. Al primo posto mettete la confessione e poi chiedete una direzione spirituale, se lo ritenete necessario. La realtà dei miei peccati deve venire come prima cosa. Per la maggior parte di noi vi è il pericolo di dimenticare di essere peccatori e che come peccatori dobbiamo andare alla confessione. Dobbiamo sentire il bisogno che il sangue prezioso di Cristo lavi i nostri peccati. Dobbiamo andare davanti a Dio e dirgli che siamo addolorati per tutto quello che abbiamo commesso, che può avergli recato offesa. (Beata Madre Teresa di Calcutta)
 
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San Tommaso d’Aquino

Ultimo Aggiornamento: 31/01/2015 17:34
31/01/2015 17:33

 4. «Onora tuo padre e tua madre, affinché siano prolungati i tuoi giorni sopra la terra che il Signore, tuo Dio, ti dà» (Esodo 20, 12)

 

    La perfezione dell'uomo, dunque, consiste nell'amare Dio e il prossimo. I primi tre comandamenti riguardanti la carità verso Dio erano incisi sulla prima delle tavole di pietra; sulla seconda, i rimanenti sette, relativi alla carità verso se stessi e gli altri uomini.

    Non possiamo limitarci a esprimere solo verbalmente questo nostro amore: come raccomanda l'apostolo Giovanni, dobbiamo manifestarglielo in concreto e con sincerità (cf. I Gv 3,18), evitando di nuocergli e, al contrario, facendo gli tutto il bene possibile. Ecco perché tra i comandamenti ne troveremo alcuni che invitano a ben fare, altri invece che vietano di recar danno al prossimo.

    Si noti però che mentre rientra nei limiti delle nostre capacità il cercar di non ledere il prossimo, mai riusciremmo a beneficiare tutti quanti i bisognosi. Dice in proposito sant'Agostino che tutti devono esser oggetto del nostro amore, ma non siamo tenuti ad aiutare ciascuna persona in particolare.

    La precedenza spetta ai congiunti, poiché «se uno non ha cura dei suoi, e massimamente di quelli della propria famiglia, ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele» (I Tm 5, 8). Primi fra tutti, nostro padre e nostra madre. Scrive Ambrogio che «Dio va amato per il primo, ma subito appresso vengono i genitori». E Aristotele ce ne fornisce la ragione: mai potremo ricambiare interamente la somma di benefici che, in quanto figli, abbiamo ricevuto dai nostri genitori. Offeso gravemente, un padre potrebbe giungere a scacciare suo figlio, mentre costui non potrà fare altrettanto, in nessun caso.

    I genitori danno ai figli tre sorta di beni. L'inizio della terrena esistenza. «Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimenticare le pene sofferte da tua madre. Ricordati che senza di loro mai saresti venuto al mondo» (Sir 7, 27-28). Il nutrimento e tutto il resto che è necessario per vivere; un figlio nasce nudo, e riceve dai genitori riparo e vesti. Essi, infine, provvedono alla sua educazione. «Per precettori abbiamo avuto i nostri parenti carnali» (Eb 12, 9). «Hai dei figli? Allevali bene» (Sir 7, 23).

    Due sono gli insegnamenti di base che occorre dare ai figli il più presto che si può, considerando che «abituato il fanciullo a una buona condotta, egli non l'abbandonerà nemmeno quando comincerà a invecchiare» (Prv 22, 6). È un bene che l'uomo si avvezzi al giogo [della disciplina] fin da piccolo (cf. Lam 3, 27).

    Queste due raccomandazioni fondamentali son le medesime che Tobia dava al proprio figliolo: il timor di Dio e la fuga da ogni specie di ingiustizia (cf. Tb 4, 6). Una simile impostazione esemplare condanna quei genitori che, all'opposto, godono delle malefatte dei propri figli. [Dal canto loro] «i figli nati da unioni illegittime, nel giorno del giudizio attesteranno l'immoralità dei genitori» (Sap 4, 6), e talvolta Dio punisce il peccato dei genitori nella loro prole (177).

    E allora evidente che, ricevendo la vita, il nutrimento e l'educazione, noi dobbiamo avere nei loro riguardi un rispetto maggiore di quello che si ha verso gli altri superiori da cui otteniamo determinati beni temporali. Dopo Dio, che ci ha dato l'anima, vengono i genitori. «Chi teme il Signore, onora suo padre, e serve i propri genitori come suoi signori: essi lo hanno generato, ed egli [li ricambia] coi fatti e le parole, con grande condiscendenza. Figlio mio, onora tuo padre... affinché riposi su di te la sua benedizione» (Sir 3, 8-10).

    Così facendo, tu onori te stesso. Difatti, come afferma la Scrittura, «la gloria di un uomo sta nell'onore di suo padre, mentre fa vergogna a un figlio un padre disonorato» (Sir 3, 13).

    Essi provvidero alle nostre necessità per tutto il tempo della fanciullezza; quindi dobbiamo pensare a essi, al sopraggiungere della tarda età. «Figlio, soccorri tuo padre nella sua vecchiaia e non lo contristare durante la sua vita. Anche se gli vien meno la mente, abbine compassione: non disprezzarlo vantandoti del tuo vigore» (Sir 3, 14-15). «Quanto spregevole è chi trascura suo padre! e chi disgusta sua madre è maledetto da Dio» (Sir 3, 18).

    Cassiodoro, per umiliare certi figli snaturati, narra che le giovani cicogne usano ricoprire con le proprie penne i genitori che, a causa dell'età, le hanno perdute, e li nutrono dividendo con loro il cibo, non essendo quelli più in grado di procurarselo. Una commovente delicatezza, questo restituire quanto si ricevette in dono nei primi anni della vita!

    Essi ci hanno dato un'educazione, e dobbiamo ubbidire. «Figlioli, siate ubbidienti in tutto ai genitori» (Col 3, 20): in tutto, tranne ovviamente in ciò che fosse peccato. In tal caso la sola, vera pietà [filiale] sarà il mostrarsi irremovibili, come san Girolamo consiglia a Eliodoro. Del resto, conosciamo tutti le parole di Gesù: «Se uno non ama meno di me il padre e la madre, non è degno di me» (Lc 14, 26). Dio infatti è il nostro padre più vero: forse non è lui «che t'ha procreato, colui che t'ha fatto e per cui tu sussisti?» (Dt 32, 6).

