. Al primo posto mettete la confessione e poi chiedete una direzione spirituale, se lo ritenete necessario. La realtà dei miei peccati deve venire come prima cosa. Per la maggior parte di noi vi è il pericolo di dimenticare di essere peccatori e che come peccatori dobbiamo andare alla confessione. Dobbiamo sentire il bisogno che il sangue prezioso di Cristo lavi i nostri peccati. Dobbiamo andare davanti a Dio e dirgli che siamo addolorati per tutto quello che abbiamo commesso, che può avergli recato offesa. (Beata Madre Teresa di Calcutta)
 
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San Tommaso d’Aquino

Ultimo Aggiornamento: 31/01/2015 17:34
31/01/2015 17:31

 Può succedere che taluno possa far del male ad altri senza che ciò costituisca una colpa: allorché compie qualcosa di non gradito al prossimo ma per il bene del medesimo. Dio fa altrettanto. Si dà il caso di persone sviate che, colpite dalla malattia, ritrovano il giusto sentiero; oppure il caso del malvagio che cambia vita passando dalla prosperità alla sventura. Non di rado infatti il dolore fa ritrovare il senno (cf. Is 28, 19).

    Altro caso: non pecchi se, animato dall'amore per la Chiesa, desideri la caduta del persecutore: prima ti deve stare a cuore il bene della Chiesa che non la vita di un tiranno. «In ogni cosa sia benedetto il nostro Dio - dissero i Maccabei -, che ha consegnato [alla morte] gli empi» (2 Mac I, 17).

    Questa avversione al male ciascuno di noi deve non solo auspicarla, ma alimentarla concretamente. Ne è peccato l'esecuzione capitale di un malfattore, dopo un equo processo (165); i giudici, secondo l'espressione di Paolo, sono in tal caso «esecutori del potere di Dio» (166), e non agiscono contro la carità dato che la condanna ha valore di castigo, oppure serve a qualche finalità superiore. Vale infatti di più il bene di un'intera città [liberata dall'iniquo dominatore ], che l'esistenza fisica di costui.

    Non basta d'altra parte astenersi dall'odiare il prossimo, avendo noi l'obbligo di desiderare il suo vero bene, cioè che si converta e possa conseguire anch'egli la vita eterna.

    Due sono i modi: possiamo amare qualcuno in senso generico, in quanto è creatura di Dio e potenziale candidato alla vita eterna; più in particolare, possiamo amarlo se è nostro amico e nostro compagno di fede.

    Da un amore di fondo non possiamo escludere alcuna persona: bisogna pregare per tutti ed esser pronti a beneficiare chiunque si trovasse in estrema necessità. Non esiste invece un obbligo di trattare familiarmente anche chi ti avesse maltrattato, a meno che non abbia chiesto di perdonargli, ché in tal caso egli rientra nella cerchia degli amici. Se tu ti rifiutassi, saresti uno che respinge chi ti vuol essere [di nuovo] amico.

    Nel Vangelo puoi leggere che «se perdonate agli uomini i loro falli, il Vostro Padre celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà i vostri peccati» (Mt 6, 14-15); e, nella preghiera dettata dal Signore: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 9).

    «Amerai il prossimo tuo come te stesso». Abbiamo detto che, non concedendo venia a chi te la chiede, sei tu che pecchi, e sai pure che una carità alla ricerca della perfezione ti spingerà a trovar la maniera di riavvicinare l'offensore, benché tu non ne abbia il dovere. Per indurti a fare questo passo, considera quante ragioni ne indicano la convenienza.

 

    I. La tutela della propria dignità. A ciascun grado di nobiltà corrisponde una particolare insegna, e nessuno deve rinunciarvi. La maggiore di tutte le dignità umane è quella d'essere figli di Dio. Il blasone che ci distingue è precisamente l'amore esteso anche all'avversario. «Amate i vostri nemici... affinché siate figli del Padre vostro che sta nei cieli» (Mt 5, 44-45). Restringere l'affetto unicamente all'amico non può essere la prova decisiva a favore della filiazione divina, tant'è vero che anche i pubblicani e i pagani sanno farlo (cf. Mt 5, 46).

    2. Il desiderio di vincere, che è qualcosa di connaturato in ciascuno di noi. O tu conquisti alla causa dell'amore, mediante la bontà, la persona che ti ha offeso (e allora sei tu a superarlo); oppure è l'altro che riesce a coinvolgerti sul sentiero dell'odio, e tu perdi la battaglia [assieme a lui]. Tu dunque «non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male col bene» (Rm 12, 21).

