. Al primo posto mettete la confessione e poi chiedete una direzione spirituale, se lo ritenete necessario. La realtà dei miei peccati deve venire come prima cosa. Per la maggior parte di noi vi è il pericolo di dimenticare di essere peccatori e che come peccatori dobbiamo andare alla confessione. Dobbiamo sentire il bisogno che il sangue prezioso di Cristo lavi i nostri peccati. Dobbiamo andare davanti a Dio e dirgli che siamo addolorati per tutto quello che abbiamo commesso, che può avergli recato offesa. (Beata Madre Teresa di Calcutta)
 
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LA FELICITÀ

Ultimo Aggiornamento: 04/02/2015 15:51
04/02/2015 15:44

S. Agostino
AGOSTINO DI IPPONA

LA FELICITÀ




Le condizioni della vita e la vocazione alla filosofia (1, 1-5)

La sventura e la vocazione alla filosofia.

1. 1. O coltissimo ed egregio Teodoro, se il tragitto indicato dalla ragione e la sola scelta conducessero al porto della filosofia, dal quale si può sbarcare nella regione e terraferma della felicità, non saprei se può offendere l’affermazione che in molto minor numero sarebbero gli uomini che lo raggiungono. Adesso ancora, come osserviamo, di rado e pochi assai vi arrivano. Infatti ci ha lanciato in questo mondo come in un mare tempestoso, irrazionalmente e a caso, almeno all’apparenza, o Dio, o la natura, o la necessità ovvero una nostra scelta o alcuni di questi principi congiunti o tutti insieme. Il problema è di difficile soluzione. Tu hai cominciato a chiarirlo. Nessuno potrebbe dunque sapere dove dirigersi o per dove ritornare se talora, contro la nostra scelta e mentre ci affatichiamo in direzione opposta, una qualche tempesta, di cui gli ignoranti possono ritenere che ci allontani dalla meta, non ci gettasse, senza la nostra consapevolezza e malgrado il nostro errore, nella terra tanto desiderata.

Le tre categorie di naviganti.

1. 2. Ritengo quindi di poter classificare gli individui che la filosofia può accogliere, in tre categorie di naviganti. La prima è di coloro che, raggiunto l’uso della ragione, senza sforzo, con qualche leggero colpo di remi, salpano senza tentare il largo e si rifugiano nella tranquillità. Di là erigono per quanti è possibile, affinché si sforzino di raggiungerli, il faro splendente di qualche loro opera. La seconda categoria, opposta alla precedente, è di coloro che, ingannati dalla fallace superficie del mare, hanno deciso d’avanzare al largo ed osano allontanarsi dalla patria e spesso se ne dimenticano. E se un vento, che credono favorevole, li sospingerà da poppa non saprei in quale direzione e in maniera assai occulta, incorrono nel colmo dell’infelicità. Ma ne sono orgogliosi e soddisfatti perché fino a tal punto li favorisce la serenità assai ingannevole dei piaceri e degli onori. E ad essi non si deve augurare altro che una sfavorevole e, se è poco, una veramente crudele tempesta, proprio in quelle soddisfazioni da cui sono trattenuti nel piacere ed inoltre il vento contrario che li conduca, magari piangenti e gementi, a godimenti sicuri e stabili. Tuttavia taluni di questa categoria, non essendosi ancora molto allontanati, sono ricondotti da avversità non tanto gravi. Sono gli uomini che, quando le lacrimevoli perdite delle loro sostanze o le angustianti difficoltà per futili interessi li stimoleranno a leggere, poiché non rimane loro altro da fare, libri di uomini dotti e molto saggi, si svegliano, per così dire, nel porto stesso, da cui non possono farli uscire le lusinghe del mare troppo falsamente tranquillo. Fra le due precedenti v’è una terza categoria. È di coloro che o fin dall’adolescenza, ovvero dopo essere stati a lungo e duramente sballottati qua e là, tengono lo sguardo volto ad alcuni fari e, sebbene fra i marosi, si ricordano della patria diletta e con dritto corso senza inganni e senza indugi vi ritornano. O più spesso lasciando la retta via a causa delle nebbie o fissando lo sguardo su stelle che declinano all’orizzonte o presi da qualche allettamento, rimandano il tempo propizio alla navigazione, errano piuttosto a lungo e spesso anche rischiano di naufragare. Anche essi spesso sono ricondotti alla auspicata vita serena dalla sventura nei beni caduchi, la quale può apparire come tempesta contraria ai loro tentativi.

Il monte della vanagloriosa filosofia classica.

1. 3. Tutti coloro che in una maniera o nell’altra sono condotti alla regione della felicità devono temere fortemente ed evitare con ogni cura un alto monte che si erge proprio davanti al porto e lascia un adito assai stretto a coloro che vi entrano. Esso è tanto splendido ed è fasciato da luce così ingannevole che invita a soffermarvisi coloro che arrivano e non sono ancora entrati e lusinga di soddisfare, sostituendosi alla regione della felicità, la loro aspirazione. E spesso adesca anche gli uomini giunti al porto e li fa tornare indietro allettandoli con la propria altezza, da cui è gradevole disprezzare gli altri. Essi tuttavia ammoniscono i frequenti viaggiatori di non finire sugli scogli sommersi nelle acque e di non credere che sia facile salire fino a loro e con molta umanità indicano la via da seguire senza pericolo a causa della vicinanza della regione felice. E poiché non vogliono averli soci di una futile gloria, mostrano il luogo della sicurezza. Infatti non altro la ragione vuol fare intendere per alto monte, temibile a coloro i quali si avvicinano o sono già entrati nella filosofia, che l’orgogliosa aspirazione è gloria caduca e vuota. Esso infatti nell’interno è cavo e privo di compattezza sicché, squarciandosi il fragile suolo, può trascinare nella rovina e inghiottire i tronfi individui che vi camminano sopra e sottrarre ad essi, piombati nelle tenebre, la splendida patria che avevano intravisto.

Le esperienze spirituali di Agostino.

1. 4. Stando così le cose, ascolta, o mio Teodoro, poiché a te solo mi rivolgo e te ritengo capace di comprendere il mio intento, ascolta dunque quale delle tre categorie di persone mi ha fatto rivolgere a te, in quale luogo ritengo di essere e quale aiuto mi attendo da te. Fin dal diciannovesimo anno della mia vita, dopo aver letto, nella scuola del retore, il libro di Cicerone, dal titolo L’Ortensio, fui preso da tanto amore per la filosofia che subito decisi di dedicarmi ad essa. Ma non mancarono nebbie per cui il mio navigare fu senza mèta e a lungo, lo confesso, ebbi fisso lo sguardo su stelle che tramontavano nell’oceano e che inducevano nell’errore. Difatti una falsa e puerile interpretazione della religione mi distoglieva dall’indagine. Reso più maturo, mi allontanai dalla foschia e mi creai la persuasione che ci si dovesse affidare più a coloro che usano la ragione che a coloro che usano l’autorità. M’incontrai allora con individui i quali ritenevano che la luce sensibile si deve venerare fra le cose altamente divine. Non ero d’accordo, ma supponevo che intendessero celare una nobile dottrina in concetti arcani. In seguito me li avrebbero svelati. Ma quando, dopo averli esaminati attentamente, li abbandonai soprattutto con la traversata di questo mare, a lungo gli accademici tennero il mio timone fra i marosi in lotta con tutti i venti. Alfine giunsi in questa regione e qui conobbi la stella polare cui affidarmi. Avvertii infatti spesso, nei discorsi del nostro vescovo e talora nei tuoi, che all’idea di Dio non si deve associare col pensiero nulla di materiale e neanche all’idea dell’anima che nel mondo è il solo essere assai vicino a Dio. Ma, lo confesso, ero trattenuto dal volare in seno alla filosofia dagli allettamenti della donna e dell’onore con questa mira che, una volta conseguitili, sorte che è toccata a pochi fortunati, alfine a vele spiegate e con tutta la forza dei remi sarei potuto rifugiarmi nel seno della filosofia e ottenervi la quiete. E letti assai pochi libri di Plotino, di cui so che sei grande ammiratore, e, per quanto mi fu possibile, messa a confronto con essi anche l’autorità che ci ha trasmesso la sacra dottrina, m’infiammai talmente da voler levare subitamente tutte le ancore. Mi trattenne l’apprezzamento di alcune persone. Che altro mancava se non che venisse in aiuto a me, che stavo gingillandomi in problemi di poco conto, una tempesta che può sembrare contraria? E proprio a proposito mi assalì un così grave mal di petto che non avendo forze per sostenere il peso della professione, con la quale avrei forse volto le vele verso le Sirene, ho abbandonato tutto e ho ricondotto la nave, sia pure tutta squassata, alla desiderata quiete.

