve dimostrare inoltre che l'elezione divina di coloro che si salvano, elezione eterna ed immutabile, non ha come presupposto il previo movimento della volontà umana ma che lo suscita e lo fonda. Non c'è soluzione facile alla dottrina della predestinazione se non fuori dell'insegnamento cattolico: quella dei pelagiani o quella dei predestinaziani, perché l'una e l'altra, anche se opposte, sono unilaterali e tolgono via il senso del mistero. Molte volte, come è stato giustamente osservato 49, si rimprovera ad Agostino quello che hanno detto concordemente, dopo di lui, tutti i teologi cattolici. La predestinazione nel suo complesso è per tutti gratuita, è per tutti, usando la nota espressione, ante praevisa merita. Le discussioni dei teologi che hanno creato e difeso sistemi diversi sulla grazia sono più sottili 50. L'aver portato Agostino dentro questi sistemi, che hanno un'impostazione e una preoccupazione diversa, facendolo assertore di questa o quella opinione, ha fatto dimenticare il fondo comune in cui questi teologi concordano fra loro e concordano altresì con il loro comune maestro.

CAPITOLO OTTAVO

IL PUNTO FOCALE DEL MISTERO DELLA PREDESTINAZIONE

Seguendo dunque ancora per un po' Agostino che medita sulla gratuità della grazia e quindi sul mistero della predestinazione, domandiamoci quale sia per lui il punto focale di questo mistero. La risposta in breve l'ho già data, ma giova motivarla in un'esposizione più ampia.

1. In che cosa non consiste

Per sgombrare il terreno da possibili fraintendimenti diciamo prima di tutto in che cosa non consiste. La risposta è contenuta in tre proposizioni negative.
1) Non consiste nel sapere se la misericordia di Dio si estenda a tutti gli uomini. Questo è fuori dubbio e ne è argomento Cristo, via universale di salvezza. Questa tesi, cara ad Agostino che la difende contro Porfirio, non significa soltanto che nessuno si salva senza Cristo - affermazione, questa, che il nostro dottore fa in modo netto e perentorio 1 -, ma anche che questa via è offerta a tutti.
Infatti:
a) questa via opera nella Chiesa e fuori della Chiesa: Agostino parla " dell'essere nella Chiesa dentro e fuori " 2;
b) opera dopo la venuta di Cristo e ha operato prima 3;
c) ha operato dentro e fuori del popolo d'Israele 4;
d) ha operato prima della costituzione del popolo d'Israele 5;
e) è una via che " non è mai mancata al genere umano " 6, e che ha avuto il suo primo frutto in Abele, l'innocente ucciso dall'empio fratello, con cui ebbe inizio la Chiesa: ab ipso Abel... usque in huius saeculi finem 7.
Una visione schiettamente universalistica della salvezza cristiana: non occorre dirlo. La teologia posteriore poteva sviluppare da essa le sue conclusioni, come ha fatto 8. Senza dubbio Agostino esige in tutti, per la salvezza, la fede nel Cristo mediatore 9 affinché tutti diventino partecipi della Christi societas senza la quale non è possibile essere salvi 10; ma questa condizione, lasciando da parte il modo come si avveri, non c'è nessuno che, senza ricusare il principio generale, possa ricusarla. " Senza la fede in Cristo, esclama Agostino, nessuno dei mortali fu, è, potrà mai essere giusto " 11. Ma andiamo avanti con le proposizioni negative.
2) Non consiste nel sapere se quelli che si perdono, si perdano per propria colpa. Anche qui non vi sono dubbi. Lo abbiamo visto sopra a proposito del principio a cui tante volte Agostino si appella: Non c'è iniquità presso Dio 12. Rimando a quelle pagine. Continuiamo invece con le proposizioni negative.
MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 17:59
3) Non consiste nel sapere se Dio dà a tutti la grazia necessaria per salvarsi. Anche di questo si è detto sopra 13, ma non sarà inutile insistervi ancora un poco. C'è un testo nella Scrittura che costituiva il cavallo di battaglia di Giuliano contro Agostino - come lo costituirà, poi, per tutti coloro che nei diversi sistemi sull'aiuto della grazia si faranno prima di tutto difensori della libertà -: il lamento di Dio sull'incredulità di Gerusalemme. " Gerusalemme, Gerusalemme,... quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli... e non hai voluto " 14. Agostino commenta: " E' certo che Gerusalemme non volle che i suoi figli fossero raccolti da Dio " 15, mentre Dio è diventato in Cristo, come la chioccia, infermo con gli infermi per salvarli 16, perciò: la vostra casa vi sarà lasciata deserta 17. Su questo versante della libertà che resiste alla grazia non c'erano dubbi per Agostino: egli era d'accordo con il suo avversario. E i suoi commentatori dovrebbero esserlo con lui. Ma dove Giuliano non era più d'accordo - e forse non lo sono più alcuni commentatori di Agostino - è l'altro versante su cui egli insisteva, quello dell'onnipotenza del volere divino. Nello stesso contesto infatti egli continua: " come è certo che Gerusalemme non volle che i suoi figli fossero raccolti da Dio - e resistette pertanto al volere di Dio -, così è certo che Dio raccolse da Gerusalemme, nonostante la sua resistenza, i figli che volle " 18, " perché Dio ha fatto quel che ha voluto in cielo e in terra " 19.
C'è qui un'importante distinzione tra la volontà divina che permette alla libertà umana di seguire le proprie vie anche quando siano contrarie a quelle dei piani divini, e la volontà divina che, vincendo ogni resistenza umana, conduce l'uomo infallibilmente alla salvezza. Agostino spiega la ragione della prima " Spesso, dice, la Scrittura interpella la volontà dell'uomo... ", ma insiste sulla seconda, che era il pomo della discordia, portando l'esempio della conversione di S. Paolo, dalla quale ci viene un ammonimento a scoprire la grazia: agnosce gratiam. " Riconosci la grazia; - dice Agostino a Giuliano Dio, secondo la sua degnazione, chiama uno così e un altro così; e lo Spirito spira dove vuole " 20. Sarà bene ricordare alcune delle cose dette altrove 21, che trovano qui la loro applicazione, e ci aiutano non certo a sciogliere il mistero ma a trovare quale ne sia, secondo Agostino, il punto preciso.

2. In che cosa consiste

Questo punto è precisamente il seguente: perché mai Dio che, salva la libertà dell'uomo - l'apostolo Paolo non aderì alla grazia senza la sua libera volontà 22, può convertire ognuno e condurre tutti alla salvezza, non lo fa, ma permette che alcuni si perdano?
Questa domanda lo angustia, lo tormenta, e non sa evitarla: le grandi verità ricordate sopra la impongono inequivocabilmente 23. Confessa con grande umiltà di non saper rispondere, e rimanda gli interlocutori importuni ai più dotti, non senza ammonirli però del pericolo di trovare non i dotti ma i presuntuosi 24.
Su questo stesso punto pone il fulcro del mistero della predestinazione l'ignoto autore del De vocatione omnium gentium. Non voglio discutere qui né del suo autore né della supposta mitigazione che egli proporrebbe dell'agostinismo. In ogni modo l'importanza dell'opera, scritta pochi anni dopo la morte di Agostino, non può sfuggire a nessuno 25. Voglio dire soltanto che egli, pur insistendo, e a buon diritto, sul testo 1 Tim 2,4 (Dio vuole che tutti gli uomini si salvino), pone il problema come lo poneva lo stesso Agostino: " cur non omnes homines salvet qui omnes homines vult salvos fieri? E' una questione - continua - su cui non si deve discutere, perché non si può comprendere. Basti sapere che presso Dio non c'è iniquità 26 e che Dio, le cui vie sono misericordia e giustizia 27, creatore buono e ordinatore giusto di tutti gli uomini, non condanna nessuno senza che sia debitore, non libera nessuno per proprio merito " 28. La stessa impostazione, gli stessi pensieri, le stesse parole di Agostino. Solo che questi, Agostino, invece di far leva su 1 Tim 2,4 che interpreta, come si è detto, della volontà operativa o efficace per togliere ai pelagiani l'occasione di abusarne, fa leva su 2 Cor 5,14: Cristo è morto per tutti. Il suo problema perciò era: come mai non salva tutti Colui che ha mandato il suo Unigenito perché morisse per la salvezza di tutti?
Rispondere a questa domanda appellandosi alla libertà dell'uomo non basta, perché la libertà, dono di Dio, non è un ostacolo a Dio che l'ha nelle sue mani e, nel bene, può volgerla come vuole. Nel bene, ho detto, perché non si ripeterà mai abbastanza che Dio non induce nessuno al male. Pertanto chi si fermasse alla risposta della libertà umana, meriterebbe la sua compassione, paterna e sorridente, ma compassione. Il problema è più alto e, se si vuole, più profondo. Per questo il nostro dottore, pur dopo aver detto ripetutamente di non avere una risposta da dare, se non quella dell'imperscrutabilità del disegno di Dio e dell'assenza in Dio di ogni iniquità, s'impegna nel prospettare la storia della salvezza, così ricca di luci e di ombre, di perfidia e di misericordia; perfidia nell'uomo che pecca, misericordia di Dio che redime.