 

    3. I vantaggi che ne derivano, come il farsi degli amici. Ricordandoci che la vendetta spetta al giudice divino, l'apostolo Paolo raccomanda: «Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete dagli da bere, poiché così facendo radunerai carboni ardenti sopra la sua testa» (167). Sant'Agostino prosegue: «Nessun invito più efficace all'amore, che cominciare noi per primi a mostrare benevolenza. Nessuno sarà così insensibile, per quanto deciso a non prender l'iniziativa di far la pace, da respingere il buon esempio». Un amico che resta fedele anche se messo a dura prova, si mostrerà impareggiabile (cf. Sir 6, 15); e quando il Signore ha gradito la condotta di un uomo, gli riconcilierà perfino i nemici (cf. Prv 16, 7).

 

    4. Le tue preghiere troveranno più facilmente ascolto. Perciò, commentando il passo di Geremia: «Se si presentassero a me Mosè e Samuele, ecc.» (Ger 15, 1) san Gregorio fa notare che questi due personaggi son ricordati in particolare perché essi intercedettero per i propri nemici (168). Anche Cristo lo fece, dicendo: «Padre, perdona loro» (Lc 23, 34), e così pregando, Stefano procurò alla Chiesa un vantaggio straordinario: la conversione di Paolo.

 

    5. Più facile risulterà la fuga dal peccato, il che deve starci parecchio a cuore. Talvolta infatti pecchiamo, e ci scordiamo di Dio; allora egli ci attrae a sé daccapo servendosi di una infermità o di espedienti consimili. Pur di sospingerci sul retto sentiero, egli chiuderà coi rovi della sofferenza ogni altro varco di cui parla Osea (cf. Os 2, 6). Così Saulo divenne prigioniero del Cristo, e l'autore di un salmo si fa portavoce del peccatore pentito: «Sono andato errando qual pecora smarrita: vieni in cerca del tuo servo, o Signore» (Sal 118, 176), o, la sposa nel Cantico: «Prendimi con te: corriamo!» (Ct 1, 3).

    Ebbene, otterremo [più agevolmente] questo risultato allorché, facendo il primo passo verso la riconciliazione, apriamo le braccia verso chi si era reso nostro nemico. «Sarà usata per voi la stessa misura di cui vi sarete serviti» (Lc 6, 38), e poco avanti: «Perdonate e sarete perdonati» (Lc 6, 37), mentre Matteo ci annunzia la beatitudine della misericordia: «Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia» (Mt 5, 7).

    Non vi è misericordia superiore a quella di offrire il perdono a chi ci abbia offeso.

 

1. «Non avrai altri dèi oltre a me» (Esodo 20, 3)

 

    S'è veduto che tutta la legge di Cristo è basata sulla carità, e questa a sua volta si esprime compiutamente nei due precetti dell'amore, verso Dio e verso il prossimo.

    Consegnando a Mosè il decalogo, Dio gli presentò due tavole di pietra, sulla prima delle quali erano incisi i tre precetti relativi all'amore verso Dio, sulla seconda i rimanenti sette, relativi all'amore verso il prossimo. L'intera legge, dunque, veniva riassunta nei due obblighi fondamentali [della carità].

    «Non avrai altri dèi».

    Per comprendere il perché di questo primo comandamento bisogna sapere che gli antichi violavano in vari modi tale diritto [esclusivo del vero Dio].

    Vi era chi rendeva un culto ai demoni. «Gli dèi pagani sono spiriti malvagi» (Sal 95, 5), perciò questo è il peggiore e più orribile dei peccati.

    Ancora oggi sono in molti a trasgredire il primo comandamento, ossia tutti coloro che si dedicano alle opere della magia per indovinare il futuro, e ai sortilegi. Entrambe presuppongono, come osserva sant'Agostino, un patto d'intesa col demonio. Anche Paolo raccomandava: «Non voglio che voi siate in comunione coi demoni» (I Cor 10, 20); e, ancora: «non potete partecipare alla mensa del Signore e a quella degli spiriti maligni» (I Cor 10, 21).

    Altri adoravano i corpi celesti, considerando gli astri quasi altrettanti dèi. Vedi, nel libro della Sapienza: «Credettero dèi, governatori del mondo, il fuoco o il vento o l'aria veloce, o il firmamento stellato, o le acque violente o i luminari del cielo» (Sap 13, 2). Fu per questo motivo che Mosè raccomandò agli israeliti di non starsene troppo a osservare il firmamento, nel timore che finissero con l'adorare il sole, la luna e le stelle. Ecco il testo: «Quando tu alzerai gli occhi al cielo e vedrai lassù il sole, la luna e le stelle e tutti gli astri del firmamento, non ti lasciar sedurre al punto di prostrarti davanti a tali creature per adorarle» (Dt 4, 19). Ribadisce lo stesso concetto anche in altro passo del Deuteronomio (cf. Dt 5, 7-8).

    Contro il primo comandamento peccano gli astrologi, i quali sostengono che gli uomini siano guidati dai corpi celesti (169), mentre in realtà si tratta semplicemente di creature destinate a servire. Soltanto Dio è il nostro signore.

