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. Al primo posto mettete la confessione e poi chiedete una direzione spirituale, se lo ritenete necessario. La realtà dei miei peccati deve venire come prima cosa. Per la maggior parte di noi vi è il pericolo di dimenticare di essere peccatori e che come peccatori dobbiamo andare alla confessione. Dobbiamo sentire il bisogno che il sangue prezioso di Cristo lavi i nostri peccati. Dobbiamo andare davanti a Dio e dirgli che siamo addolorati per tutto quello che abbiamo commesso, che può avergli recato offesa. (Beata Madre Teresa di Calcutta)
 
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Di Padre Antonino M. di Monda

Ultimo Aggiornamento: 02/02/2015 13:18
01/02/2015 20:05

4. PERCHÉ È UTILE IL PENSIERO DELL'INFERNO
Ma, in concreto, perché è utile il ricordo e la riflessione sull'inferno? Soprattutto perché tale pensiero aiuta potentemente a tener lontano e a vince¬re tutte le suggestioni del male, del peccato che, a volte, sono tali da travolge¬re anche i più radicati nel bene. E il peccato - lo si sa - è il vero e più terribile nemico dell'uomo, perché strumento di sicura dannazione e l'unico grande ostacolo alla comunione con Dio e alla vita autentica dello spirito.
Naturalmente, invitando a riflettere e a parlare di inferno, non si può dedurre, come già detto, che tutto - nella religione cattolica - è basato sul terro¬re. Gesù, anche quando parla dell'inferno, parla per salvare le anime, indican¬do loro la via della salvezza.
E tutto ciò è sempre amore che incita, incoraggia, corregge, esorta. E chiunque può, così deve impostare la sua vita sui grandi misteri e beni della speranza cristiana.
Bisogna ringraziare il Signore anche per queste visioni o apparizioni avute dai Santi, essendo per tutti anche - come vedremo - dei richiami di amore, delle prospettive aperte su realtà che riguardano gli uomini di tutti i tempi e di ogni condizione. A chi si danna il Signore non può che ripetere quelle parole della Scrittura: "Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?" (Is 5,4).

Ma esiste veramente l'inferno?
Sono tanti oggi, anche tra fedeli che frequentano la Chiesa e Sacramenti, a negare l'esistenza dell'inferno. A parte ogni altra motivazione, sembra impossibile che Dio, infinitamente buono e misericordioso, possa e voglia condannare inesorabilmente e per sempre a un supplizio eterno che nessun'immagine o parola può descrivere.