3. Massa dannata e massa redenta

La prospettiva agostiniana ha il suo centro nella teoria della massa dannata e della massa redenta, di cui ho parlato altrove 29. Ma qui le due espressioni non vengono usate per indicare la duplice solidarietà, negativa una e positiva l'altra, che lega tutti gli uomini ad Adamo e a Cristo, bensì come motivo per illustrare in qualche modo il mistero della predestinazione. Se non che egli non insiste, come altrove, nei due concetti insieme unus et unus; omnes et omnes, ma nel primo soltanto, creando in tal modo una difficoltà per gli interpreti del suo pensiero. Dice in sostanza: Dio, permettendo il peccato di Adamo, ha voluto mostrare che cosa possa il libero arbitrio. Diventati tutti gli uomini in Adamo, nel quale erano e col quale costituivano una sola persona, soggetti alla morte e al peccato, appunto una massa dannata, Dio mostra che cosa possa la sua misericordia in coloro che sceglie e conduce alla salvezza e che cosa esiga la sua giustizia in coloro che si perdono, di modo che i primi vedano nella sorte dei secondi quale sarebbe stata la loro stessa sorte se la misericordia divina non li avesse prevenuti. Così spesso 30. Qualche esempio. Nella Lettera 194 propone la difficoltà dei pelagiani e risponde: " Ma è ingiusto, obiettano costoro, che in un processo per una medesima colpa, uno venga assolto e l'altro punito. Sì, senza dubbio sarebbe giusto che fossero puniti entrambi; chi oserebbe negarlo? Ringraziamo dunque il Salvatore per il fatto che vediamo bene che non subiamo il castigo meritato, che sappiamo sarebbe dovuto essere inflitto anche a noi dalla condanna di individui simili a noi. Se infatti fossero salvati tutti indiscriminatamente, non sarebbe messo in risalto che cosa merita il peccato in base alla giustizia e, se non venisse salvato alcuno, non verrebbe messo in risalto che cosa largisca la grazia ". Dopo aver detto inoltre che in questa " difficilissima questione " non c'è nulla di meglio da fare che ascoltare l'Apostolo 31, riprende: " E poiché tutta questa massa è giustamente dannata, Dio rende il disonore meritato in virtù della giustizia e concede l'onore immeritato in virtù della grazia, non già di un privilegio dovuto al merito o per l'ineluttabilità del fato né per un cieco capriccio della fortuna, ma solo a causa dell'abissale ricchezza della sapienza e della scienza di Dio " 32. Nel De dono perseverantiae, poi, scrive: " Dunque non dobbiamo essere ingrati, perché secondo quanto piacque alla sua volontà per lodare la gloria della sua grazia Dio misericordioso libera molti da una perdizione talmente meritata che se non risparmiasse nessuno non sarebbe ingiusta. Per colpa di uno solo tutti hanno subìto un giudizio di condanna; e questo non è ingiusto, ma anzi è perfettamente giusto. Dunque chi ne viene liberato, abbia cara la grazia; chi non ne viene liberato, riconosca il suo debito. Se la nostra intelligenza riconosce nella remissione del debito la bontà, nell'esigerlo la giustizia, mai in Dio si troverà l'ingiustizia " 33.
Su questi ed altri testi, alcuni interpreti puntano il dito e, interpretandoli in senso predestinaziano, ripetono l'accusa antica; e cioè: Dio secondo il suo beneplacito " separa " dalla massa dannata gli eletti e lascia in essa tutti gli altri, senza nessuna possibilità di salvezza, privi come sono delle grazie necessarie per salvarsi.
Ma questa interpretazione, che legge alcuni testi agostiniani e ne dimentica altri, mutila il pensiero del vescovo d'Ippona della sua parte migliore: la redenzione. L'umanità è, sì, a causa del primo uomo, una massa dannata, cioè soggetta al peccato e alla perdizione; ma è anche, a causa dell'opera redentrice del secondo uomo, una massa redenta, cioè riconciliata a Dio nel sangue di Cristo. La redenzione di Cristo è il momento eterno dell'amore di Dio verso gli uomini, verso tutti gli uomini. Terminando il De correptione et gratia, che suscitò lo sdegno dei monaci provenzali, i quali l'interpretavano appunto in senso predestinaziano, scrive: " E chi amò i deboli più di Colui che si fece debole a vantaggio di tutti, e a vantaggio di tutti per la sua debolezza fu crocifisso? " 34.
Certamente Dio poteva non redimere il genere umano; ed è proprio questo che vuol dire Agostino quando scrive ripetutamente che, se non avesse liberato nessuno, non avrebbe meritato l'accusa di essere ingiusto 35. Infatti se la condanna è giusta, la non liberazione da essa non può essere ingiusta. Ma Dio misericordiosamente ha redento il genere umano facendone una massa riconciliata a sé in Cristo. Perché dunque non salva tutti se ha redento tutti? La solita risposta: perché non tutti vogliono, è vera; ma non basta. E' vera; e Agostino la ripete spesso: deserunt et deseruntur 36; ma non basta, perché la difficoltà sta più in alto. Lo abbiamo detto. Perché Dio, che può, non converte a sé tutte le volontà degli uomini per i quali Cristo è morto? Dio che è Padre?
A questo punto il dottore della grazia ricorre all'economia della salvezza che comprende insieme due momenti:
1) permettere che il libero arbitrio seguendo se stesso abbandoni Dio, incorra nel male e abbia l'evidente dimostrazione di ciò che è capace di fare;
2) dimostrare che cosa possano la misericordia divina che perdona e la giustizia divina che infligge la pena dovuta.
Lo dice in un passo centrale del suo La correzione e la grazia. Dopo aver ricordato il principio universale: Dio permette il male perché è tanto onnipotente e buono da ricavare il bene dal male, continua così: " dunque dette alla vita degli angeli e degli uomini un ordinamento tale da dimostrare in essa in primo luogo quale potere avesse il loro libero arbitrio, in secondo luogo quale potere avesse il beneficio della sua grazia e il giudizio della sua giustizia " 37.
I due momenti qui ricordati sono la conseguenza di due dati di fede, da cui Agostino ha cura di non allontanarsi mai. Questi dati sono:
1) l'uomo, pur creato retto e senza difetto, si ribellò a Dio, commise un peccato immensamente grande e trasse nel peccato tutti gli uomini;
2) i discendenti di Adamo, per quanto peccatori, raggiungono, almeno alcuni, la salvezza per mezzo di Cristo.Meditando su questi dati scrive: " A chi era fortissimo lasciò e permise di fare quello che volesse; per i deboli ebbe cura che, grazie al suo dono, invincibilmente volessero ciò che è bene e invincibilmente non volessero abbandonarlo " 38.
Nel De civitate Dei, rispondendo alla nota difficoltà: perché Dio abbia creato l'uomo se sapeva che avrebbe peccato, difende l'economia divina con queste parole: " Perché dunque Dio non avrebbe potuto creare coloro di cui ha previsto il peccato, dal momento che in loro e attraverso di loro poteva mostrare quello che meritava la loro colpa e quello che donava la sua grazia, mentre sotto la sua opera creatrice e ordinatrice il disordine perverso dei colpevoli non avrebbe potuto capovolgere il giusto ordine delle cose? " 39.
E' vero che parlando della predestinazione Agostino torna sempre sul concetto di massa dannata, ma c'è una ragione, ed è questa: quel concetto entra come un elemento essenziale nell'economia divina della grazia. Dio infatti diede al primo uomo il libero arbitrio, retto, sano e forte; ciò nonostante egli, commettendo un gravissimo peccato d'orgoglio, si ribellò a Dio e trasse nel peccato e nella perdizione tutto il genere umano. Dio, pura misericordia, ha mandato il suo Figlio per riconciliare a sé in Cristo tutti gli uomini; fare cioè di quelli che erano una massa dannata una massa redenta. Ma questo non vuol dire che tutti gli uomini si salvino, ma solo che per tutti è stata riaperta la possibilità della salvezza. Che non tutti gli uomini si salvino lo insegna la fede: si ricordi la dottrina delle due città 40. Come pure la fede insegna che si salvano solo gli eletti, cioè quelli che per disegno misericordioso di Dio vengono uniti efficacemente ed indissolubilmente a Cristo, e perciò - spiega Agostino - " separati " dalla massa di perdizione, la quale, nonostante l'opera redentrice di Cristo, resta tale finché ognuno non diventi partecipe della redenzione. Si sa infatti che Cristo è morto per tutti - Agostino lo ripete senza posa -; ma per i singoli non muore se non quando ognuno riceve i frutti della sua morte. Anche questo Agostino dice esplicitamente. " Pur essendo morto una sola volta, tuttavia muore singolarmente per ciascuno, quando, in qualsiasi età, uno è battezzato nella sua morte. In altre parole, la morte di Colui che fu senza peccato porta giovamento a chi era morto nel peccato, quando, battezzato nella sua morte, anch'egli morirà al peccato " 41.
Il ricorso alla massa dannata non è che una forte sintesi d'una vastissima dottrina. Non vuol dire che i non eletti, cioè i non " separati " da quella massa, non partecipino affatto ai frutti della redenzione di Cristo: vi partecipano, e spesso in larga misura: molti hanno ricevuto la fede, la remissione dei peccati, la grazia di una buona vita cristiana; tutti frutti, appunto, della redenzione di Cristo. Ma Dio, nella sua eterna prescienza, sa che abbandoneranno la retta via e morranno in questo abbandono. Si ricordi un particolare molto importante: Agostino applica lo stesso principio ad Adamo prima del peccato e a tutti gli uomini - la massa dannata - dopo il peccato: deseruit et desertus est; deserunt et deseruntur 42. Questi li dice non " separati " dalla massa non perché non siano stati veri fedeli o non veri e buoni cristiani, ma perché non lo saranno fino alla fine. Dio vede nell'eternità, e Agostino, scrivendo, si pone dalla parte di Dio.