    «Onora tuo padre e tua madre». Solo a questo comandamento fa seguito una postilla: «affinché ti siano prolungati i giorni sopra la terra», onde cioè rassicurarci che sebbene si tratti di precetto conforme a natura, gli è stato annesso un premio da parte di Dio.

    Ben cinque [anzi] sono i beni destinati a quanti tengono nel dovuto ossequio i propri genitori.

 

    I. La grazia, attualmente, e in futuro l'eterna gloria: due cose desiderate in sommo grado. La benedizione paterna accompagnerà il figlio rispettoso sino alla fine (cf. Sir 3, 9-10), mentre assai diversa è la sorte di chi oserà insultare i genitori: sono maledetti, tali figli, perfino della legge, come si può vedere nelle pagine del Deuteronomio (cf. Dt 27, 16).

    L'evangelista Luca ci ricorda che «chi è ingiusto nelle piccole cose, è ingiusto anche nelle grandi» (Lc 16, 10); orbene, la vita fisica è quasi un nulla a paragone della vita di grazia. Perciò, se ti mostri ingrato riguardo al beneficio primario che ricevesti dai tuoi genitori, ti rendi indegno di esser ammesso alla vita soprannaturale della grazia (maggiore della precedente), e assai più indegno della vita eterna di gloria, massimamente desiderabile.

    2. Altra cosa che gli uomini bramano è la longevità. La Scrittura promette una vita più lunga a chi onora i genitori (cf. Sir 3, 7). Fa attenzione però che una vita è veramente lunga quando è piena di [autentici] beni. Essa non si misura, infatti, in base alla durata temporale bensì all'attività, come insegna il filosofo (Aristotele). Un'esistenza ricca di opere virtuose. Quindi può dirsi con verità che l'uomo onesto, e [tanto più] il santo, ha vissuto a lungo anche se morisse giovane. È per lui l'elogio della Sapienza: «Divenuto perfetto in breve tempo, compì le opere di una lunga vita. La sua anima era gradita a Dio» (Sap 4, 13-14).

    Fa degli ottimi affari quel tale che in una giornata riesca a combinare quanto ad altri riesce di concludere nell'arco di un anno intero. E non dimentichiamo neppure che, alle volte, un protrarsi dell'esistenza terrena può condurre a una [triste] morte e fisica e spirituale, vedi il caso di Giuda.

    Chi tribola i genitori raccoglie frutti mortiferi. Dai nostri genitori ricevemmo la vita, come gli uomini d'arme hanno in custodia dal re un feudo. E se è giusto che, in pena del loro tradimento, i feudatari perdano la signoria di cui godevano, così non sono degni di vivere quei figli che sono ingiusti verso chi li mise al mondo. «L'occhio che schernisce il padre e disprezza l'età della madre, sia cavato dai corvi della valle e lo divorino i figli dell'aquila» (Prv 30, 17). (Le giovani aquile possono raffigurare i re e i principi, i corvi gli ufficiali subalterni).

    Se non sempre la morte precoce viene a punire i figli ingrati, non per questo potranno sperare d'essere sfuggiti alla morte spirituale.

    Dal canto suo, un padre non deve eccedere nel lasciare ai figli troppa libertà; non dovrà mai rinunziare interamente all'autorità paterna (cf. Sir 33, 21; 20).

 

    3. Chi ha saputo onorare i propri genitori, avrà in sorte a sua volta figli riconoscenti e amabili. E nell'ordine delle cose che un padre accumuli beni per i figli. Non altrettanto sicura è la gratitudine da parte di questi ultimi. Però «chi avrà rispettato suo padre, sarà allietato dai figli» (Sir 3, 6). Anche qui può ripetersi: «Nella misura in cui avrete misurato, sarà misurato a voi» (Mt 7, 2).

 

    4. Ne deriva una buona fama. «La gloria di un uomo sta nell'onore di suo padre» (Sir 3, 13) e, al contrario, «quanto è spregevole colui che non si cura [delle necessità] di suo padre» (Sir 3, 18)!

 

    5. Forse verranno anche le ricchezze. «La benedizione del padre consolida le famiglie nate dalla sua prole; la maledizione della madre ne sradica le fondamenta» (Sir 3, 11).

    «Onora tuo padre e tua madre», dunque. Si noti però che il rispetto è dovuto non solo a coloro che ci hanno fisicamente generato, bensì a chiunque possa dirsi nostro padre o nostra madre per altri titoli. Anch'essi meritano l'ossequio da parte nostra.

     Chiamiamo infatti padri gli apostoli e altri santi che hanno alimentato la nostra fede con la dottrina e l'esempio. «Quand'anche aveste migliaia di maestri in Cristo, non avreste tuttavia molti padri. Difatti io vi ho generati in Cristo Gesù per mezzo del vangelo» (1 Cor 4, 15). Anche altrove la Scrittura ci invita a tessere l'elogio degli uomini pii, che hanno contribuito ad alimentare in noi l'amore per la vita integra (cf. Sir 44, 1). Ma che sia una lode fatta non semplicemente di belle parole. Imitiamoli, con la maggiore fedeltà possibile. «Ricordatevi dei vostri capi spirituali, che vi predicarono la parola di Dio: e considerando quale fu il termine della loro vita, imitatene la fede» (178).

     Chiamiamo giustamente padri anche i nostri superiori. Dobbiamo venerarli in quanto ministri di Dio. Ha detto Gesù, rivolto a essi: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi vi disprezza, è me che disprezza» (Lc 10, 16). Venerarli mediante l'ubbidienza. «Ubbidite a coloro che vi guidano e siate disciplinati, perché essi vegliano sulle vostre anime e dovranno renderne conto» (Eb 13, 17). È giusto, inoltre, contribuire al loro sostentamento.