Lo strato attuale della coscienza di Agostino.

1. 5. Puoi dunque osservare in quale filosofia, come in un porto, io navighi. Ma anche esso è assai largo e la sua ampiezza non del tutto esclude la possibilità dell’errore, sebbene con minor pericolo. Intanto ignoro del tutto a quale parte della regione, la quale sola è felice, devo dirigermi e attraccare. Nulla infatti ho raggiunto di sicuro. Anche il problema dell’anima rolla e beccheggia. E per questo ti scongiuro in nome della virtù, dell’umanità, della comprensione e corrispondenza fra le anime, di porgermi la mano e cioè di amarmi e di credere che io ti corrispondo con l’amore e ti ritengo amico. E se otterrò questo favore, penso di poter raggiungere con piccolo sforzo quello stato di felicità, nel quale, come suppongo, tu già vivi. E ho pensato di spedirti e d’intitolare al tuo nome quella parte delle mie dispute che mi pare di avere svolto con sentimento di religiosità e più degna di esserti dedicata. Vi potrai conoscere ciò che sto facendo e in qual maniera sto raccogliendo nel porto i miei intimi e puoi essere pienamente informato sullo stato della mia coscienza. Non posseggo altri mezzi per indicartelo. Molto opportuno in verità poiché abbiamo disputato sulla felicità e non conosco valore che maggiormente si possa ritenere dono di Dio. Non sono stato atterrito dalla tua cultura poiché non posso temere le cose che amo, anche se non mi riesce di averle; molto meno i favori più alti della fortuna. Sebbene infatti essa in te sia grande, è benevola giacché rende benevoli perfino coloro, ai quali s’impone con la propria superiorità. Ma ormai presta attenzione a quanto intendo esporti.

Presentazione dei partecipanti al dialogo-convito.

1. 6. Il tredici novembre ricorreva il mio compleanno. Dopo un pranzo tanto frugale che non impedì il lavoro della mente, feci adunare nella sala delle terme tutti coloro che non solo quel giorno ma ogni giorno convivevano con me. S’era presentato come luogo appartato, adatto all’occorrenza. Partecipavano, e non ho timore di presentarli per ora con i soli nomi alla singolare tua benevolenza, prima di tutto mia madre, ai cui meriti spetta, come credo, tutto quel che sto vivendo, Navigio mio fratello, Trigezio e Licenzio miei concittadini e discepoli. Volli che non mancassero neanche Lastidiano e Rustico, miei cugini, sebbene non avessero frequentato neppure il maestro di grammatica. Ritenni che il loro buon senso fosse sufficiente all’argomento che intendevo trattare. Con noi era anche mio figlio Adeodato, il più piccolo di tutti. Egli ha tuttavia un ingegno che, salvo errore dovuto all’affetto, promette grandi cose. Ottenuta la loro attenzione, cominciai nei termini seguenti.


Desiderio ricerca e felicità (2, 7 - 16)

La coscienza del bisogno e il desiderio.

2. 7. “Ritenete come evidente che siamo composti di anima e di corpo?”. Tutti acconsentirono, ma Navigio rispose che non lo sapeva. “Ma non sai proprio nulla, gli chiesi, ovvero questa è una fra le tante nozioni che non sai?”. “Non penso, mi rispose, di non sapere proprio nulla”. “Ci puoi dire, replicai, alcuna delle cose che sai?”. “Lo posso”, rispose. “Se non ti dispiace, dinne qualcuna”. E poiché rimaneva perplesso, soggiunsi: “Di vivere per lo meno hai coscienza?”. “Sì”, rispose. “Hai coscienza dunque anche di avere la vita, poiché non si può vivere se non mediante la vita”. “Anche questo lo so”, mi rispose. “Hai anche coscienza di avere un corpo?”. Fece cenno d’assenso. “Dunque sai di risultare del corpo e della vita”. “Lo so per ipotesi, ma rimango in dubbio se siano soltanto questi i componenti”. “Non dubiti dunque, gli dissi, che questi due, il corpo e l’anima, sono componenti; sei in dubbio se se ne richiede qualche altro a completare e costituire l’uomo”. “Sì”, rispose. “Tratteremo, replicai, il problema un’altra volta, se ci sarà possibile. Ora, poiché siamo tutti d’accordo che non si dà l’uomo senza il corpo e senza l’anima, propongo a tutti il quesito per quale dei due desideriamo il cibo”. “Per il corpo”, disse Licenzio. Gli altri erano perplessi e discutevano fra di loro con varie argomentazioni in che senso si può dire che il cibo sembra necessario al corpo. Difatti si appetisce per la vita e la vita non appartiene che all’anima. Allora ripresi: “Siete dell’opinione che il cibo è di appartenenza a quella parte che vediamo crescere e irrobustirsi con esso?”. Assentirono tutti fuorché Trigezio. Obiettò: “Perché io non sono cresciuto in proporzione al cibo ingurgitato?”. Gli risposi: “Tutti i corpi hanno un proprio limite imposto loro dalla natura e non possono violare quella misura; sarebbero tuttavia di minor grandezza se mancassero loro gli alimenti. Con tutta evidenza lo costatiamo negli animali. E nessuno può dubitare che il corpo di tutti gli animali deperisce con la sottrazione del cibo”. “Deperisce, obiettò Licenzio, ma non perde la propria grandezza”. “Basta al mio intento, gli risposi. Il quesito è se il cibo è di pertinenza del corpo. E n’è di pertinenza poiché con la sua sottrazione si ha il deperimento”. Concordemente accettarono la mia opinione.

Bisogno, cibo dell’anima, conoscenza e virtù.

2. 8. “E l’anima, chiesi, non ha un proprio nutrimento? Siete d’accordo che sia la scienza?”. “D’accordo, disse mia madre. Penso che l’anima abbia come alimento soltanto la pura conoscenza delle cose”. Trigezio si mostrò dubbioso di tale opinione. Ed ella soggiunse: “Non ci hai indicato tu stesso oggi di che e dove l’anima si nutrisce? Hai detto che soltanto a un certo punto del pranzo ti sei accorto della qualità del vasellame che stavamo adoperando perché stavi riflettendo su non saprei quale cosa; tuttavia continuavi a muovere mani e mascelle sulla tua porzione di vivande. Dove era dunque la tua mente in quei momenti in cui, pur mangiando, non vi badavi? Credimi, da questa sorgente e di queste vivande, cioè delle proprie riflessioni e pensieri, si pasce la mente nell’atto in cui con essi si può rappresentare l’oggetto”. Gli altri continuavano a mostrare con animazione i propri dubbi in proposito. Allora io intervenni: “Non ammettete forse che la mente delle persone veramente colte ha una formazione e sviluppo superiore a quella degli illetterati?”. Ne ammisero l’evidenza. “Quindi, proseguii, giustamente possiamo ritenere che la mente di coloro che sono ignoranti di ogni sapere e non hanno nozioni nelle arti liberali è digiuna e, per così dire, affamata”. “Io ritengo, interloquì Trigezio, che sono sazi anche essi, ma di vizi e d’immoderatezza”. “Ma, credimi, gli risposi, anche tale stato è sterilità e fame della mente. Il corpo, mancando il necessario alimento, va soggetto a malattie e deperimento che in esso sono indici di fame che consuma. Così lo spirito di quei tali è pieno di mali con i quali rende palese la mancanza di nutrimento. Difatti gli autori classici hanno insegnato che l’immoderatezza (nequitia), madre di. tutti i vizi, è stata denominata dal motivo che è il non qualche cosa (nequidquam). La virtù che le è contraria si denomina moderatezza (frugalitas). Come dunque questa deriva da fecondità (frux), quanto dire da realtà prodotta per una certa fecondità spirituale, così quella da sterilità è denominata immoderatezza, cioè dal suo non essere. È non essere infatti ciò che soggiace al divenire, alla dissoluzione, al cangiamento e che è soggetto come ad un morire momento per momento. Per tal motivo consideriamo come dati per morti gli individui privi di moderatezza. V’è, al contrario, qualche cosa che è in atto, che persiste, che è stabile: la virtù appunto; le sue manifestazioni più nobili e belle sono temperanza e moderatezza. E se l’argomento è più complesso di quanto voi potete comprendere, per lo meno potete accordare che, anche data l’ipotesi d’una certa sazietà della mente degli stolti, si danno due tipi di alimenti tanto naturali che spirituali: l’uno di quelli che producono salute e vita; l’altro di quelli che producono infermità e morte.