4 Pauci et multi

Vorrei terminare questo excursus con un accenno al numero degli eletti. La teoria agostiniana può non piacere, ma è quella che è, e non bisogna ignorarla. Agostino aderisce letteralmente alla Scrittura. Vi legge che coloro che si salvano sono pochi, e lo dice; vi legge che sono molti, e ripete che sono molti. Poi spiega: pochi e molti, quelli stessi che son pochi sono molti: " pochi in comparazione di quelli che si perdono, molti nella società degli angeli " 43. Che siano pochi lo legge in Lc 13,23 e in Mt 7,14, dove si parla della porta angusta della salvezza e dei pochi che vi entrano; che siano molti lo legge nell'Apoc 5,11, dove si descrive la " grande moltitudine che nessuno può numerare ", e in Mt 8,11, che riporta le parole di Gesù: " Molti verranno dall'Oriente e dall'Occidente ". Dunque i pochi faranno una grande massa: magnam massam facturi sunt: è la massa sanctorum, la massa purgata 44. Inutile dire che la parola massa, come risulta chiaro in questi testi, non ha per Agostino nulla di dispregiativo o di negativo 45. Dal genere umano giustamente e meritatamente condannato, Dio si elegge una " famiglia santa e numerosa " 46.
Val la pena di notare che quando la Scrittura non dà indicazioni, il vescovo d'Ippona pensa spontaneamente al maggior numero di quelli che si salvano, come nel caso degli angeli, dei quali " longe maior numerus conserva nei cieli l'ordine della sua natura "; non è vero dunque che " tutto è pieno di peccati per il fatto che si è peccato " 47. L'ottimismo agostiniano qui appare evidente: egli sa dalla Scrittura che gli angeli hanno peccato, ma, non avendo da essa altre indicazioni, pensa che quelli che hanno peccato siano stati una minoranza, e una minoranza non cospicua.

CAPITOLO NONO

LA DOTTRINA DELLA PREDESTINAZIONE E L'AZIONE PASTORALE

A questo punto non mi resta che richiamare l'attenzione del lettore sull'aspetto pastorale della dottrina circa la gratuità della grazia o, che è lo stesso, della predestinazione: è molto importante, anzi fondamentale. Agostino prima di tutto e soprattutto è un pastore e perciò un maestro di vita spirituale. Se interviene nelle controversie lo fa per conservare intatta l'integrità della fede, ma insieme per salvaguardare i fondamenti della genuina pietà cristiana. E' teologo ed è vescovo: non discute per discutere, ma per compiere il dovere pastorale di guidare i suoi fedeli e quanti, nella Chiesa universale, cui pur si sente debitore, vorranno leggere i suoi scritti.
Troppo spesso si pensa che la gratuita elezione della grazia o la predestinazione quale l'ha proposta il vescovo d'Ippona porti inevitabilmente all'inazione, al fatalismo, alla disperazione. O questa dottrina, si dice, non è vera o, se lo fosse, sarebbe meglio tacerla. Così pensarono i monaci di Marsiglia, e lo ridissero assai vivacemente; così molti dopo di loro, fino ai nostri giorni. Il maestro d'Ippona era di parere diverso; tanto diverso che vide in questa dottrina il fondamento dommatico della preghiera, la salvezza sicura della speranza, l'incentivo potente all'azione, alla fiducia, alla pace. Vale la pena di sentirne le ragioni. Eccole.

