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IL SENSUS FIDEI NELLA VITA DELLA CHIESA

Ultimo Aggiornamento: 20/02/2015 18:56
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20/02/2015 18:53
 
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26. Nei primi cinque secoli la fede della Chiesa nel suo insieme si rivelò decisiva per la fissazione del canone delle Scritture e per la definizione delle principali dottrine che riguardavano ad esempio la divinità di Cristo, la verginità perpetua e la maternità divina di Maria e la venerazione e l’invocazione dei santi. In alcuni casi, come ha notato il beato John Henry Newman (1801-1890), la fede dei laici in particolare ha ricoperto un ruolo cruciale. L’esempio più impressionante fu nel IV secolo la celebre controversia con gli ariani, che furono condannati al concilio di Nicea (325), ove fu definita la divinità di Gesù Cristo. Tuttavia, da quel concilio fino a quello di Costantinopoli (381), fra i vescovi continuò a esservi incertezza. Durante questo periodo, «la tradizione divina affidata alla Chiesa infallibile fu proclamata e conservata molto più dai fedeli che dall’episcopato». «Vi fu una temporanea sospensione delle funzioni dell’Ecclesia docens. Il corpo episcopale fallì nel confessare la fede. Parlavano in modo diverso, l’uno contro l’altro; dopo Nicea, per quasi sessant’anni non vi fu alcuna testimonianza ferma, invariabile, coerente».[17]



b) Il periodo medievale



27. Newman osserva inoltre che «in epoca successiva, quando gli eruditi benedettini di Germania [cf. Rabano Mauro, c. 780-856] e Francia [cf. Ratramno, morto intorno all’anno 870] mostravano perplessità nella loro formulazione della dottrina della presenza reale, Pascasio [c. 790-c. 860] era invece sostenuto dai fedeli quando la affermava».[18] Qualcosa di simile avvenne a proposito del dogma che si riferisce alla visione beatifica, definito da papa Benedetto XII nella costituzioneBenedictus Deus (1336), il quale afferma che le anime godono di questa visione subito dopo il purgatorio e prima del giorno del giudizio:[19] «La tradizione sulla quale si fondò la definizione si manifestava nel consensus fidelium con una chiarezza che la successione dei vescovi non offriva, benché molti fra di loro fossero “Sancti Patres ab ipsis Apostolorum temporibus”». «Una considerazione tutta particolare fu accordata al sensus fidelium; non che si domandasse la loro opinione o il loro consiglio, ma si ricevette la loro testimonianza, si consultarono i loro sentimenti, si temette, oserei quasi dire, la loro impazienza».[20] Il continuo svilupparsi presso i fedeli della credenza e della devozione nell’Immacolata concezione della beata vergine Maria, nonostante l’opposizione di alcuni teologi a questa dottrina, è un altro fra i maggiori esempi del ruolo che rivestì nel Medioevo il sensus fidelium.



28. I dottori della Scolastica riconoscevano che la Chiesa, la congregatio fidelium, non può errare in materia di fede poiché essa è istruita da Dio, unita a Cristo suo capo, e che in essa abita lo Spirito Santo. Tommaso d’Aquino, ad esempio, prende questo come punto di partenza per il fatto che la Chiesa universale è governata dallo Spirito Santo che, come ha promesso il Signore Gesù, le insegnerà «tutta la verità» (Gv 16,13).[21] Egli sapeva che la fede della Chiesa universale è espressa con autorità dai suoi prelati,[22] ma coltivava anche un interesse tutto particolare all’istinto di fede personale di ogni credente, che ha scrutato in relazione alla virtù teologale della fede.



c) Il periodo della Riforma cattolica e successivo



29. La sfida posta dai riformatori del XVI secolo esigeva un’attenzione rinnovata al sensus fidei fidelium; ne risultò che la nozione venne trattata per la prima volta in maniera sistematica. I riformatori ponevano l’accento sul primato della parola di Dio nella sacra Scrittura (Scriptura sola) e sul sacerdozio dei fedeli. Essi sostenevano che la testimonianza interiore dello Spirito Santo dà a tutti i battezzati la capacità di interpretare da sé stessi la parola di Dio. Questa convinzione tuttavia non impedì loro di offrire un insegnamento durante dei sinodi e di produrre dei catechismi per l’istruzione dei fedeli. Le loro dottrine rimettevano in discussione, fra l’altro, il ruolo e lo statuto della Tradizione, l’autorità magisteriale del papa e dei vescovi e l’inerranza dei concili. Per rispondere alla loro affermazione secondo la quale la promessa della presenza di Cristo e della guida dello Spirito santo era stata fatta alla Chiesa intera, non soltanto ai Dodici ma anche a ogni credente,[23] i teologi cattolici furono indotti a spiegare più pienamente in che senso i pastori sono al servizio della fede del popolo. Facendolo, essi accordarono un’attenzione crescente all’autorità magisteriale della gerarchia.