Sanità morale e desiderio.

2. 9. Stando così le cose, giacché siamo d’accordo che nell’uomo esistono due componenti, cioè il corpo e l’anima, penso di dover offrire nel mio genetliaco un pranzo più abbondante non solo al nostro corpo, ma anche allo spirito. E vi manifesterò, se avete fame, la qualità del pranzo. Sprecherei la fatica se vi costringessi a mangiare di malavoglia e senza appetito. Si deve, al contrario, auspicare che desideriate queste vivande piuttosto che quelle materiali. L’auspicio si avvererà se il vostro animo è sano. Gli infermi, come possiamo osservare nelle infermità fisiche, ricusano e respingono i cibi convenienti”. Con l’espressione del viso e con parole concordi tutti dichiararono di voler prendere e trangugiare la vivanda che avevo preparato.

L’universale desiderio di felicità.

2. 10. E riprendendo il discorso, affermai: Noi desideriamo esser felici. Avevo appena espresso tale principio che l’accettarono all’unanimità. “Ritenete, soggiunsi, che sia felice chi non ha l’oggetto del suo desiderio?”. Dissero di no. “Allora chiunque consegua l’oggetto del suo desiderio è felice?”. Mia madre intervenne: “Se desidera e consegue il bene è felice; se poi desidera il male, ancorché lo raggiunga, è infelice”. Ed io, sorridendole con espressione di gioia, le dissi: “Madre mia, decisamente hai raggiunto la vetta del filosofare. Ti è mancata certamente la terminologia per poterti esprimere come Tullio che ha sull’argomento le seguenti parole. Ne L’Ortensio, il libro che ha scritto a lode e difesa della filosofia, dice: Avviene che coloro i quali sono esercitati nella dialettica, anche se non ancora filosofi, sono unanimi nell’affermare che sono felici coloro che vivono secondo i loro desideri. L’opinione è certamente erronea: desiderare infatti ciò che non è conveniente è somma infelicità. E non è tanto fonte d’infelicità il non conseguire ciò che si desidera quanto desiderare ciò che non è opportuno. Difatti il desiderio disordinato apporta all’uomo un male superiore al bene che apporta la fortuna (Cicerone, framm. 39 t. B.)”. A queste parole convenivano con tanta esattezza quelle di lei che, dimentichi del suo sesso, la considerammo un uomo illustre assiso in mezzo a noi. Io frattanto, per quanto potevo, mi sforzavo di comprendere da quale e quanta sovrumana sorgente derivassero le sue parole. Licenzio intervenne: “Dovresti indicarci che cosa, per esser felice, l’uomo deve desiderare e di quali cose è opportuno abbia il desiderio”. Gli risposi: “Invitami, se vorrai, nel tuo compleanno ed io mangerò volentieri ciò che mi offrirai. Io ti chiedo di pranzare oggi con me alla stessa condizione e di non chiedermi una vivanda che non è stata ammannita”. Egli accettò il richiamo a rientrare rispettosamente nei suoi limiti. Allora continuai: “Finora è stato accettato fra noi che non può esser felice chi non ha ciò che desidera e che non necessariamente è felice chi consegue ciò che desidera”. Furono d’accordo.

L’oggetto del desiderio e la felicità.

2. 11. “E, continuai, concedete che chi non è felice, è infelice?”. Non contestarono. “Ogni uomo dunque che non ha ciò che desidera è infelice”. Furono tutti d’accordo. “Che cosa pertanto, chiesi, l’uomo deve conseguire per esser felice? Forse anche al nostro banchetto sarà presentata una vivanda adatta a non lasciare insoddisfatto l’appetito di Licenzio. Io penso che l’uomo deve tendere all’oggetto che può possedere quando lo desidera”. Affermarono che era evidente. “Deve esser dunque, soggiunsi, un bene stabile non dipendente dalla fortuna, non condizionato ai vari accadimenti. Infatti non possiamo assicurarci quando e per tutto il tempo che vogliamo ciò che è perituro e caduco”. Fecero un unanime cenno d’assenso. Soltanto Trigezio obiettò: “Vi sono molti che accumulano e godono largamente di beni fragili e condizionati agli avvenimenti, ma fonti di gioia in questa vita e non manca loro alcuno degli oggetti del loro desiderio”. Gli chiesi: “Ritieni che chi teme è felice?”. “Non lo ritengo”, disse. “Dunque se può perdere ciò che ama, può non temere?”. “È impossibile”, mi rispose. “Ora, conclusi, i beni soggetti al caso si possono perdere. Dunque chi li ama e possiede non può assolutamente esser felice”. Non contestò. A questo punto mia madre intervenne: “Anche se fosse sicuro di non perdere le proprie sostanze, tuttavia non ne può esser saziato. Quindi intanto è infelice in quanto è sempre bisognoso”. Le chiesi: “Non ritieni che possa esser felice se, abbondando e traboccando di tante ricchezze, stabilisse un limite al desiderio e, contento di esse, ne goda convenientemente e gioiosamente?”. “Non è felice, rispose, per il possesso delle sostanze ma per la moderazione del suo desiderio”. “Benissimo, replicai. Anche a tale domanda da te non si poteva attendere una risposta diversa. Quindi non abbiamo più dubbi che, se qualcuno ha deciso di esser felice, si deve assicurare ciò che rimane per sempre né può essere sottratto dalla fortuna spietata”. “Ormai, intervenne Licenzio, siamo d’accordo su tale verità”. “Ritenete, ripresi, che Dio è eterno e non cessa mai d’essere?”. “È verità tanto certa, rispose Licenzio, che non è necessario farla argomento del dialogo”. E gli altri con profondo sentimento religioso concordarono. “Dunque, conclusi, chi ha Dio è felice”.

Le varie opinioni dei convitati.

2. 12. Accettarono la conclusione con viva gioia; ed io ripresi: “Ci rimane da indagare soltanto, come penso, chi è l’uomo che possiede Dio; egli sarà certamente felice. Chiedo la vostra opinione sull’argomento”. Licenzio: “Ha Dio chi vive bene”. Trigezio: “Ha Dio chi obbedisce ai suoi comandamenti”. Alla sua opinione aderì Lastidiano. Il più giovane di tutti: “Ha Dio chi non ha l’animo immondo (cf. Mt 5, 8)”. Mia madre approvò tutte le opinioni, ma soprattutto quest’ultima. Navigio se ne era rimasto in silenzio. Gli chiesi come la pensasse. Mi rispose che gli piaceva l’ultima. Mi parve opportuno non trascurare Rustico nel chiedergli la propria opinione su un argomento di tanta importanza poiché mi sembrava che taceva più per vergogna che per volontà. Aderì a Trigezio.