1 Predestinazione e preghiera

Cominciamo dalla preghiera. Si sa che Agostino fu il dottore della preghiera perché fu il dottore della grazia. Non mi riferisco alla natura, all'interiorità, alla gradualità, alla modalità, alla cristicità della preghiera, aspetti tutti che mise ampiamente in rilievo 1, ma alla necessità che deriva appunto dalla necessità della grazia.
1) Necessità della preghiera. Si sa che, pur partendo dallo stesso principio, i pelagiani ed Agostino arrivavano a conclusioni diverse. Il principio era questo: Dio non comanda l'impossibile. Dunque, concludevano i pelagiani, non è necessaria la grazia per osservare i comandamenti di Dio. Dunque, concludeva Agostino, è necessaria la preghiera per ottenere la grazia che ne rende possibile l'osservanza. " Dio, scrive il nostro dottore, non comanda le cose impossibili, ma comandando ti ammonisce di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi " 2; e ti aiuta perché tu possa. Dio infatti non abbandona se non è abbandonato: non deserit nisi deseratur 3. All'inizio dell'ultima opera riassumendo la sua dottrina abituale scrive: " La Scrittura spesso interpella la volontà dell'uomo perché, ammonito, senta ciò che non ha o non può, e, trovandosi indigente, lo chieda a Colui da cui procede ogni bene " 4. Nella stessa opera, poi, poco prima di cessar dal dettare - l'opera è restata incompiuta - enuncia questa regola generale: " noi combattiamo più con la preghiera che con le [nostre] forze, poiché queste stesse forze, quante ce ne sono necessarie, le somministra a chi combatte Colui che noi preghiamo " 5. Agostino non dubita che i pelagiani neghino la necessità della preghiera di domanda, ut non peccemus 6. " Costoro attribuiscono tanto potere alla volontà da togliere alla pietà la voce della preghiera " 7. Perché questa voce non tacesse nella Chiesa, il dottore della grazia leva forte e insistente la sua. Anche la dottrina della predestinazione si risolve per lui in una esortazione costante alla preghiera.
2) Preghiera per la propria conversione. Prima di tutto occorre pregare perché Dio ci attiri con la sua grazia e ci converta. Si sa quale posto occupino nel sistema agostiniano della grazia le parole di Gesù: Nessuno viene a me, se non lo attira il Padre 8. Queste parole divine si traducono per Agostino in un'esortazione alla preghiera. Commenta infatti: " Mirabile esortazione della grazia! Nessuno può venire se non è attratto. Se non vuoi sbagliare, non pretendere di giudicare se uno è attratto o non è attratto, né di stabilire perché viene attratto questo e non quello. Cerca di prendere le parole come sono e cerca d'intenderle bene " 9. Ripensiamo spontaneamente al da quod iubes et iube quod vis delle Confessioni 10, preghiera stupenda che ebbe il suo commento nelle prime opere sulla controversia pelagiana, dove all'ammonimento di Dio: Convertitevi a me e io mi convertirò a voi, siamo esortati a rispondere: Convertici, o Dio, nostro Salvatore 11.
3) Preghiera per la propria perseveranza. Non basta la preghiera per la conversione, occorre pregare per la perseveranza. E' bene ricordare a questo proposito un principio generale che Agostino enuncia così: " si sa che Dio ha preparato di dare alcuni doni anche a chi non prega, come l'inizio della fede; altri invece soltanto a chi prega, come la perseveranza finale " 12. La perseveranza finale dunque è un grande dono di Dio - magnum Dei donum 13 -; un dono che non si può meritare con le buone opere - lo abbiamo detto sopra 14 -, ma si può (e si deve) ottenere supplichevolmente, cioè con la preghiera: suppliciter emereri potest 15. Da questa convinzione l'insistenza agostiniana sulla necessità della preghiera per ottenere il dono della perseveranza che assicura la salvezza.
Interessante il commento al Padre nostro in chiave di perseveranza che Agostino riprende da Cipriano, mostrando che in tutte le petizioni, eccetto la quinta, c'è la richiesta di questo dono ineffabile. Infatti:
1. La prima petizione: sia santificato il tuo nome, santificato in noi e da noi, pronunciata da coloro che sono stati già santificati dalla grazia, che altro significa se non che essa, questa santificazione, perseveri in noi? Aveva scritto Cipriano: " Preghiamo perché questa santificazione permanga in noi... questo chiediamo di giorno e di notte: che la santificazione e la restituzione alla vita che si riceve dalla grazia di Dio venga conservata dalla sua protezione ". Agostino commenta: " Il nostro dottore intende che noi chiediamo a Dio la perseveranza nella santificazione, in altre parole che noi perseveriamo nella santificazione quando da santificati diciamo: Sia santificato il nome tuo. Che può significare il chiedere ciò che abbiamo ricevuto, se non che ci sia concesso anche questo, che non cessiamo di possederlo? " 16.
2. Vale lo stesso per la seconda petizione: " Quando diciamo: venga il tuo regno, nient'altro chiediamo se non che venga anche per noi quel regno che senza possibilità di dubbio verrà per tutti i santi. Dunque quelli che già sono santi che cosa chiedono con questa frase, se non che rimangano in quella santità che è stata loro concessa? " 17.
3. Non diversa, anche se più difficile, la spiegazione della terza petizione. I fedeli - i " santi " - che fanno la volontà di Dio, quando dicono nella preghiera: sia fatta la tua volontà, che altro chiedono se non di perseverare in ciò che hanno cominciato ad essere? " Se dunque a pregare così sono i santi, è evidente che questa loro preghiera ha per oggetto la perseveranza, perché nessuno perviene a quella somma beatitudine che è nel Regno, se non ha perseverato fino alla fine in quella santità che ha acquistato sulla terra " 18.
4. Nella quarta petizione la richiesta della perseveranza è ancora più chiara se intendiamo, come Cipriano ed Agostino intendevano, il pane quotidiano per l'Eucaristia. Dice fra l'altro Cipriano: " Chiediamo che ci sia dato ogni giorno questo pane affinché, noi che siamo in Cristo e ogni giorno riceviamo l'Eucaristia come cibo della salvezza, non siamo separati dal corpo di Cristo ". Commenta Agostino: " Queste parole del santo uomo di Dio indicano pienamente che i santi chiedono al Signore la perseveranza, perché dicono: Dacci oggi il nostro pane quotidiano, con questa intenzione: che non siano separati dal corpo di Cristo ma rimangano in quella santità e grazie ad essa non commettano alcuna colpa che meriti la loro separazione " 19.
5. La quinta petizione è l'unica nella quale non si chiede il dono della perseveranza, ma solo la remissione dei debiti che abbiamo contratto con le nostre colpe: " in questa sola richiesta non si trova che domandiamo la perseveranza " 20, mentre questa richiesta è evidente ed insistente nella sesta.
6. Ma quando i santi dicono: Non indurci in tentazione, ma liberaci dal male, che altro chiedono se non di perseverare nella santità? Una volta concesso loro questo dono di Dio ...di non essere indotti in tentazione, non ci sarà nessuno fra i santi che non mantenga fino alla fine la perseveranza nella santità " 21. Val la pena di ricordare che questa petizione del Padre nostro era stata il cavallo di battaglia per dimostrare la necessità della grazia contro i pelagiani 22, e qui svolge lo stesso compito per dimostrare la necessità della preghiera per ottenere il dono della perseveranza. Scrive poco appresso per rispondere a una difficoltà dei monaci di Marsiglia - ho riportato sopra le sue parole 23, ma giova ricordarle anche qui -: " Si dice: ciascuno abbandona Dio di propria volontà, e così merita di essere abbandonato da Dio ". Era questa la difficoltà di quei monaci. Agostino risponde: " E chi lo potrà negare? Ma è per questo che chiediamo di non essere indotti in tentazione, perché l'abbandono non avvenga. E se siamo esauditi, questo certo non avviene, perché Dio non permette che avvenga " 24.
Ho voluto citare larghi squarci di questo singolare commento al Padre nostro perché apparisse chiaro fino a che punto Agostino insiste nel dovere della preghiera per ottenere il dono della perseveranza. Conclude il commento al Padre nostro con queste parole: " Se anche non ci fossero altre testimonianze, questa orazione domenicale basterebbe da sola alla causa della grazia che noi sosteniamo, perché nulla essa ci ha lasciato in cui ci possiamo gloriare come fosse nostro. In realtà anche il fatto di non allontanarci dal Signore, l'orazione dimostra che non viene concesso se non da Dio, poiché dichiara che a Dio dev'essere chiesto " 25.
4) Preghiera per la perseveranza degli altri. Infatti non basta pregare per la perseveranza propria, ma occorre pregare anche per quella degli altri. Ora questa preghiera, sia per il dono della fede che per quello della perseveranza finale, rientra nei piani della predestinazione divina. A proposito del primo dono Agostino enuncia questo principio generale: " Se alcuni non sono stati ancora chiamati, preghiamo per loro affinché siano chiamati. Può darsi che siano predestinati in questo modo: che la loro salvezza sia stata rimessa alle nostre preghiere e che essi attraverso le preghiere ricevano la grazia per la quale vorranno essere eletti e lo saranno " 26.
La predestinazione dunque non esclude l'azione umana - in questo caso la preghiera - ma la include, e a tal punto, che essa, la preghiera, entra nei piani stessi divini. Altrove, nel contesto della spiegazione di 1 Tim 2,4 27, dice arditamente: " Dio dev'essere pregato perché voglia, poiché se vuole sarà fatto ciò che vuole: rogandus est ut velit, quia necesse est fieri si voluerit " 28.
Qualcuno pensa che qui si tratti della carità del vescovo d'Ippona, non della sua teologia, perché questa, nel nostro caso, sarebbe contraria a quella: una, la teologia, racchiusa in limiti angusti; l'altra, la carità, spaziante su immensi orizzonti. Un'attenzione maggiore e un po' più di teologia avrebbe fatto scoprire che l'opposizione non c'è: gli spazi della carità sono gli stessi della teologia e viceversa. Non è lo stesso Agostino che dice di aver ottenuto il dono della conversione per le lacrime di sua madre? E non lo dice usando la stessa espressione usata per enunciare la regola generale: concedere alle preghiere? " Non vi ricordate che (nelle mie Confessioni) ho narrato [le cose] in modo da mostrare che fu concesso, perché non perissi, alle pie e quotidiane lacrime di mia madre? " 29. Del resto il principio che la predestinazione includa le nostre preghiere e le nostre azioni è stato accolto - e non poteva essere diversamente - da tutta la tradizione teologica 30.
5) Preghiera di tutta la Chiesa. Ma sulla preghiera occorre insistere ancora perché vi insiste il nostro dottore. Si sa che egli dimostra che la perseveranza è un dono di Dio - come pure l'inizio della fede - dalle preghiere che la Chiesa fa per i fedeli e gli infedeli: questi perché credano, quelli perché perseverino. L'ho detto sopra 31. Qui giova ricordare la grande passione con cui Agostino raccomanda di pregare per la salvezza di tutti gli uomini. Rileggiamo ciò che scrive a Paolino: " Non dobbiamo tralasciare di pregare... col pretesto che, se non si ravvedono, ciò è da imputare alla loro volontà... certamente se non credono è per colpa della loro volontà... tuttavia la volontà è incapace di determinarsi a credere nella carità se Dio non la soccorre con la grazia... Preghiamo dunque per loro, santo fratello " 32. Quello che Agostino dice qui dell'inizio della fede vale per la perseveranza finale.
Raccogliamo poi l'ammonimento conclusivo del discorso ai monaci di Marsiglia. Scrive: " Non dobbiamo essere solerti nelle discussioni e pigri nelle preghiere. Preghiamo, dilettissimi, preghiamo perché il Dio della grazia conceda anche ai nostri nemici, e soprattutto ai fratelli e a quelli che ci sono affezionati, di comprendere e confessare tutto ciò " 33. E si riferisce alla dottrina esposta nel libro sul Dono della perseveranza. Agostino pastore sa essere anche patetico.