    Non son mancati neppure adoratori degli elementi terrestri, gente che credette il fuoco, il vento o l'aria manifestazioni degli spiriti invisibili (cf. Sap 13, 2). E cadono in un errore consimile quanti usano dei beni inferiori, nutrendo per i medesimi eccessivo attaccamento. L'avaro ad esempio è un idolatra (cf. Ef 5, 5).

    Altri hanno adorato gli uccelli, oppure gente come loro o magari se stessi, mossi da diversi motivi: un affetto carnale, l'adulazione, là vana ostentazione di sé.

    Leggiamo, quanto ai primi, nella Scrittura, che «un padre grandemente afflitto per l'immatura morte del figlio, ne fece riprodurre l'immagine, poi l'onorò come Dio mentre non era che un morto, istituendo per i suoi un culto con proprie cerimonie. L'empia abitudine si diffuse in seguito e s'osservò come legge» (Sap 14, 15).

    Servi adulatori han reso un culto ad altri uomini, venerandoli più che Dio stesso e non solo in loro presenza ma dinanzi a immagini che li riproducevano (cf. Sap 14, 17). Il Signore ha avvertito: «Colui che ama il padre o la madre più di me, non è degno di me» (Mt 10, 37), e il salmo 145 ci ammonisce: «Non riponete fiducia nei potenti, uomini [come voi] incapaci di provvedere alla vostra salvezza» (Sal 145, 2-3).

    Infine, spinti dalla presunzione certuni si fecero chiamare «dèi», come si può vedere nel caso di Nabucodonosor» (170). E in Ezechiele leggiamo, d'uno di essi: «Il tuo cuore si è inorgoglito e tu hai detto: 'Io sono un dio, e abito nella dimora di un dio, nel cuore del mare'» (Ez 28, 2). E qualcosa del genere fanno quelli che si attengono più alle proprie idee personali che ai divini precetti. Praticano verso se stessi un'autentica religione: nella continua ricerca di piaceri carnali, mostrano di adorare come un dio il proprio corpo. È di essi che l'Apostolo ha scritto: «Il ventre, per loro, è la divinità» (Fil 3, 19).

    Da tutto ciò e da costoro dobbiamo tenerci lontani.

    «Oltre a me». Dobbiamo adorare esclusivamente l'unico vero Dio. Ed eccone le ragioni.

 

    I. La dignità di Dio. Anche nei suoi confronti, così come succede tra noi, negandogli l'ossequio dovuto gli si fa ingiuria. Chiunque occupi un rango elevato ha diritto a un particolare rispetto, tanto che verrebbe considerato traditore del re quell'uomo che gli rifiutasse un atto di riverenza.

    Ebbene, vi sono taluni che si comportano così di fronte a Dio [negandogli l'adorazione]. «Hanno sostituito la gloria di Dio incorruttibile, con immagini di uomini mortali» (Rm I, 23), il che spiace a lui, sommamente, avendo proclamato per bocca di Isaia: «Io sono il Signore; questo è il mio nome: non darò la mia gloria a nessun altro, né agli idoli l'onore che è dovuto a me» (Is 42, 8).

    Uno dei punti su cui si fonda la dignità divina deriva dalla sua onniveggenza; lo stesso suo nome sembra trarre origine dal verbo «vedere», dal vedere tutto e tutti, prerogativa della deità. Il profeta poteva perciò sfidare i falsi dèi: «Annunziate ciò che accadrà in avvenire, e noi riconosceremo che siete dèi» (Is 41, 23). «Nessuna cosa al mondo sfugge allo sguardo di Dio, ma tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto» (Eb 4, 13).

    Attentano a simile capacità che loro non compete gli indovini; contro i quali dice Isaia: «Vi pare serio che un popolo debba consultare qualcun altro che non sia il proprio Dio, e per i vivi interpellare i morti?» (Is 8, 19).

 

    2. Un ulteriore motivo di ossequio ce lo offre la generosità del Signore. Da Dio ci proviene ogni bene. Egli è il munifico creatore. «Tu allarghi la mano, e tutti sono provvisti di beni» (Sal. 3, 28). Anche questa dote [universale] pare sia contenuta nel nome «Dio»: il donatore per eccellenza, colui che riempie di bontà il creato.

    Daresti a vedere di esser parecchio ingrato, se non ammetti che tutti i beni ti provengono da lui; anzi finiresti per inventarti un altro dio, come quegli israeliti che, rientrati dall'Egitto, si costruirono un idolo. Andiamo dietro all'oggetto del nostro cuore (cf. Os 2, 5), imitando i figli di Israele, ogni volta che riponiamo la speranza non in Dio ma in qualcun altro. Invece «beato è l’uomo che fa assegnamento su Dio» (Sal 39, 5), e l'apostolo Paolo interrogava in proposito i cristiani della Galizia: «Ora che avete conosciuto Dio ­ anzi, che siete stati amati e conosciuti da lui -, come mai vi rivolgete di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, dei quali volete ancora essere schiavi?» (Gal 4, 9-10).