Moderazione nella ricerca.

2. 13. Allora ripresi: “Prendo atto dei singoli pareri su un argomento importante che implica pertanto ogni ulteriore problema e ogni ulteriore scoperta purché noi ora, come abbiamo cominciato, lo sottoponiamo all’indagine senza preconcetti e con molta serietà. Per oggi tuttavia non si deve prolungare la trattazione poiché anche lo spirito ha nei suoi conviti una certa intemperanza se si getta sulle vivande senza moderazione e con avidità e rischia, per così dire, l’indigestione. E poiché da essa si deve temere per la sanità mentale come dalla stessa fame, è meglio che domani, se preferite, col ritorno dell’appetito riprendiamo la trattazione. Voglio tuttavia che subito assaporiate ciò che io adesso, come vostro anfitrione, devo apporvi offrendolo direttamente alla vostra mente. Ed è, salvo errore, l’ultima rituale vivanda ammannita e condita dal miele della lezione”. Alle mie parole tutti si tesero come verso una vivanda non a portata di mano e insistettero perché mi accingessi a dire di che si trattava. “Non vi pare, dissi, che è conchiusa la discussione iniziata qualche giorno addietro contro gli accademici?”. Udito tale nome, i tre, cui era noto il fatto, si alzarono in piedi con vivacità e, quasi con le mani distese, come comunemente avviene, aiutarono con le parole che poterono il servitore che apponeva. Facevano capire che non avrebbero udito nulla di più gradevole.

La tesi di Agostino che gli accademici non conseguono felicità...

2. 14. Proposi l’argomento in questi termini: È manifesto che non è felice chi non ha l’oggetto del desiderio, come dianzi è stato logicamente dimostrato. Ma nessuno cerca ciò che non vuol conseguire. Ora essi ricercano sempre la verità, dunque desiderano conseguirla; desiderano, cioè, avere il conseguimento della verità. Ma non la conseguono. Ne deriva che essi non hanno ciò che desiderano e ne deriva quindi che non sono felici. Ma non si è saggi se non si è felici; dunque il filosofo accademico non è un saggio. A questo punto essi, soddisfatti di essersi assicurati l’intera porzione, approvarono gridando. Ma Licenzio, riflettendo più attentamente e diligentemente, esitò a prestar l’assenso e disse: “Mi sono assicurato assieme a voi la porzione poiché ho approvato convinto della conclusione. Ma per il momento non trangugerò nulla e riserverò la mia porzione per Alipio. O la gusterà assieme a me o mi avvertirà sui motivi per non ingerirla”. “Ma Navigio piuttosto, dissi, non avendo il fegato sano, dovrebbe temere i dolci”. Ed egli sorridendo rispose: “Al contrario, essi mi faranno bene. Non so come, ma la tua confezione contorta e pungente a causa del miele d’Imetto, come dice quel tale, è dolce-asprigna e non costipa l’intestino. Quindi la ingerisco tutta, sia pure con qualche puntura al palato, ma con piena soddisfazione. Non vedo infatti come possa esser contestata la tua conclusione”. “È certamente impossibile, intervenne Trigezio. E per questo son contento d’essermi già schierato contro di loro. Infatti non so per quale impulso naturale, o per dire con maggior verità, divino, ho sempre avuto una viva antipatia per loro sebbene non sapessi come confutarli”.

... è ribattuta da Licenzio...

2. 15. “Io non li abbandono ancora”, disse Licenzio. “Dunque, ribatté Trigezio, dissenti da noi?”. “E voi, rimbeccò l’altro, non dissentite da Alipio?”. Gli dissi: “Non dubito che, se fosse stato presente Alipio, avrebbe accettato la mia breve dimostrazione. Non avrebbe infatti potuto accogliere l’assurda opinione di ritenere felice chi non ha un bene spirituale tanto eccellente e che ha ardentemente desiderato di avere, ovvero che essi non vogliono raggiungere la verità, o che è saggio chi non è felice. Da questi tre motivi, come se fossero miele, farina e mandorle, è confezionata la torta che temi d’ingerire”. “Ed egli, ribatté Licenzio, accetterebbe questo piccolo divertimento da fanciulli abbandonando la ricca tradizione degli accademici? Da essa, come da fiume in piena, la tua breve dimostrazione sarebbe sommersa e trascinata via”. “Come se, rimbeccai, stessimo cercando una lunga dimostrazione soprattutto contro Alipio. Egli stesso con il tuo intervento dimostra sufficientemente che questi motivi lievi ma non scarsi di pensiero sono validi e utili. Ma tu che preferisci dipendere dall’autorità di un assente, quale punto biasimi? Che chi non ha l’oggetto del desiderio non è felice? Ovvero che gli accademici, i quali ricercano con ardore la verità, non la vogliono avere, una volta conseguita? O ritieni che l’uomo saggio non è felice?”. “È certamente felice, rispose sorridendo sdegnosamente, chi non ha l’oggetto del desiderio”. Ordinai che le sue parole fossero trascritte. Ed egli esclamò: “Ma io non l’ho detto”. Feci cenno che si trascrivessero ugualmente anche queste. Allora ammise: “L’ho detto”. Avevo ordinato, una volta per sempre, che non potesse profferire parola che non fosse trascritta. E così tenevo il giovanotto in esercizio fra la vergogna e l’ostinatezza.

... ma Monica li definisce epilettici.

2. 16. Ma mentre, motteggiandolo con tali parole, lo invitavo ad ingerire, per così dire, la sua porzione, mi accorsi che gli altri ignari dell’argomento e desiderosi di conoscere il tema della nostra scherzosa conversazione, ci guardavano seri. E riferendomi a un caso piuttosto frequente, mi parve di poterli paragonare a quelle persone che, sedendo a mensa con individui sempre affamati ed eccellenti divoratori, o si trattengono dal tirar giù per contegno o si lasciano prendere dalla vergogna. Ma io ero l’anfitrione e tu mi hai insegnato a sostenere la parte di un uomo illustre e, per svelare tutto, dell’uomo vero, ma anche dell’anfitrione in quel convito. Mi turbò quindi il diverso e incoerente trattamento usato alla nostra mensa. Sorrisi a mia madre. E lei, con grande liberalità, mi ordinò di offrire, come se la dispensa fosse sua, la vivanda di cui erano privi. Mi pregò poi: “Dicci ormai chiaramente la posizione di codesti accademici e le loro tesi”. Gliene presentai una breve e chiara esposizione in maniera che tutti i presenti potessero comprendere. E lei: “Ma costoro sono affetti da mal caduco”. Con questo termine in gergo popolare sono designati coloro che sono sconvolti da attacchi d’epilessia. Nel contempo si alzò per andarsene. E tutti rallegrati ed esilarati dal motto, posta fine alla discussione, ce ne andammo.



Dio e la felicità (3, 17 - 22)

Ricapitolazione della disputa precedente.
[Modificato da MARIOCAPALBO 04/02/2015 15:48]

04/02/2015 15:45

3. 17. L’indomani, sempre dopo pranzo ma un po’ più tardi del giorno antecedente, ci adunammo i medesimi e nel medesimo luogo. “Oggi, cominciai, siete arrivati tardi al banchetto; ed io penso che il fatto non dipenda dalla cattiva digestione, ma dalla certezza della scarsezza delle vivande. Siete convinti che non dovete iniziare a prendere all’ora consueta un cibo che, a vostro avviso, potete ingoiare in pochi bocconi. Ed era ovvio pensare che non fossero rimasti avanzi d’un pranzo che nel giorno stesso della festa era stato frugale. E forse avete ragione. Io stesso, come voi, non so che cosa v’è stato ammannito. V’è un Altro che non manca di preparare a ciascuno ogni vivanda e soprattutto quelle di questo tipo. Siamo noi che assai spesso manchiamo di nutrirci o per debolezza o per sazietà o per affari. E ieri, con sentimento religioso e con fondamento logico, siamo rimasti d’accordo che egli, con la sua presenza negli uomini, li rende felici. Il nostro ragionamento ha infatti accertato, senza dispareri fra di voi su tale punto, che è felice chi possiede Dio. È stato allora chiesto chi sia, a vostro avviso, che possiede Dio,. Sull’argomento, se ben ricordo, sono state dichiarate tre opinioni. Alcuni hanno ritenuto che possiede Dio chi compie le opere che egli vuole. Altri hanno affermato che possiede Dio chi vive bene. Altri, infine, furono d’opinione che Dio è in coloro in cui non è lo spirito denominato immondo.

