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Esercizi Spirituali di Quaresima di Papa Francesco ad Ariccia

Ultimo Aggiornamento: 27/02/2015 13:13
24/02/2015 20:11









Senza paura
di perdere la faccia
· ​Gli esercizi spirituali della Curia romana ad Ariccia ·
26 febbraio 2015

Di fronte a chi è in difficoltà usiamo il bastone della rigidità e delle categorie stabilite oppure l’abbraccio della misericordia? È questa l’ultima domanda lasciata alla meditazione dei presenti da padre Bruno Secondin, nel pomeriggio di mercoledì 25 febbraio, a conclusione della giornata degli esercizi spirituali quaresimali in corso ad Ariccia per il Papa e la Curia romana.
Nell’ambito della riflessione sul tema del «lasciarsi sorprendere da Dio», il carmelitano si è soffermato sulla lettura del brano biblico di Elia e la vedova di Sarepta (1 Re, 17, 2-24) accostato a quello parallelo nel quale Eliseo fa risorgere il figlio della Sunammita (2 Re, 4, 25-37). Un contesto che ha portato il predicatore a sottolineare un aspetto fondamentale nella vita di fede, il fatto, cioè, che «i poveri ci evangelizzano».

 «Scene della vita di Elia» (icona melchita, XVIII secolo)La vedova povera che, pur avendo solo «un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio», ospita Elia, diventa occasione propizia di crescita interiore per il profeta. Elia, ha sottolineato padre Secondin, «era scorbutico, aggressivo». Gli stessi padri della Chiesa commentando questi passi biblici suggeriscono che «Dio cerca di raddrizzare Elia affinché si ammansisca». E il profeta viene quindi inviato a Sarepta dove riceve una prima lezione dalla donna: la povertà e la morte affrontate con dignità.
Inizialmente il profeta, attraverso il miracolo del cibo che non finisce, si presenta in vesti potenti, taumaturgiche. Poi però la morte del figlio della vedova lo costringe a un’altra dimensione: si sente impotente e può solo invocare Dio, «affidarsi a Dio in nudità», riconoscere che lui ha solo il potere «di gridare il suo dubbio e di implorare». Ed è allora, di fronte ai suoi gesti teneri e all’ammissione della sua debolezza, che la vedova riconosce un altro volto di Dio: il «Dio di compassione», il «Dio di misericordia», il «Dio che abbraccia, che porta nella sua identità la nostra ferita».
È una storia che provoca domande per la storia personale di ognuno: «Siamo capaci di incontrare i poveri per arrivare a incontrare la verità? O abbiamo paura di perdere la faccia?»; sappiamo riconoscere e abbracciare chi ha un «“bimbo morto” nel suo cuore: violenze, traumi infantili, divisioni, orrori...»? La nostra parola è quella saccente del taumaturgo o «la parola che implora»? Di fronte a situazioni di dolore «mandiamo avanti il canonista», usiamo «il bastone» o adoperiamo «le braccia per abbracciare»?Scelte concrete, atteggiamenti chiari, come quelli suggeriti anche dalla prima meditazione di giovedì 26, nella quale padre Secondin si è soffermato sul tema della giustizia. Tema centrale perché, ha sottolineato il predicatore, «l’impegno per la giustizia è parte integrante della nostra sequela di Cristo, perché i poveri sono i privilegiati del Vangelo: non è una mania populistica».
Un altro episodio della vita di Elia narrato nel primo libro dei Re (21, 1-29) ha fornito lo spunto per la riflessione. Il re Acab vuole acquistare la vigna dell’umile Nabot, ma il contadino rifiuta perché non vuole fare torto all’eredità ricevuta dai suoi padri. Allora la perfida regina Gezabele organizza un’assemblea rituale con i rappresentanti del popolo nella quale, grazie a due false testimonianze, accusa Nabot di blasfemia e lo fa uccidere, consentendo così ad Acab di ottenere il suo “giocattolo”. Elia allora pronuncia la condanna divina contro Acab, il quale si pente ottenendo da Dio un’attenuazione della pena.
Un testo lungo, nel quale le psicologie dei vari personaggi — Acab il frustrato, Gezabele la potente senza scrupoli, Nabot il pio, i rappresentanti del popolo privi di coscienza e succubi di dinamiche di stampo mafioso — possono mettere allo scoperto anche tanti aspetti delle nostre vite. Un testo che ha offerto l’occasione al predicatore carmelitano per lanciare molte provocazioni
Quante volte, ad esempio, «elementi sacri sono usati come copertura di procedimenti iniqui»? Veri e propri «abissi di violenza vengono aperti in nome di Dio» e «anche tra noi cristiani» si ritrova «il sonno della coscienza». Ma, ha rimarcato padre Secondin, «quanto dovranno gridare i poveri e gli oppressi?». E pensando alle violenze che si consumano in Africa e in Medio oriente, si è chiesto: «La coscienza degli europei non ha niente da rimproverarsi?». Il richiamo che viene dalle Scritture è forte: «dobbiamo stare dalla parte di tutti i Nabot della terra, difendere i diritti, accogliere le vittime, spronare le coscienze, promuovere strutture, perché la terra è di Dio, è un dono per la vita di tutti e non per i capricci di qualcuno».
Ma la Scrittura, ha detto il predicatore, propone anche una «pedagogia dei piccoli gesti». Occorre, cioè, «cominciare da noi stessi», convertire il proprio stile di vita, rivedere i consumi («quanto spreco di cibo...»), avere trasparenza nell’agire, fare il proprio dovere con onestà, non esercitare l’autorità come potere e come fonte di privilegi. E ancora: «spezzare l’omertà, le coperture, gli abusi».Padre Secondin è tornato quindi a considerare dinamiche e problemi di interesse planetario: di fronte a violenze come quelle dell’inquinamento, dell’accaparramento delle terre fertili e delle acque a danno dei popoli locali, o come quelle finanziarie nelle quali senza scrupoli, con un semplice “clic”, fanno morire le persone, dobbiamo recuperare la forza del canto del Magnificat e «avere il coraggio di denunciare». Perché «Dio non sopporta i prepotenti». Ecco allora la domanda che ha concluso la meditazione: «Sappiamo familiarizzare pubblicamente con gli umiliati, con gli scarti della violenza, o abbiamo paura di perdere la faccia per il Vangelo»?
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Ritorna sui tuoi passi