 

    3. La fedeltà alle promesse fatte. Noi abbiamo rinunziato al diavolo, promettendo d'impegnarci solo dalla parte di Dio, e non dobbiamo mancare di parola. Assai grave è il rischio che si incorre, secondo che ricorda l'Apostolo: «Se uno viola la legge di Mosè, in base alla deposizione di due o tre testimoni morrà senza alcuno scampo; quanto più acerbi supplizi pensate voi che si meriti chi avrà calpestato il Figliolo di Dio, e avrà tenuto come profano il sangue del testamento grazie al quale fu santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito?» (Eb 10, 28-29). E aggiunge che «una donna sarà chiamata adultera se, vivendo ancora il marito, essa diventa la donna d'un altro» (Rm 7, 3) e secondo la legge mosaica costei avrebbe meritato d'essere mandata al rogo. Perciò, stia attento il peccatore che crede di poter battere due strade, che zoppica da entrambi i lati (cf. I Re 18, 21).

 

     4. L'inclemenza del dominio diabolico, adombrata nelle parole di Geremia: «Servirete giorno e notte ad altri dèi, che non vi daranno requie» (Ger 16, 13). Il tentatore infatti non si contenta di far cadere una sola volta ma, piuttosto, si ingegna di moltiplicare le cadute. «Chi fa il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34), e san Gregorio commenta: «L'errore che non vien cancellato dalla penitenza, presto ne trascina altri con sé».

    La sottomissione al Signore è ben diversa. I suoi precetti non risultano opprimenti: «Il mio giogo è soave, [dice il Signore] e leggero il mio peso» (Mt 11, 30). Può considerarsi abbastanza soddisfatto l'uomo che prende a dedicarsi al servizio di Dio con l'assiduità che poneva nel peccare.

    Ai cristiani, Paolo rivolge questo appello: «Come un tempo avete messo le vostre membra a servizio dell'impurità e dell'iniquità per soddisfare le concupiscenze, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia, per raggiungere la santità» (Rm 6, 19.).

    I servi del diavolo diranno invece: «Ci siamo allontanati dalla via della verità... Ci stancammo, percorrendo le vie dell'iniquità e della rovina, e attraversammo deserti impraticabili» (Sap 5, 7). Davvero, conclude Geremia, «si consumarono in una vita iniqua» (Ger 9, 5).

 

    5. L'immensità del premio. Da nessun altro vengono promesse ricompense sublimi come quelle derivanti dalla osservanza della legge di Cristo. Ai musulmani si dice sian riservati fiumi di latte e di miele, ai giudei una terra promessa, ma ai cristiani la stessa gloria degli angeli. «[Gli eletti] saranno in cielo simili agli angeli di Dio» (Mt 22, 30). Tenendo presente questa prospettiva, Pietro poté esclamare; «Signore, da chi potremmo andare? Tu hai parole di vita eterna!» (Gv 6, 69).

 

2. «Non nominare il nome del Signore tuo Dio invano» (Esodo 20,7)

 

    Come non esiste che un unico Dio da adorare, così ve n'è uno soltanto al quale dobbiamo il massimo rispetto. Il suo nome va pronunziato con deferenza, mai vanamente. Ora, il termine vano può avere tre significati.

    Equivale in certi casi a falso; vedi ad es. il salmo 11: «Ciascuno ha detto al suo prossimo cose che nascondevano inganni» (Sal 11, 3). Stai usando sconsideratamente il nome del Signore allorché vorresti servirtene per rendere credibile un discorso fatto di bugie. «Non giurare il falso, poiché io odio tutto questo, dice il Signore» (Zc 8, 17). E, ancora nel medesimo profeta: «Tu morrai perché hai preferito menzogne nel nome del Signore» (Zc 13, 3).

    L'uomo insincero offende Dio, fa danno a sé medesimo e agli altri.

    Se infatti il giurare per Iddio è un chiamarlo a testimone, quando tu giuri a giustificazione della falsità, o credi che egli non conosca come stiano effettivamente le cose (e allora tu non lo consideri onnisciente mentre tutto è aperto e chiaro dinanzi al suo sguardo (cf. Eb 4, 13); oppure supponi che egli possa sopportare la menzogna, proprio lui che l'ha in abominio e punisce i bugiardi (cf. Sal 5, 7); o infine ti ritieni al sicuro dalla sua collera, quasi che non ti possa punire come meriti.

    Usando invano il nome di Dio l'uomo si fa del male, condannandosi a subire il giudizio divino. Dire: «Ti assicuro, per Iddio, che è come sostengo io!» altro non equivale che a: «Se sto mentendo, Dio farà bene a punirmi»!