30. I teologi della Riforma cattolica, basandosi sui precedenti sforzi per sviluppare una ecclesiologia sistematica, ripresero la questione della rivelazione, delle sue fonti e della loro autorità. Risposero innanzitutto alle critiche dei riformatori verso alcune dottrine richiamando l’infallibilità in credendo[24] della Chiesa intera, laicato e clero insieme. E, di fatto, il concilio di Trento fece ripetutamente appello al giudizio della Chiesa intera per difendere gli articoli contrastati della dottrina cattolica. Il suo decreto sul sacramento dell’eucaristia (1551), ad esempio, invoca specificamente «il comune sentire della Chiesa [universum Ecclesiæ sensum]».[25]



31. Melchior Cano (1509-1560), che partecipò a quel concilio, trattò per la prima volta in modo esteso il sensus fidei fidelium difendendo il valore che i cattolici riconoscevano alla forza probante della Tradizione nell’argomentazione teologica. Nel suo trattato De locis theologicis [26] (1564), egli riconosceva nell’assenso comune attuale dei fedeli uno dei quattro criteri che permettono di determinare se una dottrina o una prassi appartengono alla tradizione apostolica.[27] In un capitolo sull’autorità della Chiesa in materia dottrinale, egli argomentava che la fede della Chiesa non può fallire, poiché essa è la Sposa (cf. Os 2; 1Cor 11,2) e il corpo di Cristo (cf. Ef 5), e perché lo Spirito Santo la guida (cf. Gv 14,16.26).[28] Cano faceva pure notare che la parola «Chiesa» designava talvolta tutti i fedeli, compresi i pastori, e altre volte i suoi capi e pastori (principes et pastores), poiché anch’essi possiedono lo Spirito Santo.[29] Egli utilizzava il termine nella prima accezione quando affermava che la fede della Chiesa non poteva sbagliare, che la Chiesa non poteva ingannarsi su ciò che credeva e che l’infallibilità non apparteneva soltanto alla Chiesa del passato, ma anche alla Chiesa nella sua costituzione presente. Utilizzava «Chiesa» nella seconda accezione quando asseriva che i suoi pastori erano infallibili nel momento in cui davano giudizi dottrinali autorizzati, in quanto assistiti in questo compito dallo Spirito Santo [30] (cf. Ef 4; 1Tm 3).



32. Roberto Bellarmino (1542-1621), nella sua difesa della fede cattolica contro le critiche della Riforma, prendeva come punto di partenza la Chiesa visibile, «l’universalità di tutti i credenti». Per lui tutto ciò che i fedeli ritenevano de fide, e tutto ciò che i vescovi insegnavano come appartenente alla fede, era necessariamente vero e doveva essere creduto.[31] Egli sosteneva che i concili della Chiesa non potevano errare poiché possedevano questo consensus Ecclesiæ universalis.[32]



33. Altri teologi del periodo post-tridentino continuarono ad affermare l’infallibilità dell’Ecclesia(intendendo la Chiesa intera, compresi i suoi pastori) in credendo, ma cominciarono a distinguere in maniera piuttosto netta i ruoli della «Chiesa docente» e della «Chiesa discente». L’accento, in precedenza posto sull’infallibilità «attiva» dell’Ecclesia in credendo, fu progressivamente spostato sul ruolo attivo dell’Ecclesia docens. Divenne normale affermare che l’Ecclesia discens aveva soltanto un’infallibilità «passiva».



d) Il XIX secolo



34. Il XIX secolo fu un periodo decisivo per la dottrina del sensus fidei fidelium. Esso vide nella Chiesa cattolica una nuova consapevolezza della storicità, il rifiorire dell’interesse per i padri della Chiesa e per i teologi medievali, e uno studio rinnovato del mistero della Chiesa, in parte in risposta alle critiche provenienti dai rappresentanti della cultura moderna e dai cristiani di altre tradizioni, e in parte in virtù di una maturazione interna. In questo contesto, teologi cattolici come Johann Adam Möhler (1796-1838), Giovanni Perrone (1794-1876) e John Henry Newman prestarono nuova attenzione al sensus fidei fidelium in quanto locus theologicus, al fine di spiegare in che modo lo Spirito Santo custodisce la Chiesa intera nella verità e di giustificare gli sviluppi dottrinali della Chiesa. I teologi misero in luce il ruolo attivo della Chiesa intera, e in modo particolare il contributo dei fedeli laici, nella custodia e nella trasmissione della fede della Chiesa. Il magistero confermò implicitamente questa idea nel processo che condusse alla definizione dell’Immacolata concezione (1854).