Convenienza di massima delle tre opinioni.

3. 18. Ma forse con diverse espressioni hanno tutti pensato la stessa cosa. Limitiamoci ad analizzare le prime due opinioni. Chiunque vive bene compie ciò che Dio vuole e chiunque compie ciò che Dio vuole vive bene; altro non è infatti vivere bene che fare ciò che piace a Dio, salvo un vostro disparere”. Furono d’accordo. “Più attentamente bisogna esaminare la terza opinione perché, nella terminologia della Sacra Scrittura, immondo spirito, per quanto io ne comprendo, viene inteso in due significati. O s’intende quello che invade l’anima dal di fuori, sconvolge la normale funzione dei sensi e genera negli uomini una specie di mania; e si dice che, per allontanarlo, i sacerdoti impongono le mani ed esorcizzano, cioè lo scacciano con l’invocazione di Dio. Con altra accezione si denomina spirito immondo ogni anima immonda e non significa altro che anima inquinata da vizi e colpe. Pertanto chiedo a te, giovanetto, che forse hai dichiarato questa tua opinione a causa del tuo spirito un po’ più sereno e puro, chi ti sembra che non abbia lo spirito immondo: quegli che non è invaso dal demone che di solito rende furibondi gli uomini, ovvero quegli che ha già resa monda l’anima da tutti i vizi e peccati”. “Penso, rispose, che non ha lo spirito immondo chi vive castamente”. “Ma, soggiunsi, chi intendi come casto: colui che non commette peccato o colui soltanto che si astiene da un illecito contatto carnale?”. “Come, rispose, può esser casto se, astenendosi soltanto dall’illecito contatto, non cessa di macchiarsi di altri peccati? Quegli è veramente casto che è fisso in Dio e soltanto a lui aderisce”. Volli che le parole del ragazzo fossero trascritte come erano state profferite; quindi continuai: “Ne consegue pertanto necessariamente che questo tale viva bene e chi vive bene è necessariamente casto, salvo il tuo disparere”. Manifestò la sua adesione assieme agli altri. “Quindi, conclusi, fino a questo punto c’è unanimità di opinioni.

Cercare Dio: somma di tutti i desideri.

3. 19. Ma ora per un po’ vi propongo il problema se Dio può volere che l’uomo lo cerchi”. Lo ammisero. “Vi chiedo egualmente se possiamo affermare che vive male chi cerca Dio”. “No certamente”, risposero. “E rispondete anche a questo terzo quesito: Può lo spirito immondo cercare Dio?”. Dissero di no, nonostante una certa esitazione di Navigio che poi cedette alle contestazioni degli altri. “Dunque, conclusi, chi cerca Dio fa ciò che Dio vuole e vive bene e non ha lo spirito immondo. Ma chi cerca Dio non lo ha ancora. Quindi a rigor di logica non consegue che ha Dio in sé chi vive bene o fa ciò che Dio vuole e non ha lo spirito immondo”. A questo punto tutti riconobbero ridendo di essere stati tratti in inganno dalle loro stesse ammissioni. Ma mia madre, dopo un lungo momento di stupore, chiese che io chiarissi e dilucidassi distintamente quanto, per esigenza di conchiudere, avevo esposto in forma involuta. Soddisfeci la sua richiesta. Ed ella disse: “Ma nessuno può raggiungere Dio se non lo cerca”. “D’accordo, risposi. Tuttavia chi ancora cerca, non ha ancora raggiunto Dio, tuttavia già vive bene. Dunque non di necessità chi vive bene ha Dio”. “Ritengo, ribatté, che ognuno ha Dio, ma l’hanno propizio coloro che vivono bene e avverso coloro che vivono male”. “Dunque, le risposi, non a rigore di logica abbiamo ammesso che è felice chi ha Dio poiché ogni uomo ha Dio e tuttavia non ogni uomo è felice”. “Allora, suggerì, aggiungi propizio”.

L’obiezione di Navigio sulla ricerca del saggio accademico.

3. 20. “Dunque, soggiunsi, siamo per lo meno sufficientemente d’accordo che è felice chi ha Dio propizio”. “Vorrei, interruppe Navigio, essere d’accordo ma mi trattiene la condizione di chi ancora ricerca, soprattutto se tu dovessi concludere che è felice l’accademico che nella disputa di ieri, con termine popolano e non letterario ma assai efficace, a mio parere, fu denominato sofferente di mal caduco. Non posso ammettere che Dio sia avverso a un uomo che lo cerca. E se ciò non è ammissibile, Dio gli sarà propizio e chi ha Dio propizio è felice. Dunque chi lo cerca è felice, ma chi cerca non ha ancora l’oggetto del suo desiderio. Ne conseguirebbe che è felice l’uomo che non possiede ciò che desidera. Ma tale affermazione ieri ci è sembrata assurda e ne abbiamo dedotto che erano stati eliminati i punti deboli della tesi accademica. E per questo ormai Licenzio canterà vittoria su di noi e, come medico saggio per me, mi farà notare che i dolci da me imprudentemente ingeriti a danno della mia salute esigono un simile scotto”.

Dio propizio e il movimento verso la felicità.

3. 21. A queste parole anche mia madre sorrise. Trigezio intervenne: “Io non vedo come conseguente che Dio è avverso a chi non è propizio, ma penso che si dia una condizione di mezzo”. Gli chiesi: “Ma tu ammetti che questo tale, posto in una condizione di mezzo perché Dio non gli è né propizio né ostile, in qualche modo ha Dio?”. Essendo egli rimasto perplesso, mia madre intervenne: “Un conto è avere Dio ed un altro non essere senza Dio”. “Ma, ribattei, che cosa è meglio: avere Dio o non essere senza Dio?”. “Per quanto m’è dato di comprendere, rispose, questa è la mia opinione: chi vive bene ha Dio ma propizio; chi vive male ha Dio ma avverso; chi invece ricerca e non ha ancora trovato non lo ha né ostile né propizio ma non è senza Dio”. “Questo, chiesi, è anche il vostro parere?”. Risposero affermativamente. “Ditemi, ripresi, e vi prego di scusarmi: non vi pare che Dio sia propizio all’uomo cui concede il suo favore?”. Lo ammisero. “E allora, soggiunsi, Dio non dà il suo favore all’uomo che lo cerca?”. Risposero di sì. “Dunque, conclusi, chi cerca Dio ha Dio propizio e chi ha Dio propizio è felice. Pertanto è felice anche chi cerca. Ma chi cerca non possiede ancora l’oggetto del suo desiderio. Quindi è felice anche chi non possiede l’oggetto del suo desiderio”. “Ma a me, ribatté mia madre, non pare affatto che sia felice chi non possiede l’oggetto del suo desiderio”. “Ne conseguirebbe, le risposi, che non necessariamente è felice chi ha Dio propizio”. “Se il rigore della logica, soggiunse, postula tale conclusione, m’è impossibile escluderla”. “Si avrà pertanto, conclusi, la seguente classificazione: chi ha trovato Dio e lo ha propizio è felice; chi cerca e lo ha propizio non è ancora felice; chi infine con vizi e colpe si rende estraneo a Dio, non solo non è felice ma non vive neppure nel favore di Dio”.