1. L'INFERNO Sì, MA SULLA TERRA
Magari, sì, un inferno esiste - dicono tanti -, ma sulla terra dove troppo spesso è preparato da uomini ad altri uomini con una ferocia inimmaginabile. Di ciò ne siamo tutti arciconvinti, tanto evidente è questa triste realtà, ma non sarà inutile addurne qualche esempio soprattutto perché - come si dirà più avanti - l'inferno dell'aldilà è la continuazione dell'inferno sulla terra.
Si pensi ai gulag dei regimi comunisti, ai campi di concentramento dei nazisti, autentici inferni. Non esagerano coloro - soprattutto quelli che li speri¬mentarono sulla loro pelle - a qualificarli come tali.
Una descrizione di un vero "inferno" sulla terra ci è offerto da Primo Levi che così presenta la vita da lui vissuta in un campo di concentramento nazista della seconda guerra mondiale: "Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l'autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi.
Siamo scesi, ci hanno fatto entrare in una camera vasta e nuda, debol¬mente riscaldata. Che sete abbiamo!
Il debole fruscio dell'acqua nei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c'è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l'acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, 'essi' sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera e c'è un rubinetto, e Wasser trinken verboten. Io bevo, e inci¬to i compagni a farlo: ma devo sputare, l'acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude. Questo è l'inferno.
Oggi, ai nostri giorni, l'inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pen¬sare? Non si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia".
E continua: "Alla campana si è sentito il campo buio ridestarsi. Im¬provvisamente l'acqua è scaturita bollente dalle docce, cinque minuti di bea¬titudine; ma subito dopo irrompono quattro (forse sono i barbieri) che, bagna¬ti e fumanti, ci cacciano con urla e spintoni nella camera attigua, che è geli¬da; qui altra gente urlante ci butta addosso non so che stracci, e ci schiaccia in mano un paio di scarpacce a suola di legno, non abbiamo tempo di com¬prendere e già ci troviamo all'aperto, sulla neve azzurra e gelida dell'alba, e scalzi e nudi, con tutto il corredo in mano, dobbiamo correre fino ad un'altra baracca, a un centinaio di metri. Qui ci è concesso di vestirci. Quando abbia¬mo finito, ciascuno è rimasto nel suo angolo, e non abbiamo osato levare gli occhi l'uno sull'altro. Non c'è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi.
Eccoci trasformati nei fantasmi intravisti ieri sera. Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c'è, e non è pensabile. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero.
Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo tro¬vare in noi la forza di farlo, di far sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga. Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valo¬re, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara.
Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroverem¬mo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, venga¬no tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero deci¬dere e della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità.
Si comprenderà allora il duplice significato del termine 'Campo di annientamento', e sarà chiaro che cosa intendiamo esprimere con questa frase: giacere sul fondo".
Ed ecco la notte. "Così si trascinano le nostre notti. Il sogno di Tantalo e il sogno del racconto si inseriscono in un tessuto di immagini più indistin¬te: la sofferenza del giorno, composta di fame, percosse, freddo, fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre.
Ci si sveglia a ogni istante, gelidi di terrore, con un sussulto di tutte le membra, sotto l'impressione di un ordine gridato da una voce piena di colle¬ra, in una lingua incompresa. La processione del secchio e i tonfi dei calca¬gni nudi sul legno del pavimento si mutano in un'altra simbolica processio¬ne: siamo noi, grigi e identici, piccoli come formiche e grandi fino alle stelle, serrati l'uno contro l'altro, innumerevoli per tutta la pianura fino all'orizzon¬te; talora fusi in un'unica sostanza, un impasto angoscioso in cui ci sentiamo invischiati e soffocati; talora in marcia a cerchio, senza principio e senza fine; con vertigine accecante e una marea di nausea che ci sale dai precordi alla gola; finché la fame, o il freddo, o la pienezza della vescica non convo-gliano i sogni entro gli schemi consueti.
Cerchiamo invano, quando l'incubo stesso o il disagio ci svegliano, di districarne gli elementi, e di ricacciarli separatamente fuori dal campo del¬l'attenzione attuale, in modo da difendere il sonno dalla loro intrusione: non appena gli occhi si richiudono, ancora una volta percepiamo il nostro cervel¬lo mettersi in moto al di fuori del nostro volere; picchia e ronza, incapace di riposo, fabbrica fantasmi e segni terribili, e senza posa li disegna e li agita in una nebbia grigia sullo schermo dei sogni".
Per sopravvivere: nel lager "vi è una vasta categoria di prigionieri che, non favoriti inizialmente dal destino, lottano con le sole loro forze per sopravvivere. Bisogna risalire la corrente; dare battaglia ogni giorno e ogni ora alla fatica, alla fame, al freddo, e alla inerzia che ne deriva; resistere ai nemici e non aver pietà per i rivali; aguzzare l'ingegno, indurare la pazienza, tendere la volontà. O anche, strozzare ogni dignità e spegnere ogni lume di coscienza, scendere in campo da bruti contro altri bruti, lasciarsi guidare dalle insospet¬tate forze sotterranee che sorreggono le stirpi e gli individui nei tempi crude¬li. Moltissime sono state le vie da noi escogitate e attuate per non morire: tante quanti sono i caratteri umani. Tutte comportano una lotta estenuante di cia¬scuno contro tutti, e molte una somma non piccola di aberrazioni e di compro¬messi. Il sopravvivere senza aver rinunciato a nulla del proprio mondo mora¬le, a meno di potenti e diretti interventi della fortuna, non è stato concesso che a pochissimi individui superiori, della stoffa dei martiri e dei Santi".
Ed ecco ancora un'altra pagina che dà un'idea di un altro "inferno" escogitato dagli uomini: "La Securitate, la polizia politica rumena, durante gli interrogatori ricorreva ai metodi di tortura classici: pestaggi, percosse sulle piante dei piedi e sospensione per i piedi, a testa in giù. A Pitesti la cru¬deltà delle torture ha di gran lunga superato questi metodi.
Venne praticata tutta la gamma dei supplizi possibili e impossibili; alcune parti del corpo venivano bruciate con la sigaretta; alcuni prigionieri avevano le natiche necrotizzate e la carne che cadeva come quella dei lebbro¬si; altri erano obbligati a ingurgitare un'intera gamella di escrementi e quan¬do vomitavano gli veniva ricacciato il vomito in gola. La fantasia delirante di Turcanu si scatenava in modo particolare contro gli studenti credenti che rifiutavano di rinnegare Dio.
Alcuni venivano 'battezzati' tutte le mattine nel seguente modo: si immergeva loro la testa in una tinozza piena d'urina e di materia fecale, men¬tre gli altri detenuti attorno salmodiavano la formula del battesimo. Perché il suppliziato non annegasse, di tanto in tanto gli si tirava fuori la testa e lo si lasciava respirare un attimo prima di reimmergerlo in quella mistura. Uno di questi battezzati, che aveva subìto sistematicamente questa tortura, aveva acquisito un automatismo che durò circa due mesi: tutte le mattine andava a immergere da solo la testa nella tinozza, con grande gioia dei rieducatori. I seminaristi invece erano obbligati da Turcanu a officiare le messe nere che lui metteva in scena, soprattutto durante la settimana santa, la sera di Pasqua.
Alcuni facevano i cantori, altri i sacerdoti. Il testo della liturgia di Turcanu era evidentemente blasfemo e parafrasava in maniera demoniaca l'originale. La Santa Vergine era chiamata "la grande puttana" e Gesù "il coglione che è morto sulla croce". Il seminarista che faceva il prete veniva fatto spogliare completamente, gli veniva avvolto addosso un mantello mac¬chiato di escrementi e appeso al collo un fallo confezionato con il sapone e la mollica di pane e cosparso di DDT.
Nel 1950, durante la notte di Pasqua, gli studenti in corso di rieduca¬zione dovettero passare davanti a un simile prete, baciare il fallo e dire: "Cristo è resuscitato".
La prima fase della rieducazione si chiamava "smascheramento ester¬no; il prigioniero doveva dare prova della propria lealtà confessando quanto aveva nascosto durante l'istruttoria del processo, in particolare i legami con amici in libertà.
Nella seconda fase, lo smascheramento interno. doveva denunciare quanti l'avevano aiutato all'interno della prigione. Nella terza fase, lo sma¬scheramento morale pubblico si chiedeva al detenuto di schernire tutto ciò che considerava sacro: i genitori, la moglie, la fidanzata, Dio se era credente, gli amici. Si arrivava così alla quarta fase: il candidato all'adesione all'ODCC veniva designato a ‘rieducare’ il suo migliore amico, torturandolo con le sue stesse mani e diventando, quindi, a propria volta un carnefice".
Le scene descritte sono così orripilanti da giustificare, in qualche modo, l'idea di un inferno posto in atto dalla perversità e dalla fantasia di uomini inqualificabili. E, tuttavia, esiste pure l'inferno, quello eterno dell'al¬tra vita, incomparabilmente più spaventoso.