    E arreca danno agli altri. Non è possibile infatti che sussista tra le persone un rapporto durevole, se non su una base di reciproca fiducia. Ma è appunto in caso di sospetto che si ricorre al giuramento (cf. Eb 6, 16), sicché ne deriva in sostanza un'offesa a Dio, un castigo di più per noi stessi e scapito per una serena convivenza.

    Vano, in altro senso, sta per inutile. «Il Signore conosce i pensieri degli uomini, e sa che sono inconcludenti» (Sal 93, 11). Quindi, se adoperiamo il suo nome a conferma di cose frivole, lo nominiamo invano.

    Affinché gli uomini non giurassero il falso, ciò fu proibito nell'antica legge. Ad esempio: «Non pronunziare invano il nome del Signore, Iddio tuo, poiché il Signore non riterrà innocente chi avrà proferito il suo nome, senza ragione» (Dt 5, 11). Cristo, invece, dispone che non si giuri affatto: «Sapete che fu detto agli antichi: 'Non spergiurare'. Io però vi dico di non giurare mai, né per il cielo, perché è trono di Dio; né per la terra, ché è sgabello dei suoi piedi» (Mt 5, 33-34). E la ragione è semplice: nell'uomo non c'è parte che sia corriva a malfare quanto la lingua: nessuno, come ha scritto Giacomo, potrà domarla perfettamente (cf. Gc 3, 8); e potremmo esser portati con facilità a giurare solennemente [senza motivo proporzionato]. «Il vostro parlare sia: sì, sì; no, no» (Mt 5, 37).

    Rettamente inteso, il giuramento va usato come le medicine: farvi ricorso quale rimedio davvero inevitabile. «Quel che v'è di più [nei vostri discorsi), è ispirato dal Maligno» (Mt 5, 37). «Non avvezzare la tua bocca al giuramento, né prender l'abitudine di pronunziare il nome santo... Chi giura e nomina continuamente Dio, non rimarrà immune da colpa» (Sir 23, 9).

    Il peccato [in genere] o l'ingiustizia vengono talvolta indicati col nome vano. «Figli degli uomini, perché avete duro il cuore e amate la vanità?» (Sal 4, 3). Così, una persona che giurasse per compiere più agevolmente qualcosa di illecito, usa invano quel nome sacro.

    Due sono le parti della giustizia: fare il bene, astenersi dal male. Così, se tu hai giurato di compiere un furto o qualcosa del genere, hai già violato la giustizia, e sebbene un simile giuramento non sia vincolante, tu sei spergiuro. Fu il caso di Erode nei confronti di Giovanni Battista (cf. Mc 6, 23, 26).

    Ugualmente va contro la virtù della giustizia chi con giuramento si impegnasse di non fare un determinato bene, come l'entrare a far parte della Chiesa o di un Ordine religioso. Anche qui, pur non dovendosi tener fede alla parola data, chi lo avesse giurato diverrà spergiuro.

    In conclusione, non si deve giurare in assenza di una causa proporzionata, né circa una materia illecita. Dice bene la Scrittura: «Giurerai per la vita del Signore con sincerità, ponderatezza e giustizia» (Ger 4, 2).

    Un ultimo possibile significato della parola vano potrebbe aversi usandolo nel senso di sciocco. «Stolti per principio sono tutti quegli uomini che vogliono ignorare Dio» (Sap 13, 1). Del pari, chi adopera il nome di Dio stoltamente, come fanno i bestemmiatori, lo pronuncia invano. «E chi avrà bestemmiato il nome del Signore, sia messo a morte» (Lv 24, 16).

    «Non nominare il nome del tuo Dio invano». Del nome divino, non si può fare un vario uso.

 

    I. Come si è veduto, per dare maggior forza al discorso, ossia nel giuramento. E un'implicita ammissione che Dio è la verità per essenza, ed è allora una maniera di riconoscerne le prerogative: la legge perciò prescriveva che, dovendosi giurare, lo si facesse chiamando Dio a testimone (171). Non sbaglia quindi chi, avendo a impegnarsi solennemente, si appella ad altri. «Non giurate pronunziando il nome degli idoli» (Es 23, 13).

    Ad ogni modo, anche nel caso che si giurasse su una qualunque creatura, in fondo è sempre Dio a essere coinvolto. Giuri sopra la tua vita, sulla tua testa? Bene: tu metti l'una o l'altra a rischio di subire il castigo da parte di Dio. Ma [con tranquillità] l'Apostolo poteva scrivere: «Io chiamo Dio in testimone contro la mia vita [se non ho detto la verità]» (2 Cor 1, 23).

    Altrettanto si dica quando giuri sopra il Vangelo: giuri su colui che ne è l'ispiratore. Chiunque abbia l'abitudine di giurare su Dio o su suo Vangelo con leggerezza, pecca.