35. Volendo difendere la fede cattolica contro il razionalismo Johann Adam Möhler, studioso dell’università di Tubinga, cercò di descrivere la Chiesa come un organismo vivente e di cogliere i principi che reggono lo sviluppo della dottrina. Secondo lui, è lo Spirito Santo che anima, guida e unisce i fedeli in quanto comunità in Cristo, suscitando in essi una «coscienza» ecclesiale della fede (Gemeingeist o Gesamtsinn), qualcosa che si apparenta a un Volkgeist o spirito nazionale.[33]Questo sensus fidei, che è la dimensione soggettiva della Tradizione, comprende necessariamente un elemento oggettivo, l’insegnamento della Chiesa, poiché il «senso» cristiano dei fedeli, che vive nei loro cuori ed è virtualmente equivalente alla Tradizione, non è mai separato dal suo contenuto.[34]



36. John Henry Newman studiò il sensus fidei fidelium in primo luogo per chiarire i propri dubbi riguardo allo sviluppo della dottrina. Egli fu il primo a pubblicare un trattato interamente dedicato a questo argomento, An Essay on the Development of Christian Doctrine (1845), e ad enunciare le caratteristiche di uno sviluppo fedele. Per distinguere fra sviluppo autentico ed erroneo, egli adottò la norma di Agostino – l’assenso generale della Chiesa intera, «securus judicat orbis terrarum» – ma vide pure che un’autorità infallibile era necessaria per custodire la Chiesa nella verità.



37. Utilizzando le idee di Möhler e di Newman,[35] Perrone ritrovò la concezione patristica delsensus fidelium per rispondere al desiderio ampiamente diffuso di una definizione pontificia dell’Immacolata concezione di Maria. Egli rinvenne nel consenso unanime, o conspiratio, dei fedeli e dei loro pastori una garanzia dell’origine apostolica di quella dottrina. Sostenne che i più eminenti teologi attribuivano valore di prova al sensus fidelium, e che la forza di uno degli «strumenti della tradizione» poteva supplire al difetto di un altro, ad esempio «il silenzio dei Padri».[36]



38. È evidente l’influenza delle ricerche di Perrone sulla decisione di papa Pio IX di procedere alla definizione dell’Immacolata concezione, soprattutto se si considera che prima di promulgare la definizione il papa fece richiesta ai vescovi di tutto il mondo di un rapporto scritto circa la devozione all’Immacolata concezione della Vergine nel loro clero e tra i loro fedeli.[37] Nella costituzione apostolica che contiene la definizione, Ineffabilis Deus (1854), papa Pio IX affermava che, benché egli già conoscesse il pensiero dei vescovi in proposito, aveva domandato a loro di informarlo sulla pietà e sulla devozione dei fedeli al riguardo e concludeva che «la sacra Scrittura, la veneranda Tradizione, il costante sentire della Chiesa, [perpetuus Ecclesiæ sensu], il singolare consenso dei vescovi cattolici e dei fedeli, [singularis catholicorum Antistitum ac fidelium conspiratio], e gli atti memorabili e le costituzioni dei nostri predecessori» illustravano tutti in modo mirabile questa dottrina e la proclamavano.[38] Utilizzava dunque il linguaggio del trattato di Perrone per descrivere la testimonianza concorde dei vescovi e dei fedeli. Sottolineando l’uso del termine conspiratioNewman commentò: «Entrambe, la Chiesa docente e la Chiesa discente, sono riunite come una sola duplice testimonianza, si illustrano a vicenda e non si devono mai separare».[39]



39. Quando più tardi scrisse On Consulting the Faithful in Matters of Doctrine (1859), lo scopo di Newman era mostrare che i fedeli (in quanto distinti dai loro pastori) hanno un ruolo proprio e attivo da svolgere nella custodia e nella trasmissione della fede. «La Tradizione degli apostoli» è «affidata alla Chiesa intera nelle sue diverse parti e funzioni per modum unius», ma i vescovi e i fedeli laici le rendono testimonianza in maniera differente. La Tradizione, egli afferma, «si manifesta in modo diverso nelle diverse epoche: talvolta per voce degli episcopati, talvolta dei dottori, talvolta del popolo, talvolta di liturgie, riti, cerimonie e costumi, di avvenimenti, controversie, movimenti e di tutti gli altri fenomeni che sono compresi sotto il nome di storia».[40] Secondo Newman «vi è qualcosa nella “pastorum et fidelium conspiratio” che non si trova nei pastori soltanto».[410] In quest’opera Newman cita ampiamente gli argomenti che circa un decennio prima Giovanni Perrone aveva proposto in favore della definizione dell’Immacolata concezione.[42]