L’aporia: avere Dio propizio e non esser felici.

3. 22. Le mie parole furono approvate da tutti. “D’accordo, dissi; temo tuttavia che non vi convinca il motivo dianzi da noi accettato e cioè che sarebbe infelice chi non fosse felice. Ne conseguirebbe che è infelice l’uomo che ha [Dio propizio e non è felice appunto perché, come abbiamo detto, ancora cerca Dio]. Ovvero, come dice Tullio, dovremmo reputare ricchi i possessori di molti fondi e poveri i possessori di tutte le virtù? (Cicerone, Hort. framm. 104). Ma considerate se è vero il principio che come chi soggiace alla privazione è infelice, così sia vero che chi è infelice soggiace alla privazione. Di conseguenza sarebbe vera l’opinione da me approvata, mentre veniva dichiarato, come avete udito, che l’infelicità non è altro che soggezione alla privazione. Sarebbe lungo trattare l’argomento oggi e per questo chiedo che non vi dispiaccia di partecipare anche domani a questo convito”. E poiché tutti affermarono di gradirlo assai, ci alzammo.



Pienezza e misura (4, 23 - 36)

Problematicità del concetto di privazione.

4. 23. Al terzo giorno della nostra disputa, di mattino, si dissipò la nebbia che ci costringeva ad adunarci nella sala delle terme e si ebbe un limpido pomeriggio. Ci fece piacere quindi scendere nel prato vicino. Ci sedemmo, ciascuno nel luogo che sembrò più comodo. Quindi fu continuata la disputa nei termini seguenti. “Conservo e ritengo valido, cominciai, quasi tutto ciò che voluto mi fosse da voi concesso in risposta alle mie domande. Oggi pertanto, affinché possiamo per qualche giorno por fine a questo nostro banchetto, non rimane nulla o poco, come penso, da darmi in risposta. È stato detto da mia madre che l’infelicità non è altro che privazione ed è stato stabilito da noi che coloro i quali soggiacciano alla privazione sono infelici. Ma la tesi che proprio tutti gli infelici soggiacciano alla privazione ha qualche aspetto problematico che ieri non abbiamo potuto chiarire. Che se la forza del ragionamento riuscirà a dimostrare che è proprio così, sarà stabilito con esattezza chi sia felice. Sarà chi non soggiace alla privazione. Infatti chi non è infelice è felice. È felice dunque chi è libero dalla privazione se risulterà che quella che denominiamo privazione equivale all’infelicità”.

Non necessariamente chi non soggiace a privazione è felice...

4. 24. “E perché, domandò Trigezio, non si potrebbe già dedurre che è felice chi non soggiace a privazione, dall’evidente principio che chi soggiace a privazione è infelice? Rammento che abbiamo accertato non darsi uno stato di mezzo fra infelice e felice”. “Ritieni, gli chiesi, che si dia qualche cosa di mezzo fra morto o vivo? Non si è forse o vivi o morti?”. “Ammetto, ribatté, che anche per questo aspetto non si dà qualche cosa di mezzo. Ma a che mira la domanda?”. “Perché, gli risposi, tu ritieni, come penso, che chi è stato sepolto da un anno è morto”. Non contestò. “E allora, proseguii, forse che vive chi non è stato sepolto da un anno?”. “Non consegue”, mi rispose. “Quindi, conclusi, dal fatto che chi soggiace alla privazione è infelice non consegue a rigore che chi non soggiace alla privazione è felice sebbene non sia possibile trovare una condizione di mezzo tra felice e infelice come tra vivo e morto”.

... poiché la felicità è valore.

4. 25. E poiché alcuni tardavano alquanto a comprendere il ragionamento, tentai di chiarirlo e trattarlo con parole, per quanto possibile, adatte al loro intendimento. “Dunque, dissi, nessuno dubita che è infelice chi soggiace alla privazione. Non costituisce ovviamente difficoltà la soggezione anche degli uomini saggi ai bisogni materiali. Non lo spirito, in cui alberga la felicità, soggiace a tali bisogni. Esso infatti è perfetto e l’essere perfetto non ha bisogni. Per quanto riguarda i beni indispensabili alla vita fisica, il saggio li userà se ci sono e se non ci saranno non si lascerà abbattere dalla loro scarsezza. Il saggio infatti è forte e l’uomo forte non teme. Dunque il saggio non temerà né la morte fisica né le privazioni che si possono allontanare, evitare o differire con l’uso di beni sensibili dei quali potrebbe esser privo. Tuttavia ne usa bene se non mancano. È infatti vero quel detto: È da stolti subire ciò che puoi evitare (Terenzio, Eun. 761). Dunque eviterà la morte e la privazione quanto è possibile e conveniente per non diventare, in caso contrario, infelice non a causa di simile contingenza ma per non averlo voluto, potendolo. Sarebbe segno manifesto di stoltezza. Chi non le evita sarà dunque infelice a causa della sua stoltezza e non per la soggezione ai mali sensibili. Se poi non riuscirà ad evitarli, sebbene vi si adoperi diligentemente, non sarà il loro verificarsi a renderlo infelice. Infatti non è meno vero il detto del medesimo commediografo: Perché non può realizzarsi ciò che vuoi, fa’ di volere ciò che è possibile (Terenzio, Andria 305-306). Non può essere infelice colui a cui nulla avviene contro il proprio desiderio. In verità non desidera ciò che non può ottenere. Ha infatti il desiderio di beni assai più sicuri che è quello di non agire se non a norma di virtù e secondo la divina legge della saggezza che non gli possono esser tolte sicuramente.

Al contrario chi è infelice, per mancanza di saggezza, soggiace a privazione.

4. 26. Ed ora esaminate se anche chi è infelice soggiace alla privazione. Costituisce difficoltà ad ammettere tale verità il fatto che molti, i quali godono di una grande quantità di beni di fortuna e ai quali tutto riesce possibile al punto che l’oggetto del loro desiderio dipende da un loro cenno, trovano tuttavia in questa vita gravi difficoltà. Ma facciamo l’ipotesi di un individuo quale Tullio dice che fosse Orata (cf. Cicerone, Hort. framm. 10). Chi potrebbe dire che Orata soggiacesse alla privazione se fu un uomo ricchissimo, dedito al lusso e alla gioia di vivere, cui non mancò nulla di ciò che è piacere, bellezza e buona e perfetta salute? Infatti ebbe a profusione fondi assai produttivi, amici dediti alle gioie e delle sue sostanze usò con molto discernimento per il benessere fisico. Per dirla in breve, un prospero successo seguì a tutti i suoi progetti e desideri. Ma qualcuno di voi obietterà che desiderava avere più di quanto aveva. Non lo sappiamo. Ma facciamo l’ipotesi, e ciò è sufficiente alla nostra indagine, che egli non desiderasse più di quanto possedeva. Ritenete allora che soggiacesse alla privazione?”. “Vorrei ammettere, rispose Licenzio, che non desiderasse di più, a parte che non saprei come ammetterlo in un uomo non saggio. Sta il fatto che temeva, poiché era di retto intendimento come si suol dire, l’improvvisa perdita di tutte le sostanze a causa di qualche avversità. Non era difficile comprendere che tutti quei beni, per quanto grandi fossero, erano soggetti alla forza degli avvenimenti”. Sorridendo gli risposi: “Stai rilevando, o Licenzio, che questo individuo assai fortunato è stato impedito dal raggiungere la felicità a causa della sua rettitudine. Infatti essendo assai avveduto, prevedeva che poteva perdere tutti i suoi beni. Ed era travagliato da simile timore e spesso ripeteva quel detto popolare: L’uomo che non s’illude è assennato per la propria infelicità (Plutarco, De tranq. an. 1, 465c.)

Quindi l’insipienza è essenziale privazione...