2. Predestinazione e speranza cristiana

Oltre il tema della preghiera il teologo-pastore approfondisce quello della speranza cristiana. Con quanta ricchezza Agostino abbia sviluppato il tema della speranza, propter quam unam proprie nos Christiani sumus 34 - si noti la forza di queste parole -, è conosciuto. Non poteva essere diversamente. La sua impostazione teologica è tutta rivolta verso l'escatologia. Almeno tre delle sintesi che ci ha lasciato hanno per base l'arco della speranza abbracciando la storia e la metastoria 35. Non lo seguiremo in questo sviluppo. Solo un'osservazione previa: l'insistenza sui pericoli che corre la speranza cristiana.
Questi pericoli sono essenzialmente due: la presunzione, che crede di poter fare da sé e si affida alle proprie forze, e la negligenza che dispera di ogni sforzo umano perché - dice - tanto tutto dipende da Dio. " Ci sono alcuni che la troppa fiducia nella loro volontà leva in superbia, e altri che la troppa diffidenza per la loro volontà porta alla negligenza. I primi dicono: Perché dobbiamo rivolgerci a Dio per vincere la tentazione se questo dipende da noi? Gli altri dicono: Perché dobbiamo sforzarci di vivere bene se questo dipende da Dio? ". Agostino conclude con un profondo sospiro: " O Signore, Padre che sei nei cieli, non c'indurre in nessuna di queste tentazioni, ma liberaci dal male " 36.
Infatti dall'una e dall'altra tentazione ci libera la dottrina del dono gratuito della grazia. Essa ci assicura della predilezione di Dio, che elegge e perdona, e, se da una parte esclude ogni possibile ricorso alla nostra giustizia, dall'altra non giustifica l'abuso della misericordia. Val la pena di ascoltare Agostino che inizia a commentare con uno stupendo discorso il Salmo 31. Dopo aver osservato che " l'animo, incerto e ondeggiante tra la confessione della debolezza e l'audacia della presunzione, il più delle volte è percosso da una parte e dall'altra, e tanto è sospinto che per lui inclinarsi verso qualunque parte significa [cadere in] un precipizio " 37; ammonisce gravemente di non presumere di giungere al Regno con la propria giustizia né presumere della misericordia di Dio per peccare: " Non presumere dunque di conseguire il Regno per la tua giustizia, e non presumere della misericordia di Dio per peccare " 38. " Risponderai: Che cosa debbo fare allora? Questo salmo ce lo insegna " 39. E il salmo che iniziava a commentare era quello sulla felicità di sentirsi perdonato. Agostino, esaltando la misericordia divina e togliendo all'uomo ogni occasione di orgoglio quasi potesse salvarsi da sé, ripete e riassume il suo insegnamento così: " Nessuno vanti le sue opere buone prima della fede, nessuno sia pigro nel compiere le buone opere dopo che ha ricevuto la fede. Dio dunque concede il perdono a tutti gli empi, e li giustifica con la fede " 40.
Ma la salvezza come dono di grazia, e quindi la predestinazione, raccomandandoci di riporre la speranza in Dio, ci difende dalla nostra fragilità, dalla tentazione dello scoraggiamento, dalla possibile disperazione. " Lungi da voi - esclama Agostino - disperare di voi perché vi viene comandato di riporre la vostra speranza in Dio e non in voi " 41. Egli si meraviglia che gli uomini credano di essere più sicuri nelle proprie mani che in quelle di Dio. In un passo del De praedestinatione sanctorum esprime questa meraviglia, riporta l'obiezione del lettore e spiega il suo pensiero. Ecco come: " Mi meraviglio che gli uomini preferiscano affidarsi alla loro debolezza piuttosto che alla sicurezza della promessa divina. Ma, si obietta, è incerta la volontà di Dio nei miei riguardi " 42. Vedremo la risposta. Intanto la conclusione.
La conclusione è una sola, luminosa e consolante, e può essere considerata il suggello della dottrina agostiniana della predestinazione: " Tutiores vivimus si totum Deo damus: viviamo più sicuri se diamo tutto a Dio, invece di affidarci a Lui in parte e in parte a noi stessi " 43. Viviamo più sicuri se ci affidiamo completamente a Dio. A questa sua affermazione di fondo Agostino aveva previsto una difficoltà, del resto ovvia: " Ma, si dice, mi è incerta la volontà di Dio su di me ". Sottinteso: come posso vivere sicuro affidandomi ad essa se mi è incerta? Ecco la sapiente risposta: " E che dunque? E' forse certa per te la tua volontà riguardo a te stesso? E non hai paura? Quello che sembra stare in piedi, badi di non cadere. Se dunque sono incerte entrambe le volontà, perché l'uomo non affida la sua fede, speranza e carità a quella più salda invece che a quella più debole? " 44.
Si tratta però, inutile dirlo, non di una fiducia inerte e inoperosa, ma attiva, dinamica, fedele ai precetti divini.

MARIOCAPALBO
00mercoledì 4 luglio 2012 18:04
3. Predestinazione e azione

La predestinazione dunque non esclude ma esige che si parli dell'osservanza diligente dei precetti divini. Non solo perchà sono precetti e occorre osservarli per dimostrare a Dio il nostro amore - Agostino seguendo S. Giovanni approfondisce e urge questo nesso -, ma anche perché attraverso l'osservanza dei precetti possiamo riconoscere di essere o no nel numero dei predestinati, e sciogliere così sul piano esistenziale il problema della certezza della nostra salvezza, problema che tante volte emerge nella coscienza e la tormenta.
E' dottrina esplicita del dottore della grazia. Scrive: " ...dalla vostra stessa corsa - si riferisce alla 1 Cor 9,24 -, dalla vostra stessa corsa, se è buona e retta, imparate - condiscite - che voi fate parte dei predestinati alla grazia divina " 45. La certezza morale che nasce da una sincera condotta cristiana non può non essere fonte di serenità nei riguardi della propria salvezza e sprone all'azione. Agostino ne è convinto e lo ripete.
Si sa, e lo ricorderò subito appresso, che a proposito della predicazione egli ravvicina, per le difficoltà che possono suscitare, predestinazione e prescienza. Ora, parlando di quest'ultima, scrive: " Bisogna dire così: Correte in modo da riportare il premio 46 e [in modo] da comprendere dalla vostra stessa corsa che voi siete stati conosciuti fin da principio come quelli che avrebbero corso legittimamente " 47, cioè come quelli che avrebbero riportato il premio.
Ora, giova ripeterlo, questo non vuol dire far dimenticare una cupa dottrina predestinaziana con una verità pratica innegabile, la necessità delle opere per la salvezza, ma vuol dire dedurre da una teoria, che non è né cupa né predestinaziana, una semplice espressione dell'infinita misericordia di Dio, una conclusione pratica che rientra nei piani stessi della prescienza e della predestinazione divina come vi rientra, per esplicita affermazione di Agostino, la preghiera.