     Sotto un analogo profilo vanno considerati anche i nostri governanti. Ad esempio, i servi si rivolsero a Naam, capo dell'esercito del re dell'Aram, con l'appellativo di «Padre» (2 Re 5, 13), e ciò in quanto [i sovrani e i loro ministri] hanno il compito di promuovere il bene dei sudditi. Comportiamoci, a nostra volta, da sudditi leali. Insegna l'apostolo Paolo: «Ognuno sia soggetto alle autorità superiori poiché non c'è autorità che non venga da Dio. Chi si oppone all'autorità, resiste all'ordine stabilito da Dio» (Rm 13, 2). E non già in quanto mossi dal timore, non per la sola paura del castigo, ma spinti dall'amore [almeno del bene comune], secondo una retta coscienza. Il motivo lo si è visto, poiché come ha detto l'Apostolo, il potere trova in Dio la sua origine; quindi è un debito da soddisfare, in diversi modi: «A chi è dovuta l'imposta [sia versata] l'imposta; a chi la gabella, la gabella. A chi [spetta] la riverenza, la riverenza; a chi l'onore, l'onore» (179). «Figlio mio, temi il Signore e il re» (Prv 24, 21).

   Hanno diritto a una particolare benevolenza, i benefattori. Essi ascoltarono l'invito del Signore (cf. Sir 4, 10), aiutando ci come fa un padre, perciò noi siamo tenuti a ricambiare. «Non dimenticare - ad esempio - la bontà di chi ti è stato garante: egli ha esposto la sua vita per te» (Sir 29, 20). Agli ingrati potranno applicarsi le parole della Sapienza: «La speranza dell'ingrato svanirà [quando egli tornerà a trovarsi nel bisogno] come brina invernale e si disperderà come inutile acqua che passa» (Sap 16, 29).

    C'è infine una paternità che deriva dalla canizie. Gli anziani contribuiscono al tuo sapere, insieme ai genitori (cf. Dt 32, 7). «Alzati in piedi davanti a chi ha già i capelli bianchi; onora i vecchi» (Lv 19, 32). «In mezzo ai grandi non ritenerti pari e quando uno [di essi] parla non prender tu la parola» (180); e ancora: «Ascolta in silenzio: in cambio del rispetto che dimostri, sarai ben voluto» (Sir 32, 9).

    Tutti costoro, dunque, devono esser trattati con particolare onore: hanno in sé un qualche riflesso del Padre che sta nei cieli. Avendo in mente anche loro, Gesù ha detto: «Chi disprezza voi, disprezza me» (Lc 10, 16).

 

5. «Non uccidere» (Esodo 20, 13)

 

    Tra i diversi mali da cui la legge divina intende tenerci lontani, il massimo che possiamo recare al prossimo è quello di privarlo della vita. Ciò è espressamente proibito dal quinto comandamento.

    Vi sono state in proposito tre erronee interpretazioni.

    Taluni sostennero che non sia lecito uccidere neppure le bestie. Ma è falso, dato che non vi può essere alcun male nel [retto] uso delle creature che sono soggette al dominio dell'uomo. Rientra nel disegno naturale che le piante siano alimento per gli animali, come taluni di questi serviranno a nutrire gli altri, e tutto ciò che è commestibile è ordinato al sostentamento del genere umano. «Tutto ciò che si muove e che ha vita vi servirà da cibo: io vi do tutto questo, come vi detti l'erba verde» (Gn 9, 3). Anche Aristotele insegna, nel suo trattato di Politica, che la caccia va considerata alla stregua d'una giusta guerra.

    Anche san Paolo ci rassicura: «Mangiate di tutto quello che si vende al mercato, senza preoccuparvi di niente per scrupolo di coscienza, perché 'del Signore è la terra con tutto quello che essa contiene'» (I Cor 10, 25; cf. Sal 23, 1). Quindi il «non uccidere» equivale a non uccidere l'uomo.

     Altri hanno creduto di vedere nel precetto in questione il divieto assoluto di qualsiasi condanna a morte. Sarebbero degli omicidi, secondo costoro, gli stessi giudici secolari che comminassero, a norma di legge, la pena capitale. Li contraddice però Agostino, facendo notare come Dio non può perdere, a motivo del quinto comandamento, i suoi diritti sopra la vita umana. «Son io che posso far morire, e sempre io l'unico capace di ridar la vita» (Dt 32, 39). Di conseguenza è lecito anche a coloro che, per mandato divino, esercitano la giustizia. Agiscono in rappresentanza di Dio, dato che ogni [giusta] legge promana da lui: «È nel mio nome che regnano i re, e i magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15). Così ragiona l'Apostolo: «Vuoi non aver paura dell'autorità? Comportati bene e riceverai la sua approvazione. Se invece agisci male, temi; non per nulla porta la spada; essendo ministra di Dio, deve punire chi opera il male» (Rm 13, 3-4.). Anche a Mosè fu raccomandato [per il bene del popolo eletto]: «Non permettere che viva chi si è rivelato nocivo» (181). Facoltà analoga appartiene ai rappresentanti di Dio, che ne ricevano da lui il mandato. In altri termini, se Dio, autore della legge, non infrange la medesima infliggendo la pena di morte prevista per determinati peccati (182), non pecca chi ne esegue il volere. Senso autentico del precetto è dunque: «Non uccidere (di tua iniziativa)».

     Nel comandamento «non uccidere» altri vollero vederci la proibizione di attentare alla vita altrui: il suicidio così risulterebbe lecito. Citavano il caso di Sansone (cf. Gdc, 16, 28-30), di Catone (183), e di un certo numero di vergini [cristiane] che, come racconta Agostino nel De civitate Dei, si gettarono tra le fiamme [per sfuggire agli aggressori]. Ma è lo stesso dottore della Chiesa che formula un giudizio negativo: «Chi si uccide, uccide una persona umana». Ora, se non è lecito privare alcuno della vita, tranne che per comando divino, neppure può esser consentita l'uccisione di se stessi; a meno che non sia ancora Dio a ordinarlo o [lo consenta] mediante un impulso dello Spirito, come si crede avvenisse a Sansone. Diversamente: non uccidere e non ucciderti.