· ​Esercizi spirituali della Curia romana ·
25 febbraio 2015

Richard Joseph King, «Il profeta Elia» (xx secolo, Faversham, santuario carmelitano di San Giuda)La contrastata vicenda del profeta Elia che si batte con zelo e sacro furore, ma con un egocentrismo esasperato, per difendere l’alleanza tra il Signore e il suo popolo, e che si ritrova esausto, sconfitto e impaurito in una caverna del monte Oreb, ha continuato a offrire gli spunti per le riflessioni del predicatore. Nella meditazione pomeridiana di martedì 24, il religioso aveva completato la proposta di “scandaglio della coscienza” analizzando proprio la tragica situazione di Elia che, come narrato nel capitolo 19 del primo libro dei Re, si ritrova in uno stato di «depressione mortale», impaurito, in fuga, solo, sfinito, deluso dal proprio fallimento.
Uno stato di depressione che, ha detto padre Secondin, «non è così raro, anche nella vita sacerdotale. Tanti crollano, anche tra i preti». Occorre quindi fare attenzione a certi segnali che potrebbero sfociare in enormi difficoltà interiori. Innanzitutto la «paura». Emerge quando abbiamo timore dell’avvenire, di assumerci delle responsabilità. E si può accompagnare alla «solitudine», al sentirsi esclusi e diversi, al senso di «vuoto» dato da una vita inaridita, delusa dagli insuccessi, al «crollo psicofisico» e all’«autoaccusa» (lo stesso Elia dice: «non sono migliore dei miei padri»). Tutto ciò può sfociare nella «fuga» — che può essere fisica o nell’immaginario — o nella ripetizione ossessiva di certi gesti (come il consumo di alcol e cibo o le evasioni nel mondo virtuale), o addirittura nel «desiderio di morte».
Per evitare tutto questo è importante condurre una vita nella quale «il rapporto tra lavoro, riposo, preghiera e relazioni sociali» sia «ben equilibrato».
Riconoscere il prima possibile certe dinamiche interiori, certi «segnali di stress», è fondamentale per poter trovare quella soluzione che viene prospettata nel racconto biblico attraverso l’intervento dell’angelo che conforta Elia e lo invita a dirigersi verso l’Oreb. «Elia — ha spiegato il carmelitano — precipitato negli inferi, conosce la trasformazione della fuga impaurita che diventa pellegrinaggio». E noi, si è chiesto, nella difficoltà «sappiamo riconoscere intorno a noi la mano dell’angelo?». Come il pane fu di sostegno a Elia, «riconosciamo nell’Eucaristia il viatico che ci accompagna?». Come il viaggio riportò Elia alle radici dell’alleanza, sappiamo anche noi «tornare alle radici» della nostra fede?
Una volta che si è fatta verità nel proprio intimo e ci si è predisposti all’ascolto, può giungere il confronto con Dio. E la «manifestazione misteriosa» di cui fa esperienza Elia sull’Oreb, quel «sussurro di una brezza leggera» sul quale tanti esegeti si sono arrovellati, può suggerire molto alla meditazione personale.