4. Predestinazione e predicazione

Dopo quanto si è detto sugli aspetti pastorali della predestinazione, si potrebbe omettere quello riguardante la predicazione di questa dottrina. Agostino v'insisté a lungo dedicandovi buona parte del suo Dono della perseveranza perché era un argomento su cui, come riferivano Prospero ed Ilario 48, si appuntavano le critiche dei marsigliesi, per i quali predicare sulla predestinazione era inutile e nocivo. La risposta di Agostino, attenta ed articolata, si può riassumere così:
1) la propone la Scrittura: perché dunque dovrebbe essere inutile o, peggio, dannoso parlarne? " Per qual motivo dunque dovremmo pensare che per predicare, per insegnare, per prescrivere, per riprendere, tutte cose cui la Scrittura divina ricorre continuamente, sia inutile la dottrina della predestinazione, quando la Scrittura stessa vi insiste? " 49.
2) Se parlare di predestinazione può creare malintesi, lo stesso si deve dire della prescienza: bisognerebbe tacere dunque anche di questa. Non è troppo? Sulla prescienza divina e la libertà umana Agostino aveva parlato a lungo nella Città di Dio 50. Qui si limita a portare l'esempio d'un monaco del suo monastero, il quale per fare il comodo suo si appellava appunto alla prescienza di Dio. A chi infatti lo rimproverava della sua condotta, rispondeva: " qualunque io sia ora, sarò quello che Dio ha previsto che sarei stato ". Commenta Agostino: " E senz'altro diceva la verità, ma per questo non progrediva nel bene; anzi arrivò a tal punto nel male che, abbandonata la comunità monastica... ". " Dunque, conclude, forse per anime come questa bisogna negare o tacere le verità che si affermano sulla prescienza di Dio, e proprio allora tacerle, quando a tacerle s'incorre in altri errori? " 51.
3) Bisogna dunque parlare della predestinazione come di qualunque altra verità cristiana, ma, s'intende, nel momento opportuno e nel modo opportuno, due circostanze importanti che Agostino esige 52. Se ne può tacere solo quando non vi sia pericolo che vengano negate altre verità di fede, come la gratuità della grazia. Si sa che la difesa della gratuità della grazia è la ragione di fondo del discorso sulla predestinazione. L'ho detto cominciando 53, ed è bene tornarci sopra. Spesso per Agostino si pone questo dilemma: " Bisogna predicare la predestinazione nel modo evidente in cui la Scrittura ne parla, e dire che nei predestinati i doni e la chiamata del Signore sono senza ripensamenti, oppure confessare che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti, come intendono i pelagiani " 54.
4) Parlarne dunque, ma tenendo presenti le capacità degli ascoltatori e mettendo in luce che la predestinazione non esclude ma include sia la preghiera che le opere buone. Agostino ammonisce: " dev'essere predicata non senza prudenza alla gente, altrimenti la folla inesperta o di più lenta intelligenza può credere che la predestinazione sia messa sotto accusa proprio nel momento in cui la predichiamo ". Ritorna l'esempio della prescienza: " ...a questa maniera può sembrare oggetto di critica anche la prescienza di Dio (che certo non possono negare), se la si presenta così alla gente: Sia che corriate, sia che dormiate, sarete solo quello che di voi ha conosciuto nella sua prescienza Colui che non si può ingannare ". Conclusione: " Sarebbe un comportamento da medico indegno di fiducia o di scarsa esperienza applicare un medicamento anche utile ma in maniera che non giova o nuoce " 55. A questo punto lo stesso dottore suggerisce di ricordare l'altra verità inclusa nei piani divini della predestinazione: la preghiera e le opere buone, di cui ho parlato.

5. Predestinazione e pietà cristiana

Tutta la dottrina agostiniana della grazia, predestinazione compresa, fonda ed anima uno stile particolare di pietà che tutto fa pensare fosse piuttosto lontano da quello che traspare dall'atteggiamento e dalle convinzioni dei monaci provenzali. E' uno stile che si può riassumere in brevi affermazioni:
1) la coscienza profonda della propria fragilità, e quindi il ricorso fiducioso e l'abbandono totale a Dio " ricco di misericordia " 56;
2) l'assiduità alla preghiera come mezzo insostituibile di salvezza: Agostino ne è il teologo e il mistico;
3) la docilità umile e gioiosa all'azione della grazia che guida l'uomo con quella " soave liberalità " 57, la quale avvince e mette in moto l'esercizio del libero arbitrio;
4) l'esercizio continuo dell'umiltà, che, inseparabile dalla carità - ubi humilitas, ibi caritas 58 -, entra con essa nella struttura essenziale, anzi nel punto focale della vita dello spirito.
Quest'ultimo argomento meriterebbe una considerazione particolare, non parenetica ma teologica, che qui non è stata fatta e, perché troppo lunga, non è possibile fare. Basti dire che il vescovo d'Ippona, vero dottore dell'umiltà, ha scrutato tutte le radici - metafisiche, teologiche, cristologiche, psicologiche - di questa virtù e ha dimostrato che essa raggiunge il suo apice proprio nella dottrina della grazia, e precisamente nel qui gloriatur in Domino glorietur 59 di S. Paolo, tante volte ricordato, e nel totum dantes Deo 60 che in una forma o nell'altra viene menzionato spesso nell'ultima opera, il Dono della perseveranza.
Si può dire, terminando, che questo stile o questa forma di pietà cristiana, che Agostino sentì profondamente ed espresse e difese con passione - egli ne parla sempre non solo come teologo e pastore ma anche come mistico -, è passata, grazie soprattutto a lui, nella liturgia, e, attraverso la liturgia, ha nutrito e nutre tante generazioni di fedeli cristiani.