     Un uomo può divenire omicida in diversi modi. Fisicamente, macchiandosi le mani di sangue (cf. Is I, 15), il che non solo va contro il dovere di amare il prossimo come amiamo noi stessi (e un omicida si priva della grazia che è seme di vita eterna (cf. I Gv 3, 15), ma va contro l'istinto naturale. Difatti «ogni essere vivente è attratto da quelli della sua specie» (Sir 13, 19). Per questo, Dio prescrisse a Mosè di mettere a morte chi avesse percosso un altro, da farlo morire (cf. Es 21,12). L'assassino è più crudele del lupo, del quale si legge che rifiuta di cibarsi della carne di un suo simile (184).

     Anche con la bocca si può dare la morte, ad es. istigando qualcun altro a commettere omicidio, oppure ricorrendo alla provocazione, accusando [ingiustamente] o calunniando. È proprio vero che [spesso] «gli uomini hanno lance e saette al posto di denti, e per lingua una spada acuta» (Sal 56, 5).

    Dando manforte a chi non esita a versare il sangue. Ed equivale a condividere la responsabilità nel crimine (cf. Prv 1, 15) il frequentare uomini malvagi.

    Lo stesso si dica di chi approva l'operato di un [ingiusto] uccisore. «Chi fa cose inique - e fra le altre iniquità c'è l'omicidio - è degno di morte; e non solo chi le fa, ma anche chi le approva» (Rm 1, 32). E bada che tu dai il consenso quando, potendo intervenire, non fai nulla per sventare un delitto. «Libera chi [innocente] è condotto a morte» (Prv 24, 11). Casi analoghi: se ne hai i mezzi ma, per negligenza o avarizia, neghi il tuo soccorso a chi sta nel bisogno. «Dai da mangiare, scrive sant'Ambrogio, a chi muore di fame: se ti rifiuti, hai finito d'ucciderlo ».

    Abbiamo parlato di chi uccide una persona fisicamente. C'è anche chi spegne nell'anima la vita della grazia, col trascinarla nel peccato mortale. Satana «fu omicida dal primo momento» (Gv 8, 44), sospingendo l'uomo appunto verso la colpa grave. C'è pure chi nel medesimo tempo, uccidendo una donna incinta, danneggia il bimbo quanto alla vita fisica, e quanto ai diritti della sua anima (185). Uguale danno fa a se stesso il suicida.

    «Non uccidere». Nel vangelo secondo Matteo, Cristo ci ha lasciato questo ammaestramento: che la nostra giustizia dev'essere superiore a quella ispirata dall'antica legge (cf. Mt 5, 21-22). I cristiani cioè devono osservare con impegno maggiore i precetti evangelici, di quanto i giudei non praticassero le prescrizioni legali. Una fatica più grande meriterà migliore ricompensa, poiché «chi semina poco mieterà poco, mentre chi semina molto, mieterà anche molto» (2 Cor 9, 6). Nella legge [mosaica] erano promesse ricompense temporali e terrene: «Se sarete docili e ubbidirete, avrete in premio i beni del paese» (Is 1, 19); invece nella legge evangelica vengono assicurati beni celesti ed eterni. Quindi la giustizia di un uomo, consistente nell'osservanza della divina volontà, dev'essere più perfetta, in proporzione dei beni superiori [che vi sono connessi].

    Un precetto del vangelo qui viene esaminato a parte. «Voi avete udito che fu detto agli antichi: 'Non uccidere; e chiunque avrà ucciso sarà condannato in giudizio'; ma io vi dico che sarà condannato in giudizio chiunque va in collera con suo fratello» (Mt 5, 21-22), ossia dovrà subire la pena stabilita dalla legge. «Se - ad esempio - uno trama contro il suo prossimo per ucciderlo con inganno, anche dal mio altare lo strapperai a forza, per farlo morire» (186).

    Ognuno di noi deve guardarsi dall'ira, con molta attenzione.

 

    1. Non lasciamoci, innanzi tutto, trasportare troppo facilmente dalla collera. «Ognuno sia pronto ad ascoltare, ma lento a parlare e cauto nell'abbandonarsi all'ira, poiché l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 19). È un peccato, l'ira, e Dio la punisce.

    A questo punto si impone un problema: qualunque specie d'ira è contraria alla virtù? Gli stoici sostennero che nessuna passione può giungere a dominare il savio, e affermavano anzi che la vera virtù consiste nella imperturbabilità dello spirito. I seguaci di Aristotele (187) invece ritenevano che il sapiente potesse adirarsi, purché in misura contenuta. Tra le due, quest'ultima è l'opinione più prossima al vero.

    Il vangelo infatti ci documenta la presenza di codesto e altri simili moti nell'animo del Cristo (188), in cui allo stato sorgivo si trovava la perfetta sapienza.

    Del resto la stessa ragione ci dice che se tutte le passioni (189) fossero di per sé incompatibili con la virtù, alcune facoltà dell'anima risulterebbero inutili; la loro presenza nell'uomo sarebbe addirittura nociva, non potendosi esprimere sempre in maniera opportuna. Gli appetiti (190) irascibile e concupiscibile avrebbero solo l'apparenza dell'utile.

    Dobbiamo concluderne piuttosto che vi è una sorta d'ira che si può e si deve condannare, e una virtuosa indignazione.

    Vi può essere ira semplicemente a livello del giudizio, senza ripercussioni sensitive: e questa, più che ira vera e propria, è riprovazione critica. Così, diciamo che il Signore si adira nel castigare i cattivi. «Sopporterò le conseguenze dell'ira del Signore, poiché l'ho offeso» (Mic 7, 9).

    Una forma d'ira più strettamente effetto di passione scaturisce dall'appetito sensitivo (191). Essa è, a volte, controllata dalla riflessione come nel caso di uno che si adira nel momento opportuno, in una misura adeguata alle concrete circostanze e per un ragionevole motivo. Si tratta allora di un atto virtuoso, ed equivale allo zelo (192). Il filosofo (Aristotele) scrive infatti che la mansuetudine non è [tanto] l'astensione dall'ira [quanto piuttosto la capacità di temperare i propri interventi] (193).