Padre Secondin, nella meditazione mattutina di mercoledì, ha ripercorso nel dettaglio il dialogo fra Dio ed Elia. Il profeta è caratterizzato da un «io ipertrofico» che lo porta a considerarsi «l’ombelico del mondo»; in quest’ottica, «la sua sconfitta potrebbe sembrare la sconfitta di Dio». Il Signore «lo lascia sproloquiare nel suo soliloquio ipertrofico», vuole che Elia «si lasci decomporre» e operi una «catarsi profonda». Lo spiazza con la domanda: «Che cosa fai qui?». Dio «si presenta con una domanda» e costringe l’uomo «a guardarsi dentro, a dare voce alle inquietudini che porta».
A volte, ha ammonito il predicatore, anche per noi Dio diventa una sorta di «soprammobile»; e rischiamo di «manipolarlo» con la stessa furia che sembra pervadere il profeta. Ma «Dio è libero davanti ai potenti e anche davanti alla furia di Elia»: il fallimento di Elia non turba Dio, che ha già un suo disegno e ha un popolo che gli è comunque rimasto fedele.
Elia è scosso interiormente. Il vento impetuoso, il terremoto, il fuoco in cui il profeta non trova Dio potrebbero essere — ha ipotizzato padre Secondin — anche «proiezioni di stati interiori» di una persona alla quale il mondo intero è caduto addosso.
Da questa lectio, ha spiegato il predicatore, devono scaturire delle domande personali: «Abbiamo anche noi delle Gezabele che ci rovinano la vita? Siamo ossessionati da problemi con alcune persone, o di lavoro, di carriera?». Come ci rapportiamo con Dio? Sappiamo «stare in adorazione timorosa di Dio che passa?». Giacché il Signore è intimità, «abbiamo abitudine a stare con lui in intimità?». O ci sono voci assordanti («successo, vanità, soldi, colpe degli altri») che ci distraggono? Infine — ricordando i settemila israeliti che rimasero fedeli al Signore — ci rendiamo conto che questi possono rappresentare «la fedeltà silenziosa del popolo»? E chi medita deve anche chiedersi: sono capace di comprendere e intercettare questa fedeltà, sono capace di ascoltare «gli ultrasuoni dei poveri, dei semplici, dei piccoli», che sono «doni preziosi e non frammenti perduti»?
Le risposte possono trovare un appoggio in quella che è la reazione di Dio nel racconto biblico. Elia voleva finire lì, morire sull’Oreb, dove era iniziata l’alleanza; invece Dio «lo rimanda a una nuova stagione». Anche noi siamo chiamati a «cogliere segni di futuro» nelle nostre radici, a «ritrovare freschezza», a metterci in cammino. E se, come Elia, «siamo delusi, stanchi, ci crediamo i migliori di tutti e pensiamo che il mondo sia abitato solo da diavoli scatenati», lasciamoci «sorprendere da Dio» e iniziamo un nuovo cammino.
Ecco allora l’invito con il quale il predicatore ha concluso la meditazione: «Ritorna sui tuoi passi!». Un invito che padre Secondin ha arricchito di una serie di suggerimenti concreti, invitando a condividere i propri beni materiali con i più poveri, ad «aprire gli armadi pieni di paludamenti inutili» e a buttarli via, ad aprire le braccia per «fare pace sincera con chi non si riesce a sopportare», ad aprire gli orizzonti «alla verità polifonica, alla bellezza delle culture e alla ricchezza delle tradizioni» per ammirare quanto Dio ha fatto di bello.
Ha infine esortato il carmelitano: «Muovi i tuoi passi nelle periferie, vai a celebrare nelle baracche, vai a pranzo con chi ha poco da mangiare. Capirai dove Dio ti aspetta».
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Giù la maschera