6. Predestinazione e dottrina cattolica

Ma urge fare un altro confronto: predestinazione e dottrina cattolica. Agostino è profondamente convinto che la predestinazione, quale egli la propone, è contenuta nella Scrittura e appartiene alla dottrina cattolica: nessuno può ricusarla se non errando. Ecco le sue esplicite parole: " Io questo so, che nessuno ha mai potuto discutere se non errando contro questa predestinazione che noi sosteniamo in base alle sante Scritture " 61. Indubbiamente son parole molto forti. Due domande s'impongono.
La prima è questa: perché tanta ferma certezza nel dottore della grazia? Non è difficile rispondere: basta ricorrere alla definizione di predestinazione che egli ci offre, e cioè: " la prescienza e la predestinazione dei benefici di Dio " 62, o, più semplicemente: " la disposizione [da parte di Dio] delle sue opere future " 63. L'ho detto cominciando. Con ciò tutto si riduce ai doni della salvezza: fede, giustificazione, perseveranza finale. Se questi doni sono certi, è certo altresì che essi sono oggetto fin dall'eternità della prescienza divina; esiste pertanto la predestinazione e con questa le disposizioni di Dio a dare tali doni. Se Dio invece non ne ha la prescienza, vuol dire che non ha la prescienza affatto, e perciò non è Dio 64. Ecco di nuovo le sue parole che fanno leva sui doni dell'inizio della fede e della perseveranza finale che erano il motivo e l'oggetto dell'opera che stava scrivendo. " Questi doni di Dio, scrive, se non esiste la predestinazione che noi sosteniamo, non sono oggetto della prescienza divina, e invece lo sono; questa è allora la predestinazione che difendiamo " 65. Per confermare questa sua convinzione si appella a Cipriano e ad Ambrogio, ma non cita un loro eventuale discorso sulla predestinazione, bensì il discorso sui doni di Dio. Del primo riporta la tante volte citata espressione: " In nulla dobbiamo gloriarci, perché nulla è nostro "; del secondo: " Non sono in nostro potere il nostro cuore e i nostri pensieri " 66; quasi a dire che tutta la questione della predestinazione sta qui: nell'affermare o negare i doni di Dio, specialmente i due contestati: l'inizio della fede e la perseveranza finale.
La seconda domanda è quest'altra: ha ragione Agostino di essere convinto che la predestinazione sia contenuta nella Scrittura e appartenga alla dottrina cristiana? La risposta può essere affermativa a condizione che si stia al pensiero agostiniano senza caricarlo dei problemi che vi hanno aggiunto le discussioni posteriori. Occorre pertanto tenere presenti alcune osservazioni di fondo. Le ho ricordate qua e là nelle pagine precedenti, ma giova riassumerle per comodità del lettore che, avendo fretta, si contenta di dare uno sguardo alle pagine riassuntive.
La prima osservazione riguarda la prescienza divina. Agostino ha difeso energicamente, com'è noto, la prescienza di Dio 67, ha indicato con grande acume la via per giungere ad averne una qualche idea 68, ma per darne una spiegazione si è fermato all'eternità divina a cui tutti i momenti del tempo sono presenti 69. Tutto il resto appartiene alla Scolastica, particolarmente alla Scolastica post-tridentina: scienza di visione o di semplice intelligenza, scienza media, e soprattutto la ricerca del come o medium in quo le azioni libere future siano presenti alla divina essenza (da qui il ricorso ai decreti predeterminanti). Tutto questo, ripeto, appartiene alla Scolastica, non al vescovo d'Ippona: volerlo trovare in lui, nei suoi princìpi se non nelle sue parole, non vuol dire altro che ascrivergli i propri pensieri precludendosi la strada per capire quelli di lui.
La seconda osservazione riguarda il modo di considerare la predestinazione. Parlandone, non distingue, come fanno gli Scolastici, tra predestinazione considerata nel suo complesso - grazia e gloria - e la predestinazione considerata in un aspetto particolare, cioè solo in quanto alla gloria. A lui basta riaffermare che la predestinazione, con tutti i beni ch'essa comporta - fede, giustificazione, perseveranza, gloria -, è un dono di Dio concesso agli eletti prima di ogni previsione di meriti. Ne segue che è Dio, non l'uomo, che distingue tra eletti e non eletti: i beni della salvezza sono disposti prima di ogni previsione di meriti.
La sottile distinzione, se pur ha ragione di essere, tra la predestinazione nel suo complesso che è, come tutta la tradizione cattolica riconosce, assolutamente gratuita (ante praevisa merita), e la predestinazione alla gloria presa in sé, su cui gli Scolastici hanno discusso animatamente, se possa, almeno questa, considerarsi o no posteriore alla previsione dei meriti (post praevisa merita), non è agostiniana. E' doveroso dunque lasciare Agostino, se lo si vuole capire, fuori delle distinzioni e delle discussioni posteriori.
La terza osservazione riguarda l'apice stesso della dottrina della predestinazione, cioè la visione cristologica che Agostino ne ha. Gli eletti sono stati predestinati con Cristo e in Cristo, e perciò gratuitamente ed infallibilmente 70.
La quarta riguarda la sorte di quelli che non si salvano. Cristo è morto per tutti e per tutti è diventato " la via universale di salvezza ". Perciò non v'è dubbio che chi si perde, si perde per sua colpa: " che alcuni si salvino è dono di chi li salva, ma che alcuni periscano è merito di chi perisce " 71. Dio, ha tante volte ripetuto Agostino, non deserit, nisi deseratur 72. Il mistero della predestinazione non sta qui, ma molto più in alto. L'ho detto ripetutamente 73.
Si potrebbe aggiungere un'ultima osservazione riguardante il modo con il quale la grazia, salva la libertà, conduce l'uomo infallibilmente alla salvezza. Agostino insiste sul fatto, ma è molto cauto sul modo; si arresta senza difficoltà di fronte al mistero e avanza come ragione d'intelligibilità il motivo a lui tanto caro della liberalis suavitas amoris 74.
In una parola, della predestinazione Agostino ha indicato le linee maestre. Restando ad esse si può dargli ragione quando afferma che nessuno può negarla senza errare. Di fatto, i teologi posteriori, accettando quelle linee, hanno consentito con lui su questo giudizio. Tutti infatti - tomisti, agostiniani, congruisti, molinisti - hanno sostenuto di restare dentro le linee fissate da Agostino teologo e pastore. Queste linee appartengono all'insegnamento cristiano e, senza errore, non si possono negare.
Non debbono però essere intese in un'ottica a se stante ma, ripeto, nel contesto pastorale in cui Ag. le vedeva e le sentiva. Ecco, a conclusione di questa introduzione, la conclusione di un suo discorso al popolo: " Venga il Signore nostro, il secondo uomo...venga da un altro sentiero, venga attraverso la Vergine; venga vivo, trovi i morti; muoia per aiutare chi muore, trasferisca alla vita i morti, redima dalla morte i morti, conservi nella morte la vita, uccida la morte con la morte. Unica è questa grazia dei bambini e degli adulti; essa sola libera i piccoli con i grandi. Perché quello e perché quello; perché quello e non quello? Non me lo chiedere. Sono uomo: la profondità della croce l'intuisco, non la penetro; ne ho timore, non la scruto. Sono imperscrutabili i suoi giudizi, ininvenstigabili le sue vie (Rom 11,33). Sono uomo, sei uomo, era uomo colui che diceva: O uomo, chi sei che disputi con Dio? (Rom 9,20). Parlava un uomo, parlava ad un uomo. Ascolti l'uomo perché non perisca l'uomo, a causa del quale Dio si è fatto uomo. In questa profondità della croce, in questa così grande oscurità delle cose crediamo ciò che abbiamo cantato; non presumiamo delle nostre virtù, non attribuiamo qualcosa alle forze del nostro misero ingegno in questa questione; diciamo il Salmo, diciamo con il Salmo: Abbi pietà di me, o Dio, abbi pietà di me. Perché? Perché ho capacità di meritarti? No. Perché? Perché ho l'arbitrio della volontà, per cui il mio merito precede la tua grazia? No. Ma perché allora? Perché la mia anima confida in te (Ps 56,2). E' grande scienza, questa fiducia " 75.

1 - De dono pers. 14, 35.

2 - De dono pers. 17, 41.

3 - Vedi, per un rapido accenno, il mio art.: A proposito di predestinazione: S. Agostino e i suoi critici moderni, in Divinitas, 7(1963), pp. 243-284.

4 - Contra duas ep. pelag. 3, 8, 24.

5 - Contra duas ep. pelag. 4, 7, 19.

6 - Contra Iul. 3, 1, 2.

7 - De dono pers. 2, 4.

8 - De dono pers. 20, 53.

9 - De dono pers. 21, 54.

10 - De dono pers. 16, 41: " Allora bisogna predicare la predestinazione nel modo evidente in cui la Scrittura ne parla... oppure confessare che la grazia di Dio è data secondo i nostri meriti "; Ibidem 17, 47: " Questi doni di Dio, se non esiste la predestinazione che noi sosteniamo, non sono oggetto della prescienza divina; e invece lo sono: questa è allora la predestinazione che difendiamo ".

11 - O. ROTTMANNER, Der Augustinismus. Eine dogmengeschichtiche Studie, München 1892; IDEM, Geistesfrüchte aus der Klosterzelle, München 1908; trad. franc. LIEBAERT L'augustinisme. Étude d'histoire doctrinale, in Mélanges... Science Religieuse, Lille 1949, pp. 29-48.

12 - Vedi il mio art. A proposito..., cit. sopra.