    Infine c'è una irascibilità che sfugge al dominio della ragione ed è sempre peccato, veniale o mortale, secondo i casi, in rapporto con il movente.

    Può essere peccato grave sia in se stessa, sia per gli elementi che l'accompagnano. L'omicidio è grave di sua natura, in quanto vìola direttamente (194) un comandamento di Dio. Può darsi che talvolta, a un moto che di per sé costituirebbe trasgressione grave della legge, non segua il consenso (metti il caso di un impulso sensuale inducente alla fornicazione, cui però non si aderisca): non vi è gravità di peccato.

    Un ragionamento del genere vale per l'ira che, dovendola definire, è un moto dell'animo teso a vendicare un'offesa subìta. Questa è, sostanzialmente, l'ira. Orbene, se tale impulso è tanto violento da travolgere al tutto la ragione, si avrà peccato mortale; mancando invece il deliberato consenso, la mancanza è leggera. Tanto più se poi la reazione non è neppure esagerata: il consenso non ne aggraverebbe la valutazione morale.

    Le parole: «Chiunque va in collera col suo fratello sarà condannato in giudizio» (Mt 5, 22) vanno intese come riprovazione del proposito di danneggiare qualcuno in grave misura. Potrebbe essere, se c'è consenso, colpa grave. Dio saprà giudicare ogni nostra azione, egli che «chiamerà in giudizio a rispondere su tutto ciò che è occulto, bene o male che sia» (Qo, 12, 14).

    Oltre a ciò, non dobbiamo adirarci con leggerezza considerando il desiderio che ciascuno di noi nutre per la libertà e quindi la ripugnanza a divenire schiavi. Ebbene, un uomo in preda all'ira non è certo padrone di sé. «Il furore è capace di crudeltà e la collera è impetuosa» (Prv 27, 4); o, ancora: «Son pesanti le pietre e la sabbia, ma la furia dello stolto è più insopportabile dell'una e dell'altre» (Prv 27, 3).

 

    2. L'ira va controllata anche per evitare di subire troppo a lungo la sua influenza. «Se vi adirate, non lasciate che l'ira stessa vi trasporti al peccato» (Sal 4, 5). Perciò «non tramonti il sole sul vostro risentimento» (Ef 4, 26). Nel Vangelo, Gesù medesimo ci spiega il perché ci convenga tentare la riconciliazione con il nostro avversario, finché siamo a tempo (cf. Mt 5, 25).

 

    3. Tutt'altro che trascurabile il rischio di scendere a vie di fatto. L'ira comincia con invadere il cuore, fino a mutarsi in odio. Da reazione istintiva, essa si trasforma in uno stato di persistente malanimo. L'apostolo Giovanni ci avverte: «Colui che odia il proprio fratello è un [potenziale] omicida» (I Gv 3, 15); anzi equivale in qualche modo a un dare la morte anche a se stesso, privando l'anima della vita di grazia. Sant'Agostino, nella sua regola cenobitica, ha scritto in proposito: «Fate in modo di non aver mai liti tra voi, o almeno finitele al più presto, perché l'ira non abbia a crescere sino a trasformarsi in odio e, facendo una trave da un semplice fuscello, renda l'anima omicida» (195). E Giacobbe, chiamati i figlioli attorno al giaciglio, maledisse la violenza di Simeone e di Levi, la loro vendetta crudele (cf. Gn 49, 7).

 

    4. Da un risentimento covato nell'intimo possono venire le offese verbali. «Lo stolto manifesta subito la sua collera» (Prv 12, 16), mediante parole ingiuriose o un contegno altezzoso.

    Riguardo a chi insulta il suo prossimo, Gesù ha emesso una severa sentenza: «Chi avrà detto al suo fratello 'racha', sarà condannato nel sinedrio; e chi gli avrà detto 'pazzo', sarà condannato al fuoco della Geenna» (196). Invece «una risposta dolce placa l'ira, proprio come una parola pungente eccita la collera» (Prv 15, 1).

 

    5. Più che mai l'ira va tenuta sotto controllo affinché non ci spinga a forme di rappresaglia fisica. Sempre bisogna stare attenti che nel nostro agire sia salva la giustizia e la misericordia. La collera tende a impedire l'esercizio di entrambe le virtù. Infatti, come insegna san Giacomo, «l'uomo adirato non compie ciò che è giusto dinanzi a Dio» (Gc 1, 20); se anche volessimo, non potremmo giudicare equamente. Rispose bene perciò un certo filosofo al suo offensore: «Ti punirei, se non mi trovassi in preda all'ira». E anche la misericordia è inattuabile finché si è in collera (cf. Prv 27, 4). Non pochi uomini giunsero a divenire omicidi, spinti dal furore (cf. Gn 49, 6).

    Ecco le ragioni per cui Cristo ci insegna ad astenerci non soltanto dall'omicidio, ma dalla stessa ira [che può provocarlo]. Il bravo medico non si limita a estirpare quei mali che vede a fior di pelle, bensì li rimuove dalla radice, onde evitare una ricaduta. In altri termini, il Signore vuole che ci asteniamo da ciò che è incentivo di [sempre più grave] peccato. Dall'ira, quindi, che è il fomite dell'omicidio.

 

6. «Non commettere adulterio» (Esodo 20, 14)

 

    Dopo quella di uccidere, segue la proibizione di adulterare l'unione matrimoniale; ed è logico, dal momento che con le nozze l'uomo e la donna diventano quasi un'unica persona: «Saranno, dice il Signore, una sola carne» (Gn 2, 24). Perciò, dopo l'ingiuria [omicida, o comunque lesiva] contro un individuo non ve n'è altra più atroce di quella che offende la persona che maggiormente gli è congiunta.

    L'adulterio è vietato tanto alla donna, quanto all'uomo. Vediamo prima però la trasgressione da parte della donna, dato che in lei sembra assumere una particolare gravità.