· ​La vicenda di Elia traccia degli esercizi spirituali della Curia romana ·

24 febbraio 2015
Per intraprendere un corretto cammino quaresimale di conversione occorre innanzitutto riscoprire la «verità più profonda di noi stessi, uscire allo scoperto» e «toglierci ogni maschera, ogni ambiguità». Con questo forte richiamo a riprendere con sincerità in mano la propria storia il carmelitano Bruno Secondin ha concluso, nella meditazione pomeridiana di lunedì 23 febbraio, la riflessione della seconda giornata degli esercizi spirituali quaresimali in corso ad Ariccia per il Papa e la Curia romana.
Seguendo l’esperienza di Elia descritta dalle Scritture, il predicatore ha messo a confronto la «clandestinità» dalla quale il profeta venne chiamato dal Signore a uscire, con quella clandestinità nella quale spesso ci si nasconde e che molte volte viene mascherata da una religiosità solo esteriore, priva del coraggio della verità.
Base della riflessione del predicatore è stato il capitolo 18 del primo libro dei Re, con il popolo d’Israele e il re Acab fiaccati dalla lunga carestia provocata dal culto idolatrico a Baal e con Elia chiamato dal Signore a presentarsi ad Acab per ricondurlo sulla retta via. Non è stata una lettura continuativa ma un richiamare scene, personaggi che possono illuminare la meditazione personale e diventare per ognuno provocazioni, richiami, suggerimenti.
Filo conduttore è stato l’«uscire allo scoperto», il liberarsi dalle «ambiguità» e avere il «coraggio» di una vita autenticamente cristiana.
Il primo a essere chiamato a uscire dalla clandestinità è proprio Elia: «Va’ a presentarti ad Acab» gli dice il Signore. Elia, l’inafferrabile, il mitico profeta che può sparire da un momento all’altro, deve rivelarsi e affrontare il rischio di incontrare il re che lo vede come un nemico. È una provocazione per quanti nella Chiesa invece fanno sempre i loro calcoli, rimandano continuamente, sono «vittime delle parole e delle diplomazie» e «si tirano indietro». Invece per il cristiano «ci sono sempre nuove avventure» alla quali non ci si può sottrarre «con la scusa delle minacce di un Acab di turno» o perché condizionati da miti, da pregiudizi sulle persone, dalle convenienze delle «amicizie e delle cordate».
Un’altro personaggio che viene chiamato a uscire alla scoperto è Abdia, il maggiordomo di Acab inviato dal re per contattare Elia. Abdia è il rappresentante di una coscienza lacerata che non dimentica di appartenere a una tradizione diversa ma, al tempo stesso, «non rinuncia ai vantaggi del potere». È come tanti anche oggi: impaurito nonostante la spinta interiore che lo richiama alla difesa della verità.
Anche a lui, e non solo al popolo — ecco il successivo personaggio — Elia rivolge il forte richiamo: «Fino a quando salterete da una parte all’altra?». È come se, ha ricordato padre Secondin, a loro e a tutti anche oggi il profeta intimasse: «Finitela con questa sceneggiata!».
E a questo punto appare una realtà molto dura: il popolo tace, non risponde: «il sistema ha ucciso la sua coscienza». Quante volte, ancora adesso, ha commentato il predicatore, «i regimi, i sistemi dissanguano i popoli»; quante volte restiamo «spettatori impauriti» davanti a guerre fatte per procura; e, per restare nell’ambito della vita religiosa, quante volte ci lasciamo affascinare da «apparati elefantiaci, mega cattedrali, mega complessi», da una metodologia che si lascia guidare dalla gloria e dimentica i poveri.