2. ESISTE ANCHE L'INFERNO DELL'ALDILÀ
Se è impossibile negare l'esistenza di veri e propri inferni sulla terra, un inferno eterno, invece, appare più che mai, a tanti, una vera e propria favo¬la inaccettabile per mille ragioni. Eppure - ne abbiamo già fatto cenno -: "Tutti i popoli furono persuasi dell'esistenza di una pena eterna per gli empi.
I Greci, i Romani, i Galli, i Persiani, gli Indiani, i Cinesi e altri popo¬li dell'Oriente, quelli barbari e pagani dell'Europa settentrionale come i Germani e i Britanni, numerose tribù primitive dell'Africa, varie scuole mao¬mettane, come pure i gruppi indigeni scoperti recentemente in America e in Australia, tutti ammettono una vita ultraterrena, dove gli empi soffriranno pene gravissime. È rilevante il valore di questo consenso perché s'impone per la sua antichità e universalità, riguarda una verità spiacevole (specialmente per i malvagi), a cui non si può assegnare altra origine che la Rivelazione o la voce della coscienza. Questa, allo stesso modo che promulga la legge natu¬rale e rende certa l'esistenza del Legislatore Supremo, così ne manifesta anche la sanzione. Un tale consenso non può essere basato sull'errore". Questa credenza universale è confermata in pieno dalla Rivelazione.
Il catechismo della dottrina cattolica - che abbiamo riportato sopra - non fa che ripetere e riassumere la rivelazione divina, portata alla perfezione da Cristo stesso. Non vogliamo qui elencare tutti i testi e le prove del N.e V. Testamento, per i quali rimandiamo ad autori competenti.
Eccone però almeno alcuni, tra i più significativi.
Nel libro di Giuditta si legge: "Il Signore onnipotente si vendicherà di essi (gli empi e ribelli a Dio), e li visiterà nel giorno del giudizio; Egli farà entrare il fuoco e i vermi nella loro carne, perché siano bruciati e straziati in eterno" (Giuditta 16, 20- 21).
È chiaro che qui si parli dello stato del dannato, bruciato e straziato in eterno dal fuoco e da altre pene.
Non meno esplicito il profeta Isaia: "Si sono atterriti in Sion i pecca¬tori, il tremito ha invaso gli ipocriti. Chi di voi potrà stare col fuoco divora¬tore? Chi di voi potrà stare nelle fiamme eterne?" (Is 33, 14).
Chi non conosce poi la parabola del ricco epulone? Il ricco che ban¬chetta tutti i giorni e il povero Lazzaro tormentato dalla fame. Ma ecco, que¬sti muore ed è portato dagli angeli nel seno di Abramo (= in paradiso). Muore il ricco e va all'inferno: in mezzo ai tormenti, torturato dalla sete e dal fuoco, implora una stilla d'acqua ma gli viene negata, oltre tutto perché "tra noi e voi - dice Abramo - è stabilito un grande abisso, che non si può attraversare" (Lc 16,19-31).
Gesù spesso parla di fuoco eterno, di verme inestinguibile, di tenebre e stridore di denti, ecc.
Al giudizio finale - dice il Signore - buoni e cattivi sono separati: i buoni alla destra e i perversi alla sinistra. A questi egli dirà: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli" (Mt 25,31-46).
"Molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti" (Mt 8,12).
Per l'uomo trovato al banchetto nuziale senza l'abito nuziale, "il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti" (Mt 22,13).
La metafora "tenebre esteriori" è, secondo Maurizio Blondet, agghiac¬ciante. "Gesù - egli dice -, quando allude a 'le tenebre esteriori dove non è che pianto e stridor di denti', deve ricorrere a parole scelte da una zona estrema del linguaggio', come fa dire Thomas Mann al suo diavolo, che con il nome di Sammael (angelo del veleno) si presenta al musicista Leverkhun per com¬prargli l'anima. Perché si possono usare molte parole, ma tutte stanno soltan¬to per nomi che non esistono.
Questa è precisamente la gioia segreta, la sicurezza dell'inferno: che non è enunciabile, che è salva dal linguaggio. Che esiste semplicemente, ma non la si può mettere nel giornale, non la si può rendere pubblica, non se ne può dare una nozione critica con parole. (...) E, infatti, ciò che più colpisce è come Gesù, nell'alludere a ciò che avviene nelle tenebre esteriori, ricorra a una frase d'impersonalità inaudita, una impersonalità di secondo grado. Non dice che `nelle tenebre esteriori'si piange e si stridono i denti. Non dice nem¬meno che `non c'è altro' che pianto e stridore; già quell'altro è di troppo, per¬ché non c'è più, forse, nemmeno la minima traccia di `altro'.
Tutto ciò che c'è là fuori non è che pianto e stridor di denti. Potrem¬mo sospettare che non esistano nemmeno più esseri umani nel senso proprio, ma solo residui. C'è infatti là fuori qualcuno che piange e stride? A prendere le parole di Cristo nel senso letterale, non c'è che pianto e stridore".
S. Pietro e l'Apocalisse ci dicono, pure, tra l'altro, per chi è destinato l'inferno. "Non sapete voi che gli ingiusti non possederanno il regno di Dio? Badate a non errare: né i fornicatori, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né quelli che peccano contro natura, né i ladri, né gli avari, né i dediti all'ubriachezza, né i maldicenti, né i rapaci, avranno l'eredità del regno di Dio". L'inferno è soprattutto per quelli "che vanno dietro alla carne, nell'immonda concupiscenza, e disprezzano l'autorità" (2 Pt 2,9-10).
L'inferno è per "i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immo¬rali, i fattucchieri, gli idolatri e per tutti i mentitori" ( Apoc 21,8).
Anche l'apostolo Paolo afferma che coloro che non obbediscono al Vangelo saranno: "castigati con una rovina eterna, lontano dalla faccia del Signore" (2 Thess 1,9). Alla fine dei tempi "il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti" (Mt 13,41-42).
Da dire pure che, leggendo attentamente il Vangelo si ha addirittura l'impressione che esso parli soprattutto dell'inferno: vedi, per es., la parabola delle vergini sapienti e stolte (queste trovano la porta chiusa e sono escluse dalla cena e lasciate nella tenebra e freddo della notte...); la parabola dei talenti (il servo fannullone, cacciato e spogliato di tutto), ecc. Non c'è, quasi pagina soprattutto del Vangelo, dove non si parli o non si alluda all'inferno.
Superfluo ricordare che chi parla, con tanta chiarezza e decisione del¬l'inferno, è Cristo Redentore, Colui cioè che ha dato la vita per l'umanità, e che ha mostrato e parlato in maniera ammirabile della divina misericordia (si pensi solo alla parabola del Figliuol prodigo). Si può allora rimanere sconcer¬tati quanto si vuole, incapaci come siamo di conciliare l'infinita misericordia con l'infinita giustizia divina, ma non si può mettere in dubbio la verità affer¬mata: esiste un inferno, spaventoso luogo di tormenti, e un inferno eterno.
Di fronte ad affermazioni così categoriche, che senso hanno certe affer¬mazioni o difficoltà avanzate magari, spesso, anche da preti e teologi di fama? Tutte le obiezioni - quali che siano e anche moltiplicate all'infinito e non risol¬te in pieno dalla ragione -, mai potranno scalfire le affermazioni chiarissime della Rivelazione. Il Cardinale Newman, se non erro, diceva che cento obie¬zioni non costituiscono un argomento. Se, infatti, si ha a che fare con una veri¬tà autentica, alle obiezioni si può anche non saper rispondere per mille ragio¬ni, ma esse mai potranno vanificarla o eliminarla.