 

    2. Il nome santo può essere invocato per santificare le cose. Lo facciamo nel conferire il battesimo, del quale san Paolo dice: «[Eravate esclusi dalla eredità del regno di Dio, ma] siete stati mondati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (I Cor 6, 11). Il sacramento riceve la propria efficacia esattamente in forza dell'invocazione della Trinità. E Geremia invocava sul popolo il nome del Signore (cf. Ger 14, 9).

 

    3. Lo adoperiamo per scacciare l'Avversario. Prima di somministrare il battesimo si procede alla rinunzia d'ogni rapporto con il diavolo. Un tuo ritorno al peccato equivarrebbe al vano uso del nome salvifico.

 

    4. Usarlo [correttamente] è lo stesso che enunciare la propria fede in Dio. «Come [i pagani] invocheranno uno in cui non credono [per non averne sentito parlare]?» (Rm 10, 14). Invece «chiunque invocherà il nome del Signore [con fede] sarà salvo» (Rm 10, 13).

    La nostra dichiarazione di fede può essere verbale, quando parliamo della gloria di Dio: «Sono creature che mi glorificano tutti coloro che invocano il mio nome» (Is 43, 7). Usi male del suo nome se denigri la gloria che spetta al Signore.

    La fede può esprimersi concretamente, nel compimento di quelle opere che tornano a gloria di Dio. «La vostra luce risplenda davanti agli uomini, affinché essi vedano le vostre buone opere e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 16). Fanno il contrario coloro di cui parla l'Apostolo: «Per colpa vostra il nome di Dio è oggetto di derisione tra i pagani» (Rm 2, 24).

 

    5. È un valido rifugio. «Solida torre è il nome del Signore: il giusto vi cerca riparo e si sente al sicuro» (Prv 8, 10). Gesù promette la vittoria sui demoni a chi invocherà con fede il proprio nome (cf. Mc 16, 17), l'unico nome di cui gli uomini possano disporre per conseguire la salvezza (cf. At 4, 12).

 

    6. Infine, nel nome di Dio si concludono egregiamente le imprese umane. Ce lo raccomanda l'Apostolo: «Qualunque cosa si compia da parte vostra, in parole o in opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo per mezzo suo, grazie a Dio Padre» (Col 3, 17). «Nostro aiuto è il nome del Signore, che ha creato i cieli e la terra» (Sal 123, 8).

    Quindi, se uno comincia a fare qualcosa nel nome di Dio e poi non la porta a compimento, come nel caso di un voto inadempiuto, anche costui ha fatto un uso indebito del nome santo. «Quando hai fatto un voto a Dio, non indugiare a soddisfarlo poiché egli non ama gli stolti: quello che hai promesso, adempilo. E meglio non far voti, che farli e poi non mantenerli... Perché dar motivo a Dio di sdegnarsi per le tue parole?» (Sir 5, 3; cf. 75, 12).

 

3. «Ricordati del giorno di riposo, per santificarlo» (Esodo 20, 8)

 

    Occupa convenientemente il terzo posto, dato che prima dobbiamo venerare Dio col cuore, indi con le parole, e prestargli infine il dovuto ossequio nell'agire. Per questo egli ha stabilito che gli uomini avessero un giorno determinato, in cui dedicarsi [più interamente] al suo servizio.

    Tale opportunità è ben motivata.

 

    I. Il comandamento del giorno sabatico (172) doveva confutare l'errore - previsto dallo Spirito Santo - di quei filosofi che avrebbero sostenuto l'esistenza ab aeterno del creato. «Negli ultimi giorni verranno degli uomini beffardi, schernitori, che vivono secondo le loro passioni. E diranno: dov'è la promessa della sua venuta? Poiché, da quando i padri sono morti, tutto è rimasto come era fin dal principio della creazione. Ma essi a bella posta vogliono ignorare come in principio vi erano i cieli e una terra, che la Parola di Dio aveva fatto emergere dalle acque» (2 Pt 3, 3-5).

    Dio ha voluto che, a ricordo della creazione operata in sei tempi - nonché del settimo, in cui egli cessò dal chiamare altre creature all'esistenza -, osservassimo anche noi un giorno di riposo. È appunto il «ricordati di santificare la festa».

    I giudei celebravano di sabato la memoria della prima creazione. Cristo operò la seconda proprio il giorno in cui si concludeva la settimana [giudaica]. Da questa seconda creazione non ebbe origine l'uomo terrestre, bensì l'uomo spirituale: la nuova creatura, quella che ha valore agli occhi del Padre (cf. Gal 6, 15). Essa prese a vivere in forza della risurrezione di Gesù (cf. Rm 6, 4-5). Ora, la risurrezione del Signore avvenne nel giorno che i cristiani hanno a lui dedicato. Per questo noi celebriamo la domenica [giorno della risurrezione, o della nuova creazione], come i giudei avevano il sabato in venerazione.