40. La costituzione dogmatica Pastor æternus del concilio Vaticano I, che definiva il magistero infallibile del papa, non ha affatto ignorato il sensus fidei fidelium; al contrario l’ha presupposto. Il progetto originale della costituzione, Supremi pastoris, che servì da base per la Pastor æternus, aveva un capitolo sull’infallibilità della Chiesa (c. IX).[43] Tuttavia, quando l’ordine del giorno fu modificato al fine di affrontare la questione dell’infallibilità pontificia, la discussione di questo principio fu aggiornata e mai ripresa. Nella sua relatio sulla definizione dell’infallibilità pontificia il vescovo mons. Vincent Gasser spiega nondimeno che l’assistenza speciale accordata al papa non lo colloca a parte rispetto alla Chiesa e non esclude né consultazione né cooperazione.[44] La definizione dell’Immacolata concezione fu l’esempio, afferma, di un caso «così difficile che il papa giudicò necessario per propria informazione interrogare i vescovi, in quanto mezzi ordinari, sul pensiero delle Chiese».[45] In una formula voluta per escludere il gallicanismo, Pastor æternusaffermava che le definizioni dottrinali ex cathedra del papa in materia di fede e di morale erano irreformabili «per sé stesse, e non in virtù del consenso della Chiesa [ex sese non autem ex consensu Ecclesiæ]»,[46] ma ciò non rende il consensus Ecclesiæ superfluo. Ciò che viene escluso è la teoria secondo la quale una tale definizione richiederebbe questo consenso, antecedente o conseguente, come condizione per essere autorevole.[47] In risposta alla crisi modernista, un decreto del Sant’Uffizio, Lamentabili (1907), confermò la libertà dell’Ecclesia docens nei confronti dell’Ecclesia discens. Il decreto censurava una proposta secondo la quale i pastori non potrebbero insegnare se non quanto i fedeli crederebbero già.[48]



e) Il XX secolo



41. Nel XX secolo i teologi cattolici hanno esplorato la dottrina del sensus fidei fidelium nel contesto di una teologia della Tradizione, di un’ecclesiologia rinnovata e di una teologia del laicato. Hanno sottolineato che «la Chiesa» non s’identifica con i suoi pastori; che la Chiesa intera, per l’opera dello Spirito Santo, è il soggetto o «l’organo» della Tradizione; e che i laici hanno un ruolo attivo nella trasmissione della fede apostolica. Il magistero ha fatto propri questi sviluppi sia al momento della consultazione che portò alla definizione della gloriosa Assunzione della beata vergine Maria sia con il concilio Vaticano II, che ha ristabilito e confermato la dottrina del sensus fidei.



42. Nel 1946, papa Pio XII si conformò alla disposizione del suo predecessore e inviò una lettera enciclica, Deiparæ virginis Mariæ, ai vescovi di tutto il mondo per chiedere loro di informarlo «sulla devozione del vostro clero e del vostro popolo (considerando la loro fede e la loro pietà) verso l’Assunzione della beatissima vergine Maria». Riaffermava così la prassi consistente nel consultare i fedeli prima di una definizione dogmatica, e nella costituzione apostolicaMunificentissimus Deus (1950) offrì testimonianza della «risposta pressoché unanimemente affermativa» che aveva ricevuto.[49] La credenza nell’Assunzione di Maria era di fatto «insita profondamente nell’animo dei fedeli».[50] Pio XII fece riferimento al «concorde insegnamento del magistero ordinario della Chiesa e la fede concorde del popolo cristiano» e disse, questa volta a proposito della credenza nell’Assunzione di Maria, ciò che papa Pio IX aveva detto a proposito della credenza nella sua Immacolata concezione, ossia che esisteva una «singularis catholicorum Antistitum et fidelium conspiratio». Aggiunse che questa conspiratio mostrava «in modo certo e infallibile» che l’Assunzione di Maria era «verità rivelata da Dio e contenuta in quel divino deposito che Cristo affidò alla sua Sposa, perché lo custodisse fedelmente e infallibilmente lo dichiarasse».[51] In entrambi i casi le definizioni pontificie confermavano dunque e celebravano la fede ritenuta saldamente dai fedeli.



43. Yves M.-J. Congar (1904-1995) apportò un contributo significativo allo sviluppo della dottrina del sensus fidei fidelis e del sensus fidei fidelium. Nel suo Jalons pour une théologie du laïcat(pubblicato per la prima volta nel 1953), egli esaminò questa dottrina in termini di partecipazione del laicato alla funzione profetica della Chiesa. Congar conosceva bene l’opera di Newman e adottò il medesimo schema (ossia la triplice funzione della Chiesa e il sensus fidelium quale espressione della funzione profetica), senza tuttavia riferirlo direttamente a Newman.[52] Egli descrisse il sensus fidelium come un dono dello Spirito Santo «concesso al tempo stesso sia alla gerarchia sia al corpo tutto intero dei fedeli», e distinse la realtà oggettiva di fede (che costituisce la Tradizione) dal suo aspetto soggettivo, la grazia della fede.[53] Laddove nel passato gli autori avevano sottolineato la distinzione fra l’Ecclesia docens e l’Ecclesia discens, Congar ebbe cura di mostrare la loro unità organica. «La Chiesa credente e amante, ossia il corpo dei fedeli, è infallibile nel possesso vivente della fede, non in un atto o in un giudizio particolari», scriveva.[54] L’insegnamento della gerarchia è a servizio della comunione.