3. OBIEZIONI E DIFFICOLTÀ
Ma quali sono le obiezioni che più si affacciano contro questa verità rivelata?
Si insiste soprattutto sulla inconciliabilità di un inferno spaventoso ed eterno con la misericordia infinita di Dio. Come può Dio, infinitamente mise¬ricordioso, condannare alla dannazione eterna un povera creatura che, cattiva quanto si voglia, non può di per sé voler offendere tanto il Signore da merita¬re pena così spaventosa? In effetti, il peccatore, volente o nolente, è pur sem¬pre una creatura di impensabile fragilità e miseria.
Come è possibile poi immaginare un inferno eterno? Due obiezioni che sembrano toccare di più la sensibilità e che, sempre ripetute, si direbbero quel¬le che più vanno di... moda.
Un accenno significativo di questa "moda", tra i tanti, lo troviamo nel romanzo "Il Cavallo Rosso" di Eugenio Corti. Manno che discute e rifiuta, ritenendola arbitraria, la placida fiducia di alcuni, di certi giovani preti. A que¬sti egli dice, per es.: "Dunque, se di qua l'inferno c'è, perché dobbiamo esclu¬dere che possa esserci anche di là? Per quale ragione?
Con la differenza fondamentale che di là gli esseri umani non si trova¬no nel tempo, ma nell'eternità, dunque anche nell'eternità dell'inferno...". (...) 'Ma Dio è amore, lo vuoi capire?', tornavano a contrastarlo quei preti fiduciosi (...). `Tu, imperfetto come sei, manderesti qualcuno all'inferno, cioè nei tormenti per l'eternità?' gli obiettava anche adesso il cappellano: `e vuoi che ce lo mandi Dio? Il quale oltretutto ci prescrive, sopra ogni altra cosa, di amarci e di evitarci le sofferenze gli uni agli altri?' Il punto però - si diceva Manno -stava qui: nel fatto che non era mica Dio a mandarceli. Proprio come non era Dio a introdurre gli uomini negli inferni di questa guerra: sono loro stessi, gli uomini, che nella loro terribile libertà ci si mettono (che partono ad es., in guerra gli uni contro gli altri, che inventano il razzismo, eccetera), e lo fanno in contrasto con Dio, andando cioè contro la sua volontà e i suoi coman¬damenti... "Per poi concludere magari, i più incoscienti, che Dio non esiste, visto che c'è tanto male sulla terra!".
C'era inoltre quel particolare del fuoco, quegli accenni qua e là nei testi sacri al fuoco eterno. Per quegli accenni più d'un credente finisce con l'attri¬buire alla parola inferno un significato solo metaforico. "Molti non credenti poi, per quegli accenni si confermano nell'opinione che la Scrittura è una mescolanza inattendibile di miti, leggende, racconti storici e prescrizioni varie, messa insieme da un popolo di seminomadi".
Per lui al contrario quei richiami al fuoco rendevano la sgradevole pro¬spettiva dell'inferno -anche in questo momento lo constatava - più plausibile. "Perché se l'essere umano è davvero costruito per formare un tutt'uno con Dio, come i tralci con la vite, allora il trovarsi definitivamente separato da Dio (questo e non altro essendo l'inferno) comporterà - per l'essere umano immortale - una sorta di disintegrazione permanente...
E cos'altro sulla terra potrebbe rendere meglio del fuoco l'idea della disintegrazione?". 'Il fatto che quei seminomadi, solo in parte coscienti di ciò che scrivevano, e certo ignoranti del rapporto vite-tralci, avessero usata la parola fuoco, secondo lui contribuiva dunque a indicare che avevano scrit¬to sotto un'ispirazione superiore...".
Si fa leva sul sentimento e si fantastica addirittura di visite della Madonna ai dannati: "Nell'apocrifo russo Viaggio della Madre di Dio al luogo dei tormenti, Maria visita i poveri peccatori all'inferno, è stupita dai loro paurosi castighi e chiede a suo Figlio di concedere ad essi occasionali sospensioni dalle torture ogni anno da Pasqua a Pentecoste". Tornando alle obiezioni avanzate da tanti, è chiaro che non si può qui rispondere dettagliatamente, perché ci porterebbe lontano e non è questo lo scopo di queste pagine. Si potrebbe però rispondere semplicemente - come or ora abbiamo detto - che di inferno parla proprio Cristo, Salvatore del genere umano, che soprattutto dal Vangelo si rivela ricchissimo di pietà e di miseri¬cordia. Non si vorrà certo accusare Gesù di contraddizione.
Ciò porta alla logica conclusione che la creduta opposizione tra mise¬ricordia e giustizia è solo frutto della debolezza e finitezza della ragione crea¬ta, incapace di sondare il mistero nella sua radice. Comunque all'obiezione suddetta il Compendio del Catechismo della Dottrina cattolica così risponde quanto alla pena dell'inferno"... è l'uomo stesso che, in piena autonomia, si esclude volontariamente dalla comunione con Dio se, fino al momento della propria morte, persiste nel peccato mortale, rifiutando l'amore misericordio¬so di Dio".
L'obiezione avanzata da sempre da innumerevoli persone, viene formu¬lata spesso in questi termini: "L'inferno non può essere eterno perché Dio è Amore". Si risponde: forse che l'amore è incompatibile con un inferno eter¬no? Dante, grandissimo poeta, e teologo forse ancora più grande, pone sulla porta dell'inferno questa iscrizione: "Giustizia mosse il mio alto fattore: /Fecemi la divina potestate, / La somma sapienza, e il primo amore".
Egli dice cioè che l'inferno è fatto sia dalla potenza, sia dalla sapienza e sia dall'amore! Come spiegare questo? Dante non ha avvertito la forza del¬l'obiezione? Tempo fa io stesso scrivevo: "L'amore vero è, per necessità, sapiente e giusto, legame, vincolo e splendore di tutte le virtù ". E perciò soprattutto in Dio "non c'è solamente un legame necessario tra gli infiniti (suoi) attributi, ma questi, compenetrandosi ed identificandosi come misterio¬si ineffabili cerchi di oro, fanno sì che anche l'amore non possa non essere, allo stesso tempo, anche ordine, giustizia e sapienza e onnipotenza.
Dio che restaura l'ordine e punisce il peccato soddisferà perciò non meno alle esigenze della giustizia che a quelle di un amore infinito. Certo, la povera ragione umana sente qui le vertigini della sua sconfinata debolezza. Poiché però certamente Dio è, tra l'altro giustizia e amore infinito, e poiché non è meno certa la rivelazione dell'inferno, a nessuno sarà permesso di negare una sola di queste verità sol perché non riesce a coglierne il nesso con le altre". E aggiungevo pure più tardi che "Non è Dio Amore che vuole l'inferno eterno, è l'anima che nella sua cecità misteriosa mai chiederà per¬dono a Dio e perciò mai Dio Amore potrà accordarlo a chi lo rifiuta ostina¬tamente". Poiché però il mistero comunque permane grande, non resta che chinare la testa davanti all'imperscrutabile, adoperandosi con tutte le forze a non incappare in così spaventosa realtà!