 

    I. Con una relazione extraconiugale, la donna commette tre gravi peccati, come si può rilevare da una pagina del Siracide: «La donna che lascia il marito... prima ha disubbidito alla legge dell'Altissimo, poi ha mancato contro il suo sposo, infine s'è macchiata d'adulterio e [forse] ha avuto prole da un uomo non suo» (Sir 23, 32-34).

    Essa pecca quindi da incredula, nel senso che non ha voluto adeguarsi alla legge di Dio emanata espressamente contro l'adulterio. «Non divida, la creatura, quello che Dio ha congiunto» (Mt 19, 6).

    Trasgredisce all'impegno solenne, da lei concluso di fronte alla Chiesa e per il quale venne invocato Dio quale testimone e garante del vincolo di fedeltà. Facile applicare al caso ciò che segue: «Il Signore è testimone tra te e la donna della tua giovinezza, verso la quale ora ti mostri infedele; eppure ella era la tua compagna e la donna nei confronti della quale ti sei impegnato» (Mt 2, 14).

    Pecca di tradimento, voltando le spalle all'uomo [cui è legata da un sacro rapporto d'amicizia]. Se la donna maritata non si appartiene più ma è del marito (e similmente l'uomo ammogliato divide con la sposa la potestà su se stesso) tanto che san Paolo fa notare come la pratica della astinenza coniugale da parte di uno di essi richieda il consenso dell'altro (cf. 1 Cor 7, 4), per questo la donna adultera non è leale: si consegna illecitamente a un altro, simile a chi muta proprietario di sua iniziativa. «Essa ha abbandonato il marito avuto nella giovinezza, dimenticando il patto giurato al proprio Dio» (Prv 2, 17).

    Pecca infine commettendo un furto, nel caso avesse figli dall'unione illegittima: un furto non certo lieve perché sottrae l'asse ereditario alla legittima prole. In un caso del genere, la donna dovrebbe cercare di affidare a un convento o a un monastero i figli naturali (o sistemarli in qualche altra maniera adatta) (197) sì da escludere una loro compartecipazione alla successione nei beni ereditari.

    Macchiandosi d'adulterio perciò una donna agisce da sacrilega, ed è rea di tradimento e ladra.

 

    2. Quantunque spesso ci si illuda del contrario, i mariti adulteri peccano non meno che le precedenti.

    Infatti, sulla base della Scrittura sopra citata («Neppure lo sposo è padrone assoluto del proprio corpo» (1 Cor 7, 4)) i coniugi si trovano su un piano di parità giuridica: né l'uno, né l'altra può gestire l'uso del matrimonio prescindendo dal consenso della controparte. Per farcelo meglio comprendere, Dio non trasse la donna da un piede o, che so io, dalla testa di Adamo, bensì dal suo fianco (198). Ma solo con l'avvento del Cristo il matrimonio acquistò la pienezza dei valori; fino a quel momento un giudeo poteva prendersi diverse mogli, mentre la donna non godeva di analogo privilegio. Era tollerata perciò una disparità di trattamento.

    L'uomo dovrebbe riuscire più agevolmente a controllarsi, se si considera la tipica passionalità femminile. San Pietro ricorda ai mariti il dovere di trattare con comprensione la sposa, «sapendo che la donna è un essere più debole» (1 Pt 3, 7).

    Quindi, se pretendi dalla tua sposa una fedeltà che tu però non intendi osservare, vai contro l'impegno [che pure ti sei assunto].

    Eppoi, godendo di una maggiore autorità (lui che è una guida per sua moglie, che da lui prenderà chiarimenti in materia di fede) (cf. 1 Cor 14, 34-35), l'uomo deve proporsi a modello. Anche per questo, Dio affidò a un uomo - Mosè - il precetto di cui parliamo.

    Un sacerdote che venga meno al dovere specifico di istruire pecca più che un semplice laico, e il vescovo più del sacerdote. Analogamente, nel compiere l’adulterio pecca [più gravemente] l'uomo, in quanto egli viene a mancare alla parola data e al dovere del buon esempio.

    Dal canto loro le mogli tengano a mente la raccomandazione di Cristo: «Osservate e fate tutto ciò che [di bene] essi vi dicono: ma non agite secondo le opere loro» (Mt 23, 3).

    «Non commettere adulterio». La proibizione, si è detto, riguarda tanto l'uomo, quanto la donna. Ora bisogna aggiungere l'opinione di certuni che, pur dicendo si convinti che l'adulterio costituisca un [grave] peccato, non credono che lo sia anche la fornicazione. Ma li confuta apertamente san Paolo: «Dio giudicherà i fornicatori e gli adulteri» (Eb 13, 4). «Non sapete che gli ingiusti non possiederanno il regno di Dio? Attenti a non illudervi: né fornicatori, né adulteri... saranno eredi del regno di Dio» (1 Cor 6, 9). Dato che nessuno viene escluso dal regno dei cieli, tranne che a causa di gravi violazioni della legge divina, evidentemente anche la fornicazione è da considerarsi tale.

    Magari però tu vuoi dire che di gravità non può parlarsi, come nel caso dell'adulterio, poiché fornicando non si svilisce [necessariamente] il corpo di una donna coniugata. Allora ti rispondo che l'oltraggio riguarda, qui, un corpo ancora più nobile: il corpo [mistico] di Cristo, del quale fai parte tu e il tuo prossimo, o i vostri stessi corpi che furono consacrati dal battesimo. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo? - ci domanda l'apostolo Paolo; e prosegue: «E io potrei prendere le membra di Cristo per farne membra d'una meretrice? Non sia mai!» (I Cor 6, 15). Quindi sbaglia chi dice che la fornicazione non è peccato mortale.

    Ne concludiamo [anzi] che il sesto comandamento intende proibire non solo l'adulterio [e la fornicazione], ma qualunque dissolutezza carnale, fuori dell'unione matrimoniale.