44. L’insegnamento del concilio Vaticano II riflette ampiamente il contributo di Congar. Il primo capitolo della Lumen gentium, sul «mistero della Chiesa», insegna che lo Spirito Santo «dimora nella Chiesa e nei cuori dei fedeli come in un tempio». «Egli introduce la Chiesa nella pienezza della verità (cf. Gv 16,13), la unifica nella comunione e nel ministero, la provvede e dirige con diversi doni gerarchici e carismatici, la abbellisce dei suoi frutti (cf. Ef 4,11-12; 1Cor 12,4; Gal 5,22)».[55]Il capitolo II prosegue trattando la Chiesa come un tutto, «il popolo di Dio», prima di ogni distinzione fra laici e clero. Il passaggio che cita il sensus fidei (Lumen gentium, n. 12) insegna che avendo «l’unzione che viene dal Santo (cf. 1Gv 2,20.27)» la «totalità dei fedeli (...) non può sbagliarsi nel credere». «Lo Spirito di verità» suscita e mantiene un «senso soprannaturale della fede [supernaturali sensu fidei]», che si manifesta «quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” mostra l’universale suo consenso in materia di fede e di morale». Grazie al sensus fidei, «sotto la guida del sacro magistero, il quale permette, se gli si obbedisce fedelmente, di ricevere non più una parola umana, ma veramente la parola di Dio (cf. 1Ts 2,13), il popolo di Dio aderisce indefettibilmente alla “fede trasmessa ai santi una volta per sempre” (Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita». È il mezzo attraverso il quale il popolo prende parte all’«ufficio profetico di Cristo».[56]



45. La Lumen gentium descrive poi, rispettivamente ai capitoli III e IV, come Cristo esercita il suo ufficio profetico non soltanto per mezzo dei pastori della Chiesa, ma anche dei fedeli laici. La costituzione insegna che «fino alla piena manifestazione della gloria» il Signore adempie il suo ufficio «non solo per mezzo della gerarchia, che insegna in nome e con la potestà di lui, ma anche per mezzo dei laici», «che perciò costituisce suoi testimoni provvedendoli del senso della fede e della grazia della parola [sensu fidei et gratia verbi instruit] (cf. At 2,17-18; Ap 19,10), perché la forza del Vangelo risplenda nella vita quotidiana, familiare e sociale». Fortificati dai sacramenti, «i laici diventano araldi efficaci della fede in ciò che si spera (cf. Eb 11,1)»; «i laici (...) possono e devono esercitare una preziosa azione per l’evangelizzazione del mondo».[57] Qui, il sensus fidei è presentato come un dono di Cristo ai fedeli, e ancora una volta è descritto come una capacità attiva mediante la quale i fedeli sono resi capaci di comprendere, vivere e annunciare le verità della rivelazione divina. È la base della loro opera di evangelizzazione.



46. Il sensus fidei è evocato anche nell’insegnamento del Concilio sullo sviluppo della dottrina, nel contesto della trasmissione della fede apostolica. La Dei Verbum dice che la Tradizione apostolica «progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo». «Cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse». E il Concilio identifica tre strade attraverso le quali ciò si verifica: «Sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cf. Lc 2,19 e 51), sia con l’intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro [i vescovi] i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità».[58] Sebbene questo passaggio non utilizzi l’espressione sensus fidei, è chiaro che la contemplazione, lo studio e l’intelligenza dei credenti ai quali fa riferimento sono tutti chiaramente associati al sensus fidei, e la maggioranza dei commentatori sono concordi nel ritenere che i padri conciliari si riferivano consapevolmente alla teoria dello sviluppo della dottrina di Newman. Quando si legge questo testo alla luce della descrizione del sensus fidei che ne fa Lumen gentium n. 12 – come un senso soprannaturale della fede, suscitato dallo Spirito Santo, mediante il quale il popolo sotto la guida dei pastori aderisce indefettibilmente alla fede –, si vede subito che esso esprime la stessa idea. Quando fa riferimento alla «singolare unità di spirito» che deve esistere fra i vescovi e i fedeli nella prassi e nella confessione della fede trasmessa dagli apostoli, Dei Verbum utilizza infatti l’espressione stessa che si trova nelle definizione dei due dogmi mariani, «singularis fiat Antistitum et fidelium conspiratio».[59]



47. Dopo il Concilio il magistero ha riaffermato numerosi punti chiave dell’insegnamento del Concilio sul sensus fidei.[60] Ha trattato inoltre una nuova questione, ossia l’importanza di non presupporre che l’opinione pubblica, sia all’interno della Chiesa sia al di fuori di essa, coincida necessariamente con il sensus fidei (fidelium). Nell’esortazione apostolica post sinodaleFamiliaris consortio (1981), papa Giovanni Paolo II ha esaminato quali rapporti «il soprannaturale senso della fede» può avere con il «consenso dei fedeli» e con un’opinione di maggioranza determinata da ricerche sociologiche e statistiche. Il sensus fidei, egli scrive, «non consiste (…) solamente o necessariamente nel consenso dei fedeli». Sta ai pastori della Chiesa «promuovere il senso della fede in tutti i fedeli, vegliare e giudicare autorevolmente la genuinità delle sue espressioni, educare i credenti a un discernimento evangelico sempre più maturo».[61]