In che consiste l'inferno
Una volta affermata l'esistenza dell'inferno, si vuol sapere naturalmen¬te in che cosa esso consista realmente. Già da quanto detto viene fuori una immagine abbastanza realistica dell'inferno. Trattandosi però di un argomen¬to che, almeno in parte, sfugge alla ragione umana, è bene scendere a maggio¬ri dettagli, sulla scorta sempre dei dati rivelati. Da non dimenticare però che il linguaggio umano, per quanto si voglia, -soprattutto per alcune verità di fede, e tra queste certamente l'inferno - resta sempre assolutamente inadatto alla bisogna, ben lontano cioè dalla realtà. Un punto, questo, sottolineato - come vedremo - da quasi tutti i Santi che, avendo visto l'inferno, ce lo hanno descritto.

1. LUOGO E/O STATO?
Prima di addentrarci nell'argomento è opportuno chiedersi se l'inferno è uno stato e/o un luogo. Il quesito è di non lieve importanza, perché, tra l'al¬tro, se l'inferno fosse solo un luogo, i diavoli o le anime dannate che, per qual¬siasi ragione, ne uscissero fuori, sarebbero, almeno in queste ipotizzate paren¬tesi, libere dai loro tremendi supplizi. Un'interruzione quindi o almeno una attenuazione delle terribili pene a cui sono essi assoggettati.
L'inferno, per prima cosa, è certamente uno stato, più che un luogo. Lo stato si confonde con l'essere stesso, implicando esso qualcosa che è nello stesso proprio essere e che, quindi, lo si porta con sé ovunque si vada e comunque si viva. Chi è in stato di malattia, ovunque egli si trovi - o all'ospe¬dale o a casa sua, o a Roma o a Parigi - è sempre malato.
Essendo uno stato, perciò, è chiaro che il dannato l'inferno, per così dire, lo porta con sé e in sé, ovunque possa trovarsi. Si può capire così come il diavolo, pur scorrazzando - Dio permettendolo - per il mondo, è sempre nel¬l'infelicissimo stato di dannazione eterna: e cioè ovunque va e comunque si trova, egli è sempre a bruciare nell'inferno.
Lo stato del demonio e del dannato è uno stato spaventoso di sofferen¬za inesprimibile, di disperazione totale, di solitudine inguaribile, di odio che rode e scarnifica, per così dire, tutto l'essere.
Non importa - o meglio - importa poco se tutto questo è sofferto anche in un luogo tenebroso che accresce la sofferenza: lo stato di dannazione, sostanzialmente, resta quello che è.
Detto questo e fatta chiarezza su alcun punti essenziali, niente impedi¬sce di ritenere - anzi di dover ritenere - l'inferno anche un luogo. La parola stessa "inferno" dice qualcosa o una realtà "che è sotto". Da dire anzi che alcuni dati biblici sembrano favorire questa opinione. La rivelazione, infatti, parla di "tenebre esteriori"; al ricco epulone che, dall'inferno, chiede il refri¬gerio di una stilla d'acqua, Abramo risponde, tra l'altro: "tra noi e voi è sta¬bilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non posso¬no, né di costì si può attraversare fino a noi" (Lc 16,26); al giudizio finale Dio dirà a quelli della sinistra, i dannati in pratica: "Via da me, maledetti, al fuoco eterno ...e andranno al castigo eterno" (Mt 25,41.46).
In merito però a questa questione non esistono - né nella S. Scrittura né nel Magistero della Chiesa - affermazioni esplicite e dogmatiche. La Chiesa non si è pronunziata mai in maniera infallibile, anche se tutto lascia pen¬sare - visioni di inferno e apparizioni di dannati - che l'inferno sia - oltre che stato - anche un luogo spaventoso. Senza escludere del tutto l'ipotesi che, trat¬tandosi di apparizioni avute da creature umane e a creature umane destinate, lo stato di dannazione potrebbe essere stato, per così dire, come materializza¬to anche in un luogo per farne meglio risaltare l'orrenda realtà. Anche i Padri della Chiesa, però, e i teologi più quotati, generalmente, ritengono che l'infer¬no sia pure un luogo di pena e di sofferenza inimmaginabile che si trovereb¬be sulla terra o sotto terra.
Ma se si parla dell'inferno che è anche un luogo, perché esso è sito o immaginato sotto terra? La distanza anche materiale o spaziale, anzi lo spro¬fondamento nell'abisso non vorrà significare anche e soprattutto lo stato di maledizione e di lontananza da Dio?

2. LE PENE DELL'INFERNO
Checché sia di questa questione, diavoli e anime in stato di dannazio¬ne soffrono l'assenza di Dio (la cosiddetta pena del danno) e ogni genere di inimmaginabili tormenti sensibili (la cosiddetta pena del senso).