13 - Geistesfrüchte..., p. 12.

14 - Cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. VII-CCXV.

15 - Per es. il De praed. et gr., falsamente attribuito a S. Agostino, il De praed. Dei, il Praedestinatus, ecc.

16 - DS 370-397.

17 - H. RONDET, La grazia di Cristo, Città Nuova Ed., Roma 1966.

18 - DS 623.

 

1 - De civ. Dei 5, 9, 4; vedi sopra p. 1.

2 - De an. et eius orig. 1, 7, 7.

3 - Ibidem.

4 - Ibidem.

5 - Confess. 1, 10, 16.

6 - Ep. 140, 2, 4; De civ. Dei 11, 17; De Gen ad litt. 3, 14, 37; ecc.

7 - PROSPERO, Responsiones ad capitula Gallorum, XI.

8 - De praed. sanct. 10, 19.

9 - PROSPERO, Responsiones ad capitula Gallorum, XV.

10 - Institutiones, 3, 21.

11 - De dono pers. 18, 47.

12 - De dono pers. 14, 35.

13 - Confess.

14 - Enchir. 95, 24.

15 - Ep. 194, 6, 30.

16 - Enchir. 96, 24.

17 - De civ. Dei 20, 1, 2.

18 - De corrept. et gr. 13, 42.

19 - De dono pers. 6, 12.

20 - Cf. Introd. part. al De continentia, NBA VII/1, p. 321.

21 - De contin. 6, 15.

22 - Ep. 2/*: CSEL 88, 16-17.

23 - Enchir. 100, 26.

24 - Enchir. 8, 26.

25 - De civ. Dei 22, 1, 2.

26 - Enchir. 3, 11.

27 - Serm. 48, 7.

28 - De div. qq. 83, q. 68, 4.

29 - Expos. prop. ex ep. ad Rom. 62.

30 - Quaest. in Hept. 2, 18.

31 - De gr. et lib. arb. 23, 45.

32 - Rom 9, 18.

33 - De div. qq. 83, q. 68, 4.

34 - Cf. De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 11.

35 - Ez 14, 9.

36 - Rom 9, 18.

37 - De gr. et lib. arb. 23, 45.

38 - 2 Reg 16, 10.

39 - De gr. et lib. arb. 20, 41. Traduco il vel non come un avversativo, ma come un correttivo. Così sopra, nello stesso paragrafo, quando dice che Dio inclinavit la volontà, malvagia per sua colpa, verso il peccato, vuol dire, nel contesto della sua dottrina, che permise che s'inclinasse verso il peccato a causa appunto della sua malvagia volontà, e lo permise " per giusto giudizio ".

40 - 2 Reg 16, 11-12.

41 - Cf. Isai 6, 10; Io 12, 39.

42 - In Io Ev. tr. 53, 4-6.

43 - Io 12, 39.

44 - In Io Ev. tr. 53, 6; cf. ibidem 53, 9: " Dell'Onnipotente è stato detto: non può. Come dunque il fatto che il Signore non può rinnegare se stesso è una gloria della volontà divina, così il fatto che quelli non potevano credere è una colpa della volontà umana ".

45 - Cf. Eph 2, 1 s.

46 - De Trin. 13, 12, 16.

47 - Cf. Lucut. in Hept.: Locutiones Scripturarum, quae videntur secundum proprietatem (quae " idiomata " graece vocantur) linguae hebraicae vel graecae (1 praef.); Retract. 2, 54: Multa autem in Scripturis sanctis obscura, cognito locutionis genere, dilucescunt.

 

1 - Rom 9, 14.

2 - Rom 1, 4.

3 - Cf. Rom 8, 29-30; 1 Cor 2, 7; Eph 1, 5, 11.

4 - Cf. sopra cc. 1-2.

5 - Cf. DTC, XII, coll. 2809-3022.

6 - De civ. Dei 22, 24, 5.

7 - De civ. Dei 21, 24, 1.

8 - Ep. 194, 2, 4.

9 - Il testo paolino continua: O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: Perché mi hai fatto così? (Rom 9, 20).

10 - De div. qq. ad Simpl. 1, q. 2, 22.

11 - De pecc. mer. et rem. 1, 21, 29.

12 - De sp. et litt. 34, 60.

13 - Cf. Contra duas ep. pelag. 4, 6, 16; Opus imp. c. Iul. 1, 126.

14 - Cf. De gr. et lib. arb. 21, 43; De corrept. et gr. 8, 17; De praed. sanct. 14, 17; De dono pers. 8, 18; 9, 21; 11, 25; 12, 28.

15 - Rom 11, 33.

16 - Rom 9, 14.

17 - Cf. Serm. 26, 13-15.

18 - Serm. 27, 7: leggere tutto il discorso; cf. Serm. 294, 7; In Io Ev. tr. 53, 6.

19 - Serm. 27, 4.

20 - Cf. p. 1, c. 2, par. 4.

21 - Contra duas ep. pelag. 2, 5, 10; cf. De dono pers. 12, 29.

22 - Cf. Contra Iul. 4, 8, 46.

23 - Per la dottrina pelagiana sul battesimo dei bambini cf. Introd gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. XCII-CIII.

24 - Cf. Contra Iul. 4, 8, 46.

25 - Vedi sopra p. 1, c. 2.

26 - Eph 2, 8.

27 - Contra duas ep. pelag. 2, 5, 10-7, 12.

28 - Lc 20, 21; Col 3, 25.

29 - Mt 20, 1-15.

30 - Contra duas ep. pelag. 2, 7, 13; cf. De corrept. et gr. 8, 19.

31 - Cf. De civ. Dei 5, 1.

32 - Contra duas ep. pelag. 2, 7, 14.

33 - Per la dottrina della " massa dannata " cf. Introd. gen. a Natura e grazia, NBA XVII/1, pp. CXX ss. Per il suo influsso sulla dottrina della predestinazione vedi appresso p. 3, c. 5.

34 - Ep. 194, 2, 5.

35 - Ep. 194, 6, 24.

36 - De civ. Dei 12, 27.

37 - Cf. Rom 11, 33.

38 - Ep. 194, 3, 6. Nello stesso senso applica il Salmo 100, 1: Canterò a te, Signore, la misericordia e il giudizio; Enchir. 24, 94; Ep. 2, 10: CSEL 88, 18.

39 - De pecc. mer. et rem. 2, 18, 31.

40 - De praed. sanct. 6, 11.

41 - La misericordia perdona i peccati, la verità mantiene le promesse, è, vale a dire, la fedeltà di Dio; cf. Enarr. in ps. 61, 9; 83, 16; 118, s. 3, 3; 137, 5.

42 - Ep. 22, 5.

43 - Enarr. in ps. 39, 19; cf. Enarr. in ps. 92, 16.

44 - Ep. 130, 15, 28.

45 - Serm. 27, 4.

46 - Cf. Ep. 120, 3, 13; De Trin. 5, 3, 4; 7, 4, 7.

47 - Serm. 117, 15.

48 - De Trin. 1, 1, 1.

49 - Enchir. 13, 41; Ep. 137, 2, 8.

50 - De bapt. 2, 3, 4.

51 - De Gen., ad litt. 10, 23, 39.

52 - Vedi sopra p. 2, c. 3.

53 - Rom 10, 2.

54 - Rom 10, 2- 3; De nat. et gr. 1, 1.

 

1 - De praed. sanct. 10, 19.

2 - De dono pers. 19, 35.

3 - De praed. sanct. 10, 19.

4 - De dono pers. 18, 47.

5 - Rom 4, 5; 8, 28; 9, 11.

6 - De civ. Dei 10, 32, 1-2.

7 - De civ. Dei 8, 19.

8 - De corrept. et gr. 9, 23.

9 - De praed. sanct. 17, 34.

10 - Io 6, 37. 39.

11 - De corrept. et gr. 9, 21; cf. 9, 22-23.

12 - De praed. sanct. 15, 30.

13 - Vedi p. 2, c. 6.

14 - In Io Ev. tr. 105, 8.

15 - Rom 1, 1- 4.

16 - De praed. sanct. 15, 30; cf. Enchir. 11, 36.

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