 

    2. Esso ha valore di insegnamento religioso intorno al redentore, il cui corpo nel sepolcro fu esente dal processo di decomposizione. La sua carne, secondo il salmista, riposò nella speranza (cf. Sal 15, 9), ossia nella certezza che «il Santo» non sarebbe stato abbandonato alla corruzione della morte (cf. Sal 15, 10). Con la quiete del giorno festivo è simboleggiata la sua deposizione dalla croce, come i sacrifici ne prefigurarono la morte. Noi non pratichiamo più i riti sacrificali dell'antica alleanza per il motivo che, sopraggiunta la realtà messianica, i simboli hanno perso il loro significato. Col sorgere del sole svaniscono le ombre notturne. Tuttavia veneriamo il sabato in onore della gloriosa Vergine che pure in tal giorno serbò la fede nel Cristo, sebbene [come uomo] lo sapesse morto.

 

    3. Poi [tale precetto] ha il compito di dar maggiore efficacia alla promessa quiete [eterna], allorché si avvererà qualcosa di assai più grande e durevole di quanto profetava Isaia ai deportati in Babilonia: «Il Signore ti darà riposo dalla tua pena, dai tuoi affanni e dalla dura servitù in cui eri tenuto» (Is 14, 3) e abiteremo in un soggiorno di pace, in dimora sicura, in luoghi di perfetta quiete (cf. Is 23, 18).

    L'uomo attende di potersi riposare sia dal peso della vita terrena, sia dagli assalti delle tentazioni, sia dalla dipendenza da satana. Cristo ha promesso tutto ciò a coloro che seguiranno lui: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi, e io vi darò completo riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché sono mite e umile di cuore; e troverete pace per le anime vostre; poiché il giogo è soave, e leggero il mio peso» (Mt 11, 28-30).

    Dobbiamo riflettere sul fatto che se il Creatore operò in sei fasi (173), riposandosi in quella successiva, lo fece per mostrarci che ogni cosa dev'essere compiuta nel miglior modo possibile. Anche se avremo faticato poco, troveremo un abbondante riposo (cf. Sir 51, 35), poiché l'eternità eccede senza paragone il tempo presente: assai più che mille anni di fronte alla durata di un giorno (cf. Sal 89, 4).

 

    4. Esso si rivela quale mezzo adattissimo ad alimentare l'amore verso Dio. Da un lato è vero che «il nostro corpo corruttibile è di peso all'anima, e questa abitazione di argilla grava la mente nei suoi pensieri» (Sap 9, 15), ossia l'uomo tende sempre a cose che sono inferiori a lui per natura, se non cerca di sottrarsi al loro fascino. Opportuno quindi un giorno che faciliti questa elevazione.

    Vi sono uomini che stabilmente si dedicano alla quiete [della contemplazione], che sembrano ripetere in continuazione: «Benedirò il Signore in ogni tempo» (Sal 33, 2) e fan proprio l'invito dell'Apostolo di pregare senza intermissione (cf. I Ts 5,17): vivono quasi un lungo giorno consacrato a Dio.

    Altri ve ne sono, che fanno questa offerta del loro tempo a intervalli regolari. Ad esempio, lodano il Signore sette volte al dì [nella recita del divino ufficio]. Affinché i rimanenti uomini non si scordassero di Dio completamente, è stato necessario assegnar loro un giorno stabilito: l'unico modo per evitare che il loro amore verso di lui si raffreddi troppo. Anch'essi potranno gustare le delizie dell'incontrarsi con Dio, venerandolo almeno nel giorno del riposo (cf. Is 58, 13-14), e con Giobbe troveranno gioia nell'Onnipotente, nel sollevare il volto e il cuore verso di lui (cf. Gb 22, 26).

    Il giorno della festa non è stato istituito perché l'uomo lo trascorra per intero nei divertimenti, bensì per rendere più intensa la lode e la preghiera (174). Sant'Agostino sosteneva che arare in giorno di festa sarebbe stato un male minore che immergersi senza freno nei passatempi.

 

     5. Con esso ci viene fornita la possibilità di esercitare le opere di misericordia. È sempre esistita infatti gente che, disumana verso sé e verso gli altri, non smetterebbe mai d'affaticarsi pur di accumulare nuovi guadagni. Ordina perciò il Signore: «Osserva il giorno del riposo santificandolo, come il Signore, Iddio tuo, ti ha comandato. Lavora sei giorni... ma al settimo c'è riposo, è sacro al Signore, Iddio tuo; non fare nessun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava... affinché anch'essi possano prender fiato al pari di te» (Dt 5, 12-14).

    «Ricordati di santificare il giorno del riposo». Abbiamo detto che, mentre i giudei celebravano il sabato, noi cristiani dedichiamo al Signore la domenica e altre feste tra le principali. Vediamo adesso come convenga vivere tali giornate.

    Cominciamo intanto col far notare che la Scrittura non dice semplicemente «osserva», bensì «ricordati di santificare» il giorno di festa.