a. L'assenza di Dio
Il più grande tormento dei dannati è il non poter più vedere Dio. Per coloro che vivono sulla terra, immersi come sono nei sensi e distratti da mille cose, il non poter vedere Dio potrebbe ritenersi come qualcosa di insignifican¬te quasi. Finché infatti si vive quasi solo di materia, l'uomo può vivere anche senza Dio, come se egli non esistesse affatto. E purtroppo così vivono milio¬ni di uomini, tutti ingolfati nel lavoro, nei piaceri della terra, nel guadagno di denaro e di beni dalle mille attrattive. Spogliato però del suo corpo e venuto del tutto meno il mondo delle cose passeggere, si avvertirà da tutti il peso di quella irresistibile innata tendenza a Dio che è l'eterno, l'infinito, la pienezza, la vera felicità che soddisfa in tutto.
Nel cuore del dannato c'è questa indistruttibile e fortissima tendenza verso Dio, e allo stesso tempo una spaventosa e irresistibile avversione che lo porta a odiarlo con odio inestinguibile, a bestemmiarlo incessantemente. E come un'onda portata inesorabilmente sulla spiaggia, egli tende e si slancia verso Dio e sempre ne è ricacciato. Quel Dio, mille volte offertosi nell'amo¬re e nell'abbraccio del perdono, e mille volte rifiutato, ora per il dannato è il vero bene dal quale si sente per sempre escluso. La sua infelicità e la sua disperazione stanno soprattutto qui.
Tutto ciò è presentato dal Faber in una splendida pagina, - che riportia¬mo qui integralmente, scusandoci con i lettori per la sua lunghezza - nella quale si chiede a che cosa si può assomigliare questa pena. "... Vediamo a che somigli, poiché fortunatamente eccede ogni immaginazione a concepirne la tremenda realtà.
Supponiamo che noi potessimo vedere gli ingenti pianeti e le pondero¬se stelle rotanti la loro orrenda massa con spaventevole e forse con rumoro¬sa velocità, tuonando nei campi del firmamento con furioso moto gigantesco, quale viene debolmente raffigurato da una valanga, e descrivendo con devia¬zioni che spaventano e con evoluzioni che fanno rabbrividire, le orbite per forza centripeta e centrifuga; noi vedremmo nella nudità delle sue ingenti operazioni la legge divina di gravità.
In pari modo noi scorgeremmo le vere relazioni tra Dio e noi, il vero significato e valore della sua benefica presenza, se potessimo vedere un'anima dannata al momento della sua riprovazione finale e giudiziale, pochi istanti dopo la sua separazione dal corpo, ed in tutto il vigore d' un'anima sciolta dall'ingombro del corpo e nell'orrore d'un penare senza fine.
Nessuna belva feroce nelle selve, nessuna chimera dell'immaginazione pagana potrebbe essere così orribile. Appena tirata l'insuperabile barriera tra essa e Dio, ciò che i teologi chiamano amore radicale della creatura per il Creatore erompe in una vera tempesta di incessanti sforzi. Cerca il suo cen¬tro, e non lo trova. Balza verso Dio, ed è di nuovo piombata al basso. Si lan¬cia e batte contro le pareti di granito della sua prigione con tale incredibile forza che il pianeta deve essere ben saldo nel suo equilibrio per non spostar¬si all'urto di quella violenza spirituale. Ma la legge di gravità è ancora più forte, ed il pianeta oscilla lievemente nella sua splendida atmosfera. L'anima sciolta dal corpo non può impazzire, altrimenti l'idea di un insuperabile desi¬derio di Dio, e l'inefficace attrazione della gloriosa Divinità, basterebbero a far dare volta alla ragione.
Percorrendo la sua bruciante gabbia, quello spirito colle sue molte facoltà ed accresciuta intelligenza spende la sua tormentosa immortalità variando, sempre ricominciando e compiendo con monotonia, come belva ingabbiata contro le ferree sbarre, un triplice movimento, non tre movimenti successivi, ma simultanei, un triplice movimento disperato.
Nella sua rabbia vorrebbe raggiungere Dio, ed afferrarlo e detroniz¬zarlo, ucciderlo e distruggerlo. Nella sua agonia vorrebbe soffocare la sua interna sete di Dio, che la inaridisce, la dissecca e la brucia, con tutto il furente orrore d'una sfrenata frenesia. Nelle sue furie vorrebbe spezzare le sue strette catene di rodente fuoco che fissano e rendono immobile il suo amore radicale del Sommo Bene, e la sospingono sempre indietro con urli crudeli, rendendo vana la sua disperata tendenza verso il Centro Increato. Con questi continui e vani tre sforzi passa la sua vita d'interminabili orrori. La veemen¬za con cui lancia le sue imprecazioni contro Dio è vana; esse ricadono senza salire molto alte, restando molto al di sotto del suo tranquillo e festeggiato trono.
Finalmente le passa innanzi l'immensità di Dio, che per lei è improfit¬tevole e senza consolazione; questa non è una vera immagine, ma solo un'om¬bra informe, ma pur l'anima conosce che è Dio. Con uno strido che dovreb¬be essere udito in tutto il creato si slancia su tale ombra, ed urta, benché puro spirito, contro terrori materiali. Tenta afferrar l'ombra di Dio, ed invece abbraccia scottanti fiamme. Si rialza per altra riscossa contro di lui, ma si vede innanzi dei ceffì satanaci. Si slancia presso quell'ombra quanto è lunga la propria catena, ed urta un'atterrita folla di anime maledette e dannate come lei.
Così si contorce sempre col sentimento di essere la tormentatrice di se stessa. Così non passa ora del nostro tempo, non istante delle nostre stellate notti, non intervallo nelle vibrazioni delle nostre selve rischiarate dalla luna, non ondulazione d'aure profumate dai nostri giardini, non nota di delizia musicale per noi, senza che quella sciagurata e non commiserevole anima non si senta nuovamente venir meno per l'opprimente sentimento che tutto quan¬to la circonda è eterno. Tutto questo non è che l'assenza della dolce presenza di Dio nella sua creazione".
S. Agostino, a sua volta, afferma: "L'essere respinto dal regno di Dio, l'essere esiliato dalla città di Dio, l'esser privati della vita di Dio, mancare della grande abbondanza della dolcezza di Dio... è pena così grande che non può essere paragonata a nessuna altra pena che si conosca".
"Allontanatevi da me, maledetti" (Mt 25,41). Questa parola che il Giudice supremo dirà a tutti gli esclusi dal paradiso, pesa già come una mon¬tagna sul dannato e per sempre. Una tragedia che le più patetiche situazioni umane - come quella della madre tutta tesa verso la sua creatura che non può vedere; o come quella dell'esule che muore di nostalgia e di rimpianto per la sua terra amata che non vedrà mai più - non ne sono che immagine sbiadita.