4. 27. Egli e gli altri sorrisero. Io soggiunsi: “Esaminiamo attentamente il motivo per il quale costui, sebbene ebbe timore, non soggiacque alla privazione poiché da qui ha origine il problema. Il soggiacere alla privazione infatti consiste nel non avere e non nel timore di perdere ciò che si ha. Egli era infelice perché temeva, sebbene non fosse soggetto al bisogno. Dunque non si è soggetti al bisogno per il fatto che si è infelici”. Anche mia madre, la cui opinione stavo difendendo, approvò assieme agli altri. Tuttavia, esprimendo una riserva disse: “Ancora non so e non riesco bene a comprendere come si possa separare l’infelicità dalla privazione e la privazione dall’infelicità. Anche costui che era ricco e possidente e, come state dicendo, non desiderava più nulla, tuttavia, poiché temeva di perdere, era privo di saggezza. Dunque lo dovremmo considerare bisognoso se fosse stato privo di denaro e di possessioni e non lo considereremo tale per il fatto che era privo della saggezza?”. Fu un grido unanime d’ammirazione. Anche io fui non poco contento e lieto che proprio da lei fosse espresso il concetto che avevo inteso di esporre in fine come verità di fondo desunta dagli insegnamenti dei filosofi. “Osservate, esclamai, che altro è la molteplice e varia cultura e altro lo spirito sempre fisso in Dio? Da dove infatti procedono le parole udite che hanno destato la nostra ammirazione se non da lui?”. A questo punto Licenzio tutto lieto m’interruppe esclamando: “Certamente non si poteva dire qualche cosa di più vero e di più divino. Non c’è infatti tanta privazione che produca tanta infelicità quanto, esser fuori della saggezza. Chi non è privo della saggezza non ha bisogno assolutamente di nulla”.

... la saggezza è felicità, la stoltezza infelicità.

4. 28. “La soggezione alla privazione spirituale, continuai, non è altro che stoltezza. Essa è contraria alla saggezza e così contraria come la morte alla vita, come la felicità all’infelicità senza condizioni di mezzo. Allo stesso modo che l’uomo non felice è infelice e chi non è morto è vivo, così è evidente che chi non è stolto è necessariamente saggio. Ne possiamo dedurre che Sergio Orata non fu infelice tanto perché temeva di perdere i doni di fortuna ma perché era stolto. Ne consegue che sarebbe stato più infelice se non avesse avuto timori da parte di cose tanto instabili e incerte che egli reputava beni. Sarebbe stato infatti più sicuro non per vigile fortezza di spirito ma per torpore mentale, comunque infelice perché immerso nella più profonda stoltezza. Ma se chiunque è privo della saggezza soggiace alla più grande privazione e chi ne è in possesso non ha alcuna privazione, ne consegue che la stoltezza è privazione. Inoltre come ogni stolto è infelice, così ogni infelice è stolto. Dunque è provato che la privazione è infelicità e l’infelicità privazione.

La privazione significa non avere;

4. 29. Trigezio confessò di non aver compreso la conclusione. Che cosa, gli chiesi, abbiamo accertato con la nostra analisi?”. Che soggiace alla privazione chi non possiede la saggezza”, mi rispose. “E che cosa è, soggiunsi, soggiacere a privazione?”. “Non avere la saggezza”. “E che cos’è, dissi, non avere la saggezza?”. Poiché taceva gli chiesi: “Avere la stoltezza?”. “Sì”, ammise. “Dunque, conclusi, avere la privazione e rispettivamente la stoltezza è la medesima cosa. Ne consegue che privazione è sinonimo di stoltezza. Tuttavia, non so perché, diciamo: Ha la privazione; ovvero: Ha la stoltezza. È lo stesso caso di quando diciamo che un luogo privo di luce ha le tenebre; non significa altro che non avere la luce. Le tenebre non vanno e vengono, ma mancare di luce significa essere nelle tenebre, come esser privo delle vesti significa esser nudo. Insomma, quando s’indossa una veste la nudità non fugge come un oggetto condizionato al moto locale. Così dunque diciamo che si ha la privazione come si dice che si ha la nudità. La privazione è categoria del non avere. Quindi per spiegare, come posso, il mio pensiero, si dice: Ha la privazione, come se si dicesse: Ha il non avere. E pertanto se risulta che la stoltezza è per sé vera e autentica privazione, cerca di comprendere che il problema è stato da noi risolto. Eravamo in dubbio se nel dire infelicità non intendessimo altro che privazione. Abbiamo spiegato che la stoltezza giustamente significa privazione. Dunque dobbiamo ammettere che, come lo stolto è infelice e l’infelice è stolto, così non solo chi soggiace a privazione è infelice ma anche chi è infelice soggiace a privazione. Dal principio che ogni stolto è infelice e ogni infelice è stolto si deduce che la stoltezza è infelicità. Così dal principio che chi soggiace alla privazione è infelice e chi è infelice soggiace alla privazione dobbiamo dedurre che l’infelicità è essenzialmente privazione”.

quindi si oppone a pienezza...

4. 30. Tutti dichiararono di essere d’accordo. “Ora è opportuno, proseguii, che esaminiamo chi non soggiace a privazione. Questi sarà l’uomo saggio e felice. Ora la stoltezza è privazione. Il nome stesso indica privazione poiché la parola si usa per significare una certa improduttività e insufficienza. Considerate dunque più attentamente con quanta diligenza gli antichi hanno foggiato tutte o, come si può vedere, alcune parole relative a significati la cui conoscenza era indispensabile. Ormai ammettete che lo stolto soggiace a privazione e chi soggiace a privazione è stolto. Penso che siate anche d’accordo che l’animo stolto è vizioso e che tutti i vizi dello spirito sono inclusi nell’unico concetto di stoltezza. Nel primo giorno di questa nostra disputa abbiamo detto che l’immoderatezza (nequitia) è stata così denominata perché è un non qualche cosa (nequidquam) e che il suo contrario, la moderatezza, è stata nominata da produttività (frux). Dunque in questi due contrari, moderatezza e immoderatezza, sono posti in evidenza l’essere e il non essere. Che cosa pensiamo sia il contrario di privazione, di cui si sta trattando?”. Esitarono a rispondere. “Se dicessi ricchezza, intervenne Trigezio, noto che il suo contrario è povertà”. “Il concetto è simile, gli risposi. Povertà e privazione di solito significano la stessa, cosa. Tuttavia si deve trovare un altro termine affinché alla parte migliore non ne rimanga uno solo. Difatti mentre la parte di povertà e privazione abbonda di termini, da quest’altra si opporrebbe soltanto il termine di ricchezza. E sarebbe veramente assurdo che si dia privazione di termini nella parte che è contraria alla privazione”. “Sono d’avviso, disse Licenzio, che la pienezza, se il termine è passabile, giustamente si oppone alla privazione”.

... che consiste nella misura e nel limite.

4. 31. “Per quanto riguarda la terminologia, risposi, ci torneremo sopra in seguito con maggiore attenzione. Non è un aspetto che si debba curare eccessivamente nella ricerca in comune della verità. E sebbene Sallustio, attentissimo ponderatore di parole, contrappone alla privazione l’abbondanza (cf. Sallustio, Cat. 52, 22), accetto codesta pienezza. Neanche nella presente indagine saremo liberi dalla preoccupazione per i grammatici e non dobbiamo correre il rischio di essere puniti da loro per avere usato senza sufficiente esame dei termini che essi hanno posto a nostra disposizione”. Sorrisero. “Dunque, continuai, poiché ho deciso, mentre siete intenti in Dio, di prendere in considerazione i vostri pensieri come se fossero oracoli, esaminiamo il significato del termine. Penso che sia più adattabile alla verità. Pienezza e privazione sono in opposizione. Ma anche in questa fattispecie, come nell’altra di immoderatezza e moderatezza, appaiono i due opposti di essere e non essere. E se la privazione è di per sé stoltezza, la pienezza sarà saggezza. Molti hanno giustamente insegnato che la moderatezza è madre di tutte le virtù. In accordo a loro anche Tullio in un discorso ha detto: Ciascuno la intenda come vuole; io ritengo la moderatezza, cioè la regola della misura e del limite, come la virtù più alta (Cicerone, Pro Deiot. 9, 26). Opinione assai ragionevole e conveniente perché ha tenuto in considerazione la produttività, cioè un qualche cosa di cui diciamo l’essere cui è contrario il non essere. Ma a causa dell’uso della parola nel popolo che di solito intende moderatezza come parsimonia, egli ha chiarito il proprio pensiero aggiungendo la regola della misura e del limite. Quindi esaminiamo attentamente questi due termini.