    Altro errore è quello di quanti affermano che i rapporti coniugali non siano mai esenti da colpa. Diversamente Paolo non direbbe: «Il matrimonio sia da tutti tenuto in onore» (Eb 13, 4). L'unione tra gli sposi dunque non soltanto non costituisce in se stessa alcuna violazione morale, ma è altresì meritoria ogni volta che gli sposi si trovino in stato di grazia. Talvolta le loro dimostrazioni d'affetto potranno comportare delle venialità, e qualche altra volta raggiungere la colpa grave (199).

    Se il reciproco effondersi nell'amore si accompagna all'intento di procreare, i coniugi agiscono virtuosamente, ed è atto di giustizia rendere il debito coniugale; allorché, invece, pur non eccedendo i limiti propri del matrimonio, si abbia di mira unicamente la soddisfazione della sensualità, avremo anche un peccato veniale. Superati invece i suddetti limiti (magari sul piano della semplice fantasia), la colpa è grave.

    È bene inoltre conoscere i vari motivi in base ai quali sono vietati l'adulterio e la fornicazione.

 

    1. La vita spirituale ne riceve una ferita profonda. «L'adultero - infatti - è corto di senno: solo chi vuole rovinarsi agisce come lui» (Prv 6, 32). L'espressione della Volgata propter cordis inopiam sottolinea bene l'inaridimento della sensibilità di spirito, nell'uomo carnale.

 

    2. Mette a rischio la stessa vita fisica, poiché stando alla legislazione mosaica, gli adulteri erano passibili della pena capitale (cf. Lv 20,10-12; cf. Dt 22, 22). E anche se attualmente un tale rischio non esiste, la cosa si risolve sempre a danno del colpevole: se infatti il massimo castigo veniva accettato con rassegnazione, otteneva al reo il perdono della colpa; invece, restando qui impunita, essa dovrà essere espiata nella vita ultraterrena.

 

    3. Questo genere di peccati, conduce allo sperpero delle proprie sostanze: l'esempio più convincente l'abbiamo nel figliol prodigo, il quale «scialacquò tutto il suo patrimonio con una vita dissoluta» (Lc 15, 11-13). Anche il Siracide avverte: «Non abbandonarti nelle mani di una cortigiana, se non vuoi rovinare te stesso e le tue fortune» (Sir 9, 6).

 

    4. Umilia i figli nati da una illecita unione. «I figli degli adulteri non giungeranno a maturità e sparirà il seme di un letto illegittimo; eppoi, anche se vivessero a lungo, non godranno di nessuna stima, e la loro vecchiaia sarà senza onore» (Sap 3, 16-17). Anche tra le fila del clero questi sfortunati non troveranno posto, finché sia possibile reclutare chierici privi di demerito (200).

 

    5. La persona coinvolta nell'adulterio, e specialmente la donna, ne esce degradata. «La donna adultera sarà considerata come un rifiuto che si calpesta per la strada» (Sir 9, 10), mentre di un uomo che sia incorso nel medesimo fallo leggiamo nella Scrittura: «[L'adultero] non raccoglierà che battiture e infamia; la sua vergogna non sarà dimenticata» (Prv 6, 33). E san Gregorio [Magno] pone infine in rilievo come, pur costituendo un crimine minore rispetto ai peccati in cui prevale la perversione dell'intelligenza, tuttavia i peccati della carne rivestono un aspetto di particolare ignominia; e la ragione è semplice: essi avviliscono l'uomo al livello della bestia. L'uomo cioè, non avendo compreso a quale onore Dio l'abbia innalzato, si è abbrutito, simile nel modo di vivere agli animali inferiori (cf. Sal 48, 21).

 

7. «Non rubare» (Esodo 20, 15)

 

    Con la sua legge, Dio proibisce ripetutamente il danneggiamento del prossimo: nella persona («non uccidere»), nel congiunto cui è legato da un sacro vincolo («non commettere adulterio») e, come stiamo vedendo, nei beni esteriori («non rubare»).

    Il divieto si estende a qualunque sottrazione indebita, sotto qualsiasi forma.

 

    I. Costante del furto è che lo si effettua [generalmente] di nascosto; nessuno si lascerebbe vuotare la casa, se potesse indovinare in quale momento il ladro passerà all'azione (cf. Mt 24, 43). Un modo d'agire esecrabile, il suo, che lo accomuna al tradimento; e [quando egli viene scoperto] sarà additato al pubblico disprezzo (cf. Sir 5, 17).

    2. C'è però chi ruba con aperta violenza (201), e ovviamente accresce la gravità del fatto. Principi e re sono [spesso] classificabili entro questa categoria, e il profeta Sofonia adopera parole sferzanti: «Le autorità [di Gerusalemme] sono in mezzo a lei come leoni ruggenti; i suoi giudici son come lupi della sera, che non lascian niente per il mattino» (Sof 3, 3).

    Essi agiscono contro i disegni del Signore, che vuol trovare rettitudine negli uomini investiti di pubblica autorità, onde poter ripetere: «E in mio nome che regnano i re e i magistrati applicano il diritto» (Prv 8, 15).

    Anche costoro s'impadroniscono dei beni altrui, o nascostamente o col sopruso, facendo concorrenza ai ladri e correndo dietro ai donativi (cf. Is I, 23); oppure raggiungono i propri intenti emanando leggi [inique] e) e stabilendo tasse già destinate in partenza ad alimentare il reddito personale. Tanto che Agostino si chiede che altro siano i regni, se non latrocini su vasta scala. Di sicuro lo sono, perlomeno, le inique pubbliche amministrazioni.

 

    3. Si ruba col trattenere il salario dovuto all'operaio. Perciò il Levitico raccomanda che la paga giornaliera del bracciante non rimanga a lungo tra le mani dell'amministratore (cf. Lv 19, 13).

    È sottinteso, una volta di più, l'obbligo di dare a ciascuno il suo, si tratti [del servo o] del padrone, del chierico o del suo prelato. E l'invito alla giustizia che san Paolo rivolge a tutti: «Rendete a ognuno quanto gli è dovuto: a chi l'imposta, l'imposta; a chi la gabella, la gabella; a chi la riverenza, la riverenza; a chi l'onore, l'onore» (Rm 13, 7). Siamo tenuti infatti a versare il nostro contributo a quanti amministrano il bene comune (202).