b. La pena del senso
Alla pena del danno è congiunta pure la pena del senso, e cioè quell'in¬sieme di sofferenze che affligge il corpo dell'uomo attraverso i suoi cinque sensi: vista, udito, gusto, odorato e tatto. I dannati, pur spogliati del corpo, le soffrono come se lo avessero. Il Signore - dice Teresa d'Avila - volle farmi sen¬tire in ispirito quelle pene ed afflizioni (= dell'inferno), come se le soffrissi nel corpo.
Perciò i dannati vedono continuamente immagini e spettacoli orrendi, sono frastornati da clamori e urla spaventose, sentono fetori da non dire; come pure sono cruciati da contatti e pressioni e cose del genere per tutto l'es¬sere.
Le pene del senso consistono prima di tutto e soprattutto nel fuoco che brucia e tortura i dannati fin nelle radici stesse del loro essere.
Si obietterà: come può il fuoco torturare l'anima, lo spirito? A parte che Dio può tutto e quindi può fare pure che il fuoco tocchi e tormenti lo spirito; si deve ricordare che il fuoco dell'inferno, pur essendo vero fuoco come inse¬gna la Chiesa, non è della stessa natura del nostro fuoco materiale.
La S. Scrittura parla soprattutto di fuoco ardente e di zolfo, di arsura dilaniante, di pianto spaventevole, di tenebre esteriori, di rimorsi laceranti (per grazie sciupate, per il tempo dedicato a futilità e peccati, per le tante possibi¬lità di bene perdute ecc.: verme che non muore), di odori ributtanti e fetori che emanano come da corpi in putrefazione (geenna). In particolare, Giobbe parla di "luogo tenebroso coperto dalla caligine di morte, di regione di miseria e delle tenebre, dove regna l'ombra di morte, il disordine e l'orrore sempiter¬no" (Giob 10,21.29).
Perché anche una pena del senso oltre quella del danno?
Perché il peccato, oltre ad essere offesa di Dio, è indebito godimento ed esaltazione folle delle creature.
"Ogni peccato, dice S. Agostino, è aversio a Deo et conversio ad crea¬turas", e cioè allontanamento da Dio per andare verso le creature. E perciò il peccato va castigato sia per il colpevole allontanamento da Dio e sia per la disordinata preferenza accordata alle creature anziché a Dio.
Lo stesso pensiero, più o meno, in S. Tommaso che scrive: "La pena è proporzionata al peccato. Nel peccato vi sono due aspetti: la separazione dal Bene increato, che è infinito (per questo il peccato è infinito), e l'adesione a un bene effimero, e pertanto il peccato è finito, sia perché un bene effimero è finito, sia anche perché l'adesione stessa è finita, non potendo gli atti delle creature essere infiniti. In quanto il peccato è separazione da Dio, risponde alla pena del danno, che è pure infinita, esso è infatti la perdita di un bene infinito, Dio; in quanto è una disordinata adesione alle creature, risponde alla pena del senso, che è finita".

c. Pene eterne ed immutabili
Le pene per il dannato sono eterne e senza mai alcuna attenuazione o alleggerimento. Infatti la S. Scrittura parla di "verme che non muore" (Mc 9,42); di 'fuoco inestinguibile" (Ivi); di "fuoco eterno" (Mt 25,41.46).
È impensabile perciò sia la cessazione e sia un'attenuazione delle pene, di cui opinò soprattutto Origene. Egli parla di una apocatastasi, e cioè di una generale restaurazione che vedrebbe rifatti e salvati anche i dannati all'infer¬no e lo stesso Satana.
Ma a tale opinione si oppone la dottrina della Chiesa. Questa non ha mai accettato l'idea dell'apocatastasi, la condannò anzi formalmente nel 543 con papa Vigilio, come pure nel Conc. Costantinopolitano II (553), nel Conc. Costantinopolit. III (680) e nel Concilio II di Nicea (787).
Ma l'opinione di Origene si oppone pure al più elementare buon senso. Buon senso, espresso molto bene, per es., tra gli altri, da S. Epifanio e da S. Girolamo, quanto all'asserita rigenerazione. S. Epifanio, infatti, scrive: "Quanto a quello che egli (= Origene) cerca di sostenere, non so se piangere o ridere. L'insigne maestro osa affermare che il diavolo tornerà ad essere ciò che era stato e che rientrerà nella sua stessa dignità e ascenderà di nuovo al regno dei cieli. Cosa inaudita! Chi è tanto insensato e stolto da ammettere che S. Giovanni Battista, S. Pietro e S. Giovanni Apostolo ed Evangelista, come pure Isaia e Geremia e gli altri profeti, possano essere coeredi col dia¬volo del regno dei cieli?".
S. Girolamo, a sua volta, afferma: "Se tutte le creature ragionevoli sono uguali, e dalle virtù o dai vizi, per propria volontà, sono portate in alto o sprofondate in basso e, dopo un lungo giro e dopo innumerevoli secoli, avverrà la restaurazione di tutte le cose, e uguale sarà il merito dei combat¬tenti; quale differenza vi sarà tra una vergine e una meretrice? Tra la Madre del Signore (il solo affermarlo è delitto) e le prostitute? Saranno eredi dello stesso regno il diavolo e Gabriele, gli Apostoli e i demoni?".
Da rigettare ugualmente l'idea di una mitigazione delle pene infernali. L'opinione molto in voga al tempo di S. Tommaso, è da questi così bollata: "Questa opinione è presuntuosa, perché contraria alle asserzioni dei Santi; è frivola, non fondata su alcuna autorità, ed è irragionevole".
Non resta allora che attenersi fedelmente alle parole della S. Scrittura e all'insegnamento della Chiesa, pur se una "pietà" tutta umana tenda a far buon viso ad opinioni del genere.

Le "visioni" dei Santi
Visioni e apparizioni appartengono ai fenomeni mistici straordinari, di cui parlano innumerevoli mistici e teologi.
Esistono non poche descrizioni dell'inferno fatte da Santi, che lo hanno visto o sperimentato per volere superno.
Prima di presentarne alcune, però, ci sembra opportuno offrire prima delle nozioni sommarie e chiedersi che valore teologico dare a queste "rive¬lazioni", supposto che si siano veramente verificate.


1. Si tratta di rivelazioni private
Da notare prima di tutto che dette visioni o apparizioni sono dette rive¬lazioni private non perché non siano o non debbano essere a vantaggio di tutta la Chiesa, ma nel senso che ad esse, non facendo parte di quelle verità di fede, necessarie per conseguire la salvezza, si potrebbe anche non prestare fede. "E quando la Chiesa le approva, non ci obbliga a crederle, ma solo permette, come dice Benedetto XIV che siano pubblicate ad istruzione ed edificazione dei fedeli; onde l'assenso che vi si deve prestare non è atto di fede cattolica, ma atto di fede umana fondato sull'essere queste rivelazioni probabili e pia¬mente credibili" (Siquidem hisce revelationibus taliter approbatis, licet non debeatur nec possit adhiberi assensus (idei catholicae, debetur tamen assensus (idei humanae, juxta prudentiae regulas, juxta quas nempe tales revelationes sunt probabiles pieque credibiles De servorum Dei beatificatione, 1. 11, c. 32, n. 11).