II. Il sensus fidei
nella vita personale del credente



48. Questo secondo capitolo si concentra sulla natura del sensus fidei fidelis. Il quadro di riferimento è quello degli argomenti e delle categorie che la teologia classica offre per comprendere come la fede si attua nella vita del singolo credente. Benché la visione biblica della fede sia più ampia, la comprensione classica mette in rilievo un aspetto essenziale: l’adesione dell’intelletto, mosso dall’amore, alla verità rivelata. Questa concettualizzazione della fede è ancora utile ai nostri giorni per illuminare la comprensione del sensus fidei fidelis. In questo quadro, il capitolo considera inoltre alcune manifestazioni del sensus fidei fidelis nella vita personale dei credenti, essendo chiaro che gli aspetti personali ed ecclesiali del sensus fidei sono inseparabili.



1. Il sensus fidei come istinto di fede



49. Il sensus fidei fidelis è una sorta di istinto spirituale che permette al credente di giudicare in maniera spontanea se uno specifico insegnamento o una prassi particolare sono o meno conformi al Vangelo e alla fede apostolica. È intrinsecamente legato alla virtù della fede stessa; deriva dalla fede e ne costituisce una proprietà.[62] Lo si paragona a un istinto perché non è in primo luogo il risultato di una deliberazione razionale, ma prende piuttosto la forma di una conoscenza spontanea e naturale, una sorta di percezione (aisthêsis).



50. Il sensus fidei fidelis proviene innanzitutto e soprattutto dalla connaturalità che la virtù della fede stabilisce fra il soggetto credente e l’oggetto autentico della fede, ossia la verità di Dio rivelata in Cristo Gesù. In generale, la connaturalità fa riferimento a una situazione in cui un’entità A intrattiene con un’altra entità B una relazione così intima che A prende parte alle disposizioni naturali di B, come se si trattasse delle sue proprie. La connaturalità permette una forma di conoscenza originale e profonda. Nella misura, ad esempio, in cui due amici sono uniti, il primo diviene capace di giudicare in modo spontaneo ciò che conviene all’altro, poiché condivide le inclinazioni stesse dell’altro e comprende così per connaturalità ciò che è buono o cattivo per lui. In altre parole, si tratta di una conoscenza di ordine diverso dalla conoscenza oggettiva, la quale procede per via di concettualizzazione e di ragionamento. È una conoscenza per empatia, o una conoscenza del cuore.



51. Ogni virtù rende connaturale il proprio soggetto, ossia chi la possiede, al proprio oggetto, ossia a un certo tipo d’azione. Per virtù si intende qui una disposizione stabile (o habitus) della persona a esercitare un certo tipo di comportamento di ordine intellettuale o morale. La virtù è una sorta di «seconda natura» per la quale la persona umana costruisce se stessa attualizzando liberamente e in maniera conforme alla retta ragione i dinamismi iscritti nella natura umana. Essa conferisce così un orientamento definito e stabile all’attività delle facoltà naturali; le dirige verso comportamenti che la persona virtuosa compirà ormai «naturalmente» con «facilità, padronanza di sé e gioia».[63]



52. Ogni virtù ha un duplice effetto: in primo luogo inclina naturalmente la persona che la possiede verso un oggetto (un certo tipo d’azione) e in secondo luogo la allontana spontaneamente da tutto ciò che è contrario a tale oggetto. Ad esempio, la persona che ha sviluppato la virtù della castità possiede una sorta di «sesto senso», una sorta di «istinto spirituale»[64] che le permette di discernere qual è il giusto atteggiamento da adottare anche nelle situazioni più complesse, cogliendo spontaneamente ciò che le conviene fare e ciò che occorre evitare. La persona casta adotta così come istintivamente il giusto atteggiamento, mentre il ragionamento concettuale del moralista può lasciarlo perplesso e indeciso.[65]



53. Il sensus fidei è la forma che assume questo istinto, che accompagna ogni virtù, nel caso della virtù della fede. «Come gli altri habitus virtuosi fanno sì che un uomo veda ciò che gli conviene secondo tali habitus, così per l’habitus della fede lo spirito dell’uomo è inclinato a dare il proprio assenso a ciò che conviene alla vera fede, e non altro».[66] La fede, in quanto virtù teologale, rende il credente capace di partecipare alla conoscenza che Dio ha di se stesso e di tutte le cose. Nel credente essa prende la forma di una «seconda natura».[67] Mediante la grazia e le virtù teologali i credenti divengono «partecipi della natura divina» (2Pt 1,4) e sono in qualche modo resi connaturali a Dio. Pertanto, essi reagiscono spontaneamente in funzione di questa natura partecipata, nello stesso modo in cui gli esseri viventi reagiscono istintivamente a ciò che conviene o meno alla propria natura.