 

    4. A riprovazione delle [frequenti] frodi commerciali, dice il Signore: «Nella tua sacca non nascondere due pesi, uno esatto e l'altro più grande. Non avere in casa due misure, quella giusta e quella che hai manipolato» (203); «Non commettere ingiustizie... nelle misure di lunghezza, di peso e di capacità. Usate bilance giuste, fate pesi giusti, siano esatti l'efa e l'hin» (204); o ancora, tra i Proverbi: «Doppio peso è in abominio presso Dio; bilancia falsa non è cosa buona» (Prv 20, 23).

    Un discorso del genere vale ovviamente per quegli osti che mescolano l'acqua al vino. E viene condannato anche l'interesse eccessivo richiesto nelle usure. L'usuraio [assieme agli altri operatori di frode] rischia d'essere escluso dal regno dei cieli (cf. Sal 14, 1). L'avvertimento riguarda banchieri e cambiavalute, che combinano imbrogli d'ogni sorta, e i venditori di panni e l'intera classe dei negozianti...

    Prevedo un'obiezione: «Ma perché non dovrei esser libero di dare [a interesse] il denaro che mi è stato chiesto in prestito, come faccio quando consegno a nolo un cavallo oppure in affitto una casa?».

    Ti rispondo che, se in tale genere di affari c'è peccato, esso deriva dal volersi far pagare due volte una stessa e identica cosa. Nei beni immobili infatti, o comunque alienabili, vanno distinti il bene preso in se stesso, dal suo uso. Posso perciò far pagare una quota d'affitto a chi si serve della mia abitazione, restandone io proprietario. E altrettanto dicasi in casi consimili.

    Ove però esistano beni che si risolvono nell'uso dei medesimi - cioè come mezzo per effettuare gli scambi -, non ce ne possiamo servire per ricavarne un usufrutto (205). Mentre infatti usiamo il frumento impiegandolo [per la semina o l'alimentazione], il denaro esaurisce il suo ruolo nel mediare lo scambio di altri beni. Così se vendi il tuo denaro, vendi [la medesima cosa, di cui hai già ricevuto l'equivalente] due volte.

    5. Nello stesso peccato [di appropriazione indebita] cadono quanti si comprano qualche carica onorifica, temporale o [peggio] di natura spirituale. Del primo caso leggiamo nella Scrittura: «Ingoiò ricchezza e la vomiterà, gliela ricaccerà dal ventre Iddio» (Gb 20, 15). I tiranni e tutta la genìa di signorotti che servendosi della violenza si sono posti a capo di un regno, di una provincia o di un feudo, sono dei ladri e in quanto tali hanno l'obbligo di restituire il maltolto. 

    A chi si è procacciato benefizi ecclesiastici a suon di quattrini, Gesù ha detto: «Chi non entra nell'ovile per la porta ma vi sale da un'altra parte, è ladro e brigante» (Gv 10, 1). Simoniaci, dunque, uguale a ladri.

    «Non rubare». Molte le ragioni che ci devono indurre a evitare qualunque tipo di violazione del settimo comandamento.

    Spesso è un autentico crimine, paragonabile all'omicidio. Dichiara Ben Sirac (206): «Uccide il prossimo chi gli sottrae il cibo, e sparge sangue chi priva l'operaio della sua mercede» (Sir 34, 25); e qualche versetto più avanti: «Un assassino e uno che campa defraudando l'operaio sono fratelli [degni l'uno dell'altro]» (Sir 34, 27).

    Il furto poi comporta non pochi rischi. Forse nessun altro peccato è così pericoloso. Perché una colpa venga perdonata si richiede il pentimento e una corrispondente soddisfazione. Nella maggior parte dei casi, il pentimento sopraggiunge presto: prendi, che so, un delitto compiuto per impulso dell'ira; oppure la fornicazione, al placarsi della concupiscenza, e via dicendo.

    Ora, anche ammesso che il ladro si penta, non è detto che egli sia egualmente pronto a rendere la refurtiva; e in più si aggiunga il dovere di risarcire gli eventuali danni causati al legittimo proprietario, oltre alla penitenza che gli verrà imposta per il peccato stesso... Per questo esclamava un profeta: «Guai a colui che accumula roba non sua! Quando la smetterà di affondare nella melma?» (Ab 2, 6). Dal fango denso di un pantano è difficile tirarsi fuori.

    Il frutto dei latrocini si rivela sterile. Non giova certo allo spirito: «Non tornano utili i tesori di mal acquisto» (Prv 10, 2). Le ricchezze infatti producono un guadagno spirituale solo nella misura in cui vengono date in elemosina o per offrire sacrifici di culto (cf. Prv 13, 8); ma di ciò che si possiede ingiustamente sta scritto: «Io, il Signore, amo il [rispetto del] diritto, e odio la rapina che vorrebbe alimentare gli olocausti» (Is 61, 8). Analoga riprovazione la trovi in una pagina del Siracide: «Chi offre un sacrificio pagandolo col denaro dei poveri, somiglia a chi sgozza il figlio sotto gli occhi di suo padre» (Sir 34, 24).

    Né ci si può illudere che giovino a lungo: «Guai a chi compie illecite rapine nella speranza di mettere in alto il suo riparo e sfuggire ai colpi della sventura!... Certo, grideranno [contro di lui] le pietre dei muri, e faranno loro eco le travi dei bastioni» (207).

    «Chi accresce le sue ricchezze con usura e interessi, le accumula [non per sé ma] per chi sente pietà verso i poveri» (Prv 28, 8). In altri termini; «La ricchezza del peccatore passa nelle mani del giusto» (Prv 13, 22).

    Infine, il furto cagiona un danno ai beni già posseduti [magari onestamente]: li manda in rovina, un po' come il fuoco che cade sopra la paglia. «Il fuoco divorerà la tenda dell'uomo venale» (Gb 15, 34).

    E tieni presente che un ladro non danneggia solo la propria anima, ma l'esistenza dei suoi figli, obbligati spesso a rimetterci di tasca [nell'indennizzo delle vittime].

 



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