Quindi la saggezza è pienezza...

4. 32. Regola della misura (modestia) deriva da modus (misura) e regola del limite (temperantia) da temperies (limite). E dove si hanno misura e limite non c’è né il più né il meno. Dunque è di per sé la pienezza che abbiamo contrapposto a privazione molto più ragionevolmente che se le avessimo contrapposto abbondanza. Nell’abbondanza infatti sono implicite l’affluenza e quasi la produzione eccessiva di qualche cosa. E quando ciò si verifica al di là della sufficienza, manca la misura, poiché anche una cosa eccessiva è priva della misura. Quindi anche l’abbondanza non è altro dalla privazione poiché l’una e l’altra sono prive della giusta misura. Se poi si analizza il concetto di opulenza, si trova che rientra nella categoria della misura. Infatti opulenza deriva da ops (facoltà, potere). E il troppo non può conferire facoltà se spesso implica maggiore svantaggio del poco. Il poco e il troppo quindi, in quanto sono privi della misura, significano privazione. Ora la misura dell’anima è la saggezza. Infatti non si può negare che la saggezza è contraria alla stoltezza, che la stoltezza è privazione e che alla privazione è contraria la pienezza. Dunque la saggezza è pienezza e la pienezza consiste nella misura. Pertanto la misura per lo spirito consiste nella saggezza. Da qui il proverbio non immeritatamente celebre: È prima norma pratica del vivere: Non di troppo (Terenzio, Andria 61; cf. anche Plutarco, De tranq. an. 16, 474c.).

... e misura.

4. 33. Abbiamo detto al principio della nostra discussione d’oggi che se avessimo accertato la tesi dell’infelicità come privazione, avremmo dichiarato felice chi non soggiace a privazione. Ed è stato quindi dimostrato che esser felici è necessariamente non soggiacere a privazione, cioè esser sapiente. Ma forse voi chiedete che cosa sia la saggezza, poiché il pensiero umano, per quanto gli è possibile in questa vita, ha già tentato di analizzare e chiarire anche il suo significato. Non è altro che la misura dello spirito con cui esso raggiunge l’equilibrio in maniera da non effondersi nel troppo né restringersi al di sotto del limite della pienezza. Si effonde nella lussuria, nella volontà di dominio, nell’orgoglio e simili con cui lo spirito d’individui incapaci di moderazione e infelici crede d’accaparrarsi gioie e potenza. Si restringe nell’avarizia, nella pusillanimità, nella tristezza, nella cupidigia ed altri mali di varia specie, a causa dei quali anche gli infelici ammettono che gli uomini sono infelici. Quando invece lo spirito, raggiunta la saggezza, la fa oggetto della sua meditazione, e quando, per usare le parole di questo ragazzo, si tiene ad essa e non lasciandosi distogliere dalla vanità non si volge al culto dei falsi idoli, al cui peso abbracciato potrebbe cadere dal suo Dio e inabissarsi, allora non teme la mancanza di moderazione e quindi la privazione e l’infelicità. Pertanto chi è felice ha la misura di se stesso, la saggezza.

Dio, in quanto Verità, è l’ideale pienezza e misura...

4. 34. Ora dove la saggezza ha la sua ragione ideale se non nella sapienza di Dio? Sappiamo anche per magistero divino, che il Figlio di Dio è la stessa Sapienza di Dio e il Figlio di Dio è certamente Dio. Dunque chi è felice ha Dio. Sull’argomento si è avuto l’unanime nostro consenso all’inizio di questo banchetto. E voi siete d’avviso che la sapienza è la stessa verità. Anche questo è stato detto: Io sono la verità (Io 14, 6). Ma perché ci sia la verità si richiede la misura ideale da cui quella deriva e in cui realizzatasi ritorna. Alla misura ideale non è superiore altra misura. Se infatti la misura ideale è misura per la mediazione di una misura ideale, è misura per sé. Ma è fondamentale che la misura ideale sia vera misura. Come la verità diventa reale dalla misura, così la misura si conosce dalla verità. Né può avvenire dunque che si dia la verità senza la misura né la misura senza la verità. Chi è il Figlio di Dio? È stato già detto: Verità. E proprio la misura ideale non dovrebbe essere ingenerata? Chi dunque attraverso la verità raggiungerà la misura ideale è felice. Questo è possedere Dio nello spirito, cioè beatificarsi in Dio. Gli altri esseri, sebbene siano nel potere di Dio, non hanno in potere di raggiungerlo.

... di cui partecipando diveniamo felici.

4. 35. Un certo avvertimento, che opera in noi per farci ricordare di Dio, cercarlo e averne sete senza saziarci, ci proviene dalla stessa fonte della verità. Il sole intelligibile diffonde tale raggio sulla nostra vista interiore. Suo è il vero che pensiamo anche quando ci affanniamo a volgerci audacemente verso di lui e contemplarlo nella sua pienezza con occhi non ancora del tutto guariti o appena aperti. Ma ci si rivela soltanto che è Dio perfetto per assenza di mutazione del suo essere. Infatti in lui il tutto e la singola parte sono la stessa perfezione ed in atto è Dio totalità del possibile. Tuttavia finché cerchiamo, non ancora dissetati alla sorgente e, per usare il solito termine, alla pienezza, dobbiamo confessare che non abbiamo raggiunto la misura. Pertanto, nonostante l’aiuto di Dio, non siamo ancora saggi e beati. Questo è dunque il pieno appagamento dello spirito, questa è la felicità: conoscere con vivo sentimento religioso da chi l’uomo è indirizzato alla verità, da quale verità è beatificato e mediante quale principio si ricongiunge alla misura ideale. E questi tre principi sono il Dio unico ed unica sussistenza per coloro che sanno intendere dopo aver superato la falsità della multiforme superstizione pagana”. A questo punto mia madre, avendo rievocato le parole che erano profondamente impresse nella sua memoria e risvegliandosi, per così dire, alla propria fede, profferì con gioia il versetto del nostro vescovo: O Trinità, proteggi coloro che t’invocano (Ambrogio, cit. da Deus Creator omnium; PL 32, 1473) e soggiunse: “La felicità consiste senza dubbio nel raggiungimento del fine e si deve aver fiducia che ad esso possiamo esser condotti da una ferma fede, da una viva speranza, da un’ardente carità”.

Fine del banchetto e congedo.

4. 36. “E adesso, conclusi, la misura ci ammonisce d’interrompere per alcuni giorni anche il banchetto. Ringrazio, com’è possibile, il sommo e vero Dio Padre e Signore, liberatore delle anime e quindi voi che, cordialmente da me invitati, mi avete riempito di regali. Infatti avete contribuito alla nostra disputa in tal maniera che non posso negare di essere stato saziato dagli stessi miei invitati”. Tutti erano soddisfatti e lodavano Dio. E Trigezio esclamò: “Come vorrei che tu ci nutrissi tutti i giorni in tal misura”. Gli risposi: “Ma proprio la misura si deve osservare e rispettare in ogni cosa se vi sta a cuore il nostro ritorno a Dio”. Posto fine alla disputa con queste parole, ce ne andammo.
[Modificato da MARIOCAPALBO 04/02/2015 15:51]

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