54. A differenza della teologia, che si può descrivere come una scientia fidei, il sensus fidei fidelisnon è una conoscenza riflessiva dei misteri della fede, che sviluppa concetti e utilizza procedure razionali per giungere alle conclusioni. Come indica il nome (sensus), si apparenta piuttosto a una reazione naturale, immediata e spontanea, paragonabile a un istinto vitale o a una sorta di «fiuto» con il quale il credente aderisce spontaneamente a ciò che è conforme alla verità della fede ed evita ciò che vi si oppone.[68]



55. Il sensus fidei fidelis è di per sé infallibile in ciò che riguarda il proprio oggetto, la vera fede.[69] Tuttavia, nell’universo mentale concreto del credente le giuste intuizioni del sensus fideipossono trovarsi mescolate a diverse opinioni puramente umane, o anche a errori dovuti ai limiti di un dato contesto culturale.[70] «Se dunque la fede teologale in quanto tale non può ingannarsi, il credente può invece avere delle opinioni erronee, poiché tutti i suoi pensieri non procedono dalla fede. Le idee che circolano nel Popolo di Dio non sono tutte in coerenza con la fede».[71]



56. Il sensus fidei fidelis deriva dalla virtù teologale della fede. Questa virtù è una disposizione interiore, suscitata dall’amore, ad aderire senza riserve alla totalità della verità rivelata da Dio non appena questa è percepita come tale. La fede non implica dunque necessariamente una conoscenza esplicita della totalità della verità rivelata.[72] Ne consegue che una certa forma di sensus fidei può esistere in coloro che «battezzati, sono insigniti del nome cristiano, ma non professano integralmente la fede».[73] La Chiesa cattolica deve dunque essere attenta a ciò che le può dire lo Spirito per mezzo dei credenti delle Chiese e delle comunità ecclesiali che non sono in piena comunione con essa.



57. Essendo una proprietà della virtù teologale della fede, il sensus fidei fidelis si sviluppa in proporzione allo sviluppo della virtù della fede. Più la virtù della fede si radica nel cuore e nello spirito dei credenti e informa la loro vita quotidiana, più il sensus fidei fidelis in essi si sviluppa e si fortifica. Ma poiché la fede, intesa come forma di conoscenza, è fondata sull’amore, per animarla e informarla si rende necessaria la carità, al fine di farne una fede viva e vissuta (fides formata). Il rafforzamento della fede nel credente dipende dunque particolarmente dalla crescita in lui della carità, e il sensus fidei fidelis è per questa ragione proporzionale alla santità della sua vita. San Paolo insegna che «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Ne consegue che lo sviluppo del sensus fidei nello spirito del credente si deve in particolare all’azione dello Spirito Santo. In quanto Spirito d’amore, che infonde l’amore nel cuore umano, lo Spirito Santo apre ai credenti la possibilità di una conoscenza più profonda e più intima di Cristo Verità, sulla base di un’unione di carità: «Mostrare la verità conviene propriamente allo Spirito Santo, poiché è l’amore che svela i segreti».[74]



58. La carità permette il dispiegarsi dei doni dello Spirito Santo nei credenti, conducendoli a una comprensione superiore delle cose della fede «con ogni sapienza e intelligenza spirituale» (Col 1,9).[75] In effetti le virtù teologali si esprimono pienamente nella vita del credente solo se egli si lascia guidare dallo Spirito Santo (cf. Rm 8,14). I doni dello Spirito sono precisamente le disposizioni interiori gratuite e infuse che fungono da fulcro per l’azione dello Spirito nella vita del credente. Per mezzo di tali doni dello Spirito, specialmente quelli dell’intelligenza e della scienza, i credenti sono resi capaci di comprendere intimamente «l’esperienza delle cose spirituali»[76] e di rifiutare qualsiasi interpretazione contraria alla fede.



59. Vi è in ogni credente un’interazione vitale fra il sensus fidei e il modo in cui egli vive la fede nei vari ambiti della sua esistenza personale. Da una parte, il sensus fidei illumina e guida il modo in cui il credente attua la propria fede. Dall’altra, dal momento che custodisce i comandamenti e mette in pratica la fede, il credente ne acquisisce una più profonda comprensione: «Chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,21). La pratica della fede nella realtà concreta delle situazioni esistenziali nelle quali si trova collocato per le proprie relazioni familiari, professionali e culturali, arricchisce l’esperienza personale del credente. Ciò gli permette di vedere più nettamente il valore e i limiti di una data dottrina e di proporre le vie di una formulazione più adeguata. Ecco perché coloro che insegnano in nome della Chiesa dovrebbero prestare particolare attenzione all’esperienza dei credenti, specialmente a quella dei laici che si impegnano a praticare l’insegnamento della Chiesa nei campi in cui possiedono specifiche esperienze e competenze.