Ecco allora che Elia convoca il popolo e lo provoca a un’ordalia, a una prova del fuoco che metta a confronto la presunta potenza di Baal con quella del Signore d’Israele. E il popolo viene attirato da questa forma di “religiosità spettacolare”, cosa che purtroppo accade anche oggi quando la fede «viene misurata con le statistiche» e si risolve in «manifestazioni in cui non si sa se si è di fronte a happening o a fede vera». Ma, ha fatto notare il carmelitano, è importante il gesto del profeta che «si avvicina al popolo per coinvolgerlo».
Un concetto ripreso anche nella prima meditazione di martedì 24: «Abbiamo il coraggio di coinvolgere il popolo, o facciamo il giro delle sette chiese prima di interpellarlo?». È quindi uno spunto per riflettere su certe scelte della Chiesa del nostro tempo: «Trattiamo le cose importanti tra pochi intimi o sappiamo avere una strategia di visibilità che spiazza il sistema?». Quanta sofferenza, ad esempio, «ci hanno provocato certi temi sensibili», ha detto padre Secondin, che ha aggiunto: «Non dobbiamo nascondere i nostri scandali» ed è importante che «le vittime dell’ingiustizia siano portate a guarigione con la nostra umiltà di riconoscere gli errori».
Il riconoscimento delle colpe della Chiesa è emerso anche in riferimento a un altro episodio. Prendendo spunto dal terribile gesto di Elia che fa giustiziare i profeti di Baal, il predicatore ha infatti invitato a ricordare come la Chiesa nella sua storia è stata capace di atti violenti. «Anche noi abbiamo bruciato persone, abbiamo ammazzato» ha detto. E ha sottolineato che oggi tanta violenza può esprimersi sotto altre forme, «anche senza la spada», utilizzando ad esempio la forza dirompente della lingua e persino i nuovi mezzi di comunicazione: «A volte anche la tastiera ne uccide più della spada!».
È questo uno degli aspetti che il carmelitano ha messo in evidenza nella giornata in cui, proseguendo nella lettura della vicenda di Elia, è passato ad analizzare un altro atteggiamento necessario alla conversione: dopo il coraggio di uscire allo scoperto, di dirsi la verità su se stessi, di gettare la maschera che anestetizza le nostre coscienze, viene la necessità di incamminarsi su «sentieri di libertà» e di eliminare quegli atteggiamenti che ci fanno «oscillare da una parte all’altra» e di lasciare spazio a Dio.
Vedendo come Elia sbeffeggia la ritualità violenta e scenografica che il popolo d’Israele utilizza per invocare Baal, padre Secondin ha accennato a un certo culto «chiassoso, superstizioso» che ancora adesso si incontra e che «non edifica la vera fede». Quali sono — si è chiesto — i nostri idoli? L’elenco è lungo: «orgoglio, ambizione, cultura, carriera». Ma, e qui giunge il passo in avanti, non possiamo dubitare della misericordia di Dio. La risposta di Dio è il fuoco, «la misericordia che tutto prosciuga, tutto trasforma».
Per questo Elia ricostruisce un altare con le dodici pietre che ricordano le dodici tribù d’Israele: vuole richiamare tutti a un’identità. E se anche il popolo è refrattario a tornare sui suoi passi, ciò non mette paura a Dio, perché egli «rimane fedele e disponibile». Dio è sempre «un abbraccio di misericordia». E allora, ha detto il predicatore, bisogna «prendere per mano il risveglio della coscienza della gente», utilizzare — come è stato capace di fare Elia — strategie intelligenti e la forza del linguaggio dei simboli. Per fare questo, però, occorre prima di tutto chiedersi: «Il nostro cuore appartiene realmente al Signore» o ci accontentiamo di atteggiamenti esteriori? «La nostra preghiera è audace e invoca il bene del popolo?». È «cadenzata da un senso ecclesiale?». Sentiamo l’urgenza vivere esperienze forti, straordinarie, che lasciano il segno, o ci accontentiamo?

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[Modificato da MARIOCAPALBO 27/02/2015 13:13]

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