2. Natura di queste apparizioni o visioni
La visioni "sono percezioni soprannaturali di oggetti naturalmente invisibili all'uomo".
E cioè accade che alcune anime vedano, per un intervento superiore, delle realtà che ordinariamente non sono viste dagli altri uomini: visioni, per es., di Santi, di defunti, di anime del purgatorio o di dannati, ecc.
Le visioni sono di tre specie: sensibili, immaginarie e intellettuali. "Le visioni sensibili o corporali od oculari, che si dicono anche apparizioni, sono quelle in cui i sensi percepiscono una cosa reale naturalmente invisibile all'uomo".
E cioè visioni e apparizioni possono avvenire "per mezzo dei sensi cor¬porali esteriori; per questo, tali visioni si chiamano corporee. Possono succe¬dere in due maniere. L'una è propriamente e veramente corporea, cioè quan¬do con corpo reale e dotato di peso si presenta alla vista o al tatto qualche cosa dell'altra vita, come Dio, un angelo, un Santo, il demonio, un'anima o altro. Si forma a tale scopo, per opera e virtù degli angeli buoni o cattivi, qualche corpo immateriale ed apparente, il quale, benché non sia corpo natu¬rale e vero di colui che rappresenta, è veramente un corpo di aria condensa-ta con le sue dimensioni quantitative".
Un'altra maniera di visione corporea "sono certe immagini di corpo, di colore e simili, che un angelo può causare negli occhi alterando l'aria circo¬stante. Colui che le riceve giudica di vedere qualche corpo reale presente, mentre esso non c'è e ci sono solo immagini con le quali si altera la vista con un inganno ad essa impercettibile.
Questo genere di visioni illusorie non è proprio degli angeli buoni né delle apparizioni divine, anche se è possibile che lo sia e tale poté essere la voce che udì Samuele (Cf 1 Re 3,4). Ordinariamente, però, le simula il demo¬nio per quello che contengono di inganno, specialmente per gli occhi" (448¬449). "Nella Scrittura si trovano molte visioni corporee avute dai Santi e dai Patriarchi. Adamo vide Dio rappresentato dall'angelo (Cf. Gen 3,8), Abramo i tre angeli (Cf.Gen 18,1-2), Mosè il roveto e molte volte il Signore stesso (Cf. Es 3,2). Hanno avuto molte volte visioni corporee ed immaginarie anche dei peccatori, come Caino (cf. Gen 4,9) e Baldassar che vide la mano sul muro (Cf Dan S,5)".
Le visioni invece immaginarie o immaginative "sono quelle prodotte da Dio o dagli angeli nell'immaginazione sia nella veglia sia nel sonno". Visioni immaginarie se ne trovano nella S. Scrittura per es., il Faraone ebbe quella delle vacche (cf. Gen 41,1 ss) e Nabucodonosor quella dell'albe¬ro (Cf Dan 4,1 ss) e della statua (Cf Dan 2,1 ss.), ed altre simili.
A proposito delle visioni puramente spirituali, così si esprime S. Giovanni della Croce: "Parlando... delle visioni che sono puramente spiritua¬li, senza cioè il mezzo e l'opera di alcun senso del corpo, dico che due sorta di visioni possono cadere nell'intelletto: le une sono visioni di sostanze cor¬poree; le altre, di sostanze separate o incorporee. Le prime sono intorno a tutte le cose materiali che esistono in cielo e in terra, e che l'anima può vede¬re anche stando nel corpo, mediante una certa luce soprannaturale derivata da Dio, nella quale può scorgere le cose del cielo e della terra in loro assen¬za, come leggiamo essere avvenuto a S. Giovanni che nell'Apocalisse descri¬ve le bellezze della celeste Gerusalemme che vide in cielo...".
"Ma le altre visioni di sostanze incorporee, vale a dire di angeli e di anime, non si possono vedere neanche mediante quel lume derivato, ma con un altro più alto che si chiama lume di gloria; e perciò queste visioni di sostanze incorporee non sono proprie di questa vita, né si possono vedere in corpo mortale".
Quanto alle visioni intellettuali di sostanze corporee che "spiritualmen¬te si ricevono nell'anima, dico che esse sono a guisa delle visioni corporee; poiché, come gli occhi vedono le cose materiali mediante la luce naturale, così l'anima mediante il lume soprannaturale derivato dall'alto, vede interiormen¬te con l'intelletto queste medesime cose naturali ed altre ancora come a Dio piace; se non che c'è differenza nel modo di percepirle, poiché le spirituali e intellettuali accadono in modo assai più chiaro e sottile che non le corporee.
Quando Dio vuol fare all'anima questa Grazia, le comunica quella luce soprannaturale che abbiamo accennata, in cui con la massima facilità e chia¬rezza vede le cose che Dio vuole, ora del cielo, ora della terra, senza che fac¬cia ostacolo o importi l'assenza o presenza loro. Il che avviene, alle volte, come se si aprisse una risplendentissima porta, per la quale si vedesse una luce a guisa di un lampo che in una notte buia all'improvviso illumina gli oggetti, li fa vedere chiari e distinti, e subito li lascia di nuovo all'oscuro, quantunque le loro forme e figure restino impresse nella fantasia.
Ciò accade nell'anima molto più perfettamente; perché le cose vedute con lo spirito in quella luce le restano impresse in tale maniera che, ogni volta che vi fa avvertenza, torna a vederle in sé come prima; in quella guisa appun¬to che in uno specchio si scorgono le figure che vi sono rappresentate, ogni volta che alcuno torni a mirarvi. Ed è da notarsi che le forme delle cose vedu¬te, giammai si cancellano interamente dall'anima, quantunque con l'andar del tempo si vadano un po' affievolendo".
I mistici ci istruiscono sul modo con cui avvengono le visioni immagi¬narie e corporee: "Si formano per mezzo di immagini sensibili, causate o mosse nell'immaginazione o fantasia, le quali rappresentano gli oggetti in modo materiale e sensitivo, come cosa che si guarda con gli occhi del corpo, si ascolta, si tocca o si gusta. Sotto questa forma di visioni i profeti dell'anti¬co Testamento - particolarmente Ezechiele, Daniele e Geremia - manifestaro¬no grandi misteri che l'Altissimo rivelò loro per mezzo di esse. In simili visio¬ni l'evangelista Giovanni scrisse la sua Apocalisse".
"Ma le altre visioni di sostanze incorporee, vale a dire di angeli e di anime, non si possono vedere neanche mediante quel lume derivato, ma con un altro più alto che si chiama lume di gloria; e perciò queste visioni di sostanze incorporee non sono proprie di questa vita, né si possono vedere in corpo mortale".
Le visioni dell'inferno da parte di Santi o di anime elette sono, senza dubbio visioni sensibili e immaginarie. Essi hanno visto e toccato e sofferto nel corpo e nell'anima.
[Modificato da MARIOCAPALBO 01/02/2015 20:37]

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