2. Le manifestazioni del sensus fidei
nella via personale dei credenti



60. Si possono segnalare tre manifestazioni principali del sensus fidei fidelis nella vita personale del credente. Il sensus fidei fidelis permette a ogni credente: 1) di discernere se un insegnamento particolare o una prassi specifica che incontra nella Chiesa sono coerenti o meno con la vera fede per la quale egli vive nella comunione ecclesiale (cf. sotto, nn. 61-63); 2) di distinguere nella predicazione l’essenziale dal secondario (n. 64); e 3) di determinare e mettere in pratica la testimonianza da rendere a Gesù Cristo nel contesto storico e culturale particolare nel quale egli vive (n. 65).



61. «Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio, perché molti falsi profeti sono venuti nel mondo» (1Gv 4,1). Ilsensus fidei fidelis conferisce al credente la capacità di discernere se un insegnamento o una prassi sono coerenti con la vera fede della quale egli già vive. Se i singoli credenti percepiscono o «sentono» questa coerenza, spontaneamente accordano l’adesione interiore a quegli insegnamenti, o si impegnano personalmente a quelle pratiche, che si tratti di verità già esplicitamente insegnate o non ancora.



62. Il sensus fidei fidelis consente anche a ogni credente di percepire una disarmonia, un’incoerenza o una contraddizione fra un insegnamento o una prassi e la fede cristiana autentica di cui vive. Egli reagisce allora alla maniera di un melomane che percepisce le note sbagliate nell’esecuzione di un brano musicale. In questo caso i credenti resistono interiormente agli insegnamenti o alle pratiche in questione e non li accettano o non vi prendono parte. «L’habitusdella fede possiede questa capacità grazie alla quale il credente è trattenuto dal dare il proprio assenso a ciò che è contrario alla fede, proprio come la castità si trattiene in relazione a ciò che è contrario alla castità».[77]



63. Avvertiti dal proprio sensus fidei, i singoli credenti possono giungere a rifiutare l’assenso a un insegnamento dei propri legittimi pastori se non riconoscono in tale insegnamento la voce di Cristo, il buon Pastore. «Le pecore lo seguono [il buon Pastore] perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv 10,4-5). Per san Tommaso un credente, anche privo di competenza teologica, può e anzi deve resistere in virtù del sensus fidei al suo vescovo se questo predica cose eterodosse.[78]In tal caso il credente non innalza se stesso a criterio ultimo della verità di fede: al contrario, di fronte a una predicazione materialmente «autorizzata» ma che lo turba, senza che ne possa spiegare esattamente la ragione, egli differisce il proprio assenso e si appella interiormente all’autorità superiore della Chiesa universale.[79]



64. Il sensus fidei fidelis permette al credente di distinguere anche nella predicazione fra ciò che è fondamentale per la fede cattolica autentica e ciò che, senza essere formalmente contrario, è solo accidentale o anche indifferente in relazione all’essenza della fede. Ad esempio, in virtù del lorosensus fidei, i singoli credenti possono relativizzare certe forme particolari di devozione mariana nel nome stesso della propria adesione al culto autentico della vergine Maria. Possono anche prendere le distanze da una predicazione che confonde indebitamente la fede cristiana a scelte politiche particolari. Mantenendo lo spirito del credente centrato su ciò che è essenziale alla fede, il sensus fidei fidelis garantisce un’autentica libertà cristiana (cf. Col 2,16-23) e contribuisce alla purificazione della fede.



65. Grazie al sensus fidei fidelis, e col sostegno della prudenza soprannaturale donata dallo Spirito, il credente è in grado di percepire, all’interno dei nuovi contesti storici e culturali, quali possono essere i mezzi più adatti a rendere una testimonianza autentica alla verità di Gesù Cristo e di conformarvi le proprie azioni. Il sensus fidei fidelis riveste così una dimensione prospettica nella misura in cui, fondandosi sulla fede già vissuta, permette al credente di anticipare uno sviluppo o un’esplicitazione di una data prassi cristiana. In forza del legame reciproco fra la pratica della fede e l’intelligenza del suo contenuto, il sensus fidei fidelis contribuisce affinché emergano e siano illuminati determinati aspetti della fede cattolica che prima erano solo impliciti; e in forza del reciproco legame fra il sensus fidei del credente e il sensus fidei della Chiesa in quanto tale, ovvero il sensus fidei fidelium, tali sviluppi non sono mai soltanto privati, ma sempre di natura ecclesiale. I fedeli sono continuamente in relazione gli uni con gli altri, come pure con il magistero e con i teologi, nella comunione ecclesiale.



 



 

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