    Santo si può intendere in due sensi. Indica ciò che è puro («Voi siete stati lavati, siete stati santificati» (I Cor 6, 11)), o una cosa consacrata al culto di Dio (e può dirsi santo un luogo, un determinato tempo, le vesti e i vasi sacri). Ebbene, la festa dobbiamo celebrarla tenendo presenti entrambi i significati del termine. Dobbiamo cioè dedicarci al giorno del riposo con animo puro, attendendo in prevalenza al divino servizio. Bisognerà astenersi da alcune cose, e farne invece alcune altre.

    Evitare cioè tre generi di occupazioni, cominciando dai lavori servili. «Abbiate cura... di non portare un peso in giorno di sabato... In tale giorno non fate alcun lavoro» (Ger 17, 22); altrettanto prescriveva il Levitico: «Non farete in quel giorno alcuna opera servile» (Lv 23, 25). Per opera servile deve intendersi quella che affatica il corpo: infatti l'attività liberale è propria dell'anima, come il pensare e simili occupazioni più spirituali, riguardo alle quali l'uomo non può subire costrizioni.

    Tuttavia, quattro scusanti possono giustificare il lavoro fisico nel giorno festivo.

    La necessità: il Signore stesso difese i discepoli che [per sfamarsi] coglievano spighe di sabato (cf. Mt 12, 1-2). Per l'utilità della Chiesa: così il Vangelo narra che i sacerdoti in quel giorno compivano tutto ciò che era richiesto dai sacrifici cultuali (cf. Mt 12, 1-5). Per aiutare il prossimo: Gesù curò di sabato l'uomo dalla mano inaridita, e ridusse al silenzio quei giudei che lo avevano contestato, portando loro l'esempio della pecora tratta in salvo (cf. Mt 12, 10-13). Per ordine della superiore autorità: ad esempio, il Signore ordinò che gli israeliti praticassero la circoncisione anche di sabato (cf. Gv 7, 22-23).

    Poi dovremo astenerci [più che mai nel giorno sacro] dalle colpe. Si può qui applicare l'avvertenza di Geremia: «Se volete salva la vita, non portate pesi di sabato» (Ger 17, 21), poiché il peccato è un tremendo fardello per l'anima, che faceva sospirare Davide: «Le mie iniquità... come un grave peso mi opprimono» (Sal 37, 5).

    Orbene, anche il lavoro servile può costituire peccato, una specie di schiavitù interiore (cf. Gv 8, 34). Cosicché l'invito a non compiere lavori servili nel tempo della festa, può intendersi come un ulteriore invito a non cadere in peccato. Viola quindi questo precetto chi pecca nel giorno di festa. Potrebbe ripeterci il profeta, a nome del Signore: «I vostri sabati e le adunanze rituali non le posso soffrire» (Is I, 13-14). E sapete perché? Per il fatto che «il vostro è un ritrovarsi che sa d'iniquo» (Is I, 13-14). Per questo Jahvè dichiarava di odiarle, d'essere stanco di sopportarle.

    Va evitata l'inerzia totale. «L'ozio è il maestro di tutti i vizi» (Sir 33, 29), per cui Girolamo raccomandava a Rustico: «Abbi sempre qualcosa da fare, in modo che il demonio ti trovi continuamente occupato». Non sarebbe nel giusto chi si contentasse di osservare le feste principali, per poi restarsene in ozio nei rimanenti giorni. «Fa onore al re osservare la giustizia» (Sal 98, 4), nel nostro caso il discernimento. Nella storia dei Maccabei si racconta che alcuni israeliti si erano nascosti e, (convinti che. non fosse lecito neppur difendersi di sabato, quando i nemici irruppero su di loro li massacrarono (cf. I Mac 2, 29-38). Accade qualcosa di simile a molti che trascorrono inerti i giorni della festa. «La videro i suoi nemici, e risero dello stato di abbandono [in cui giaceva Gerusalemme]» (Lam I, 7). Era assai meglio imitare quegli altri giudei che stabilirono, prudentemente: «Chiunque venga a battaglia contro di noi in giorno di sabato, combatteremo contro di lui, per non morire» (I Mac 2, 41).

    «Ricordati di santificare la festa». Sin qui si è veduto che santo può avere il senso di cosa monda o consacrata a Dio. E abbiamo esaminato pure da quali pratiche ci si debba astenere per la durata del giorno festivo.

    Vediamo adesso quali siano le specifiche occupazioni dei giorni santi.

    È conveniente innanzitutto attendere all'offerta del sacrificio. Jahvè prescrisse che ogni giorno gli fossero immolati due agnelli, uno al mattino, l'altro all'ora del véspro. Ma di sabato l'offerta doveva essere raddoppiata (cf. Nm 28, 9). E questo indica che nel giorno festivo dobbiamo offrire a Dio in sacrificio, per intero, il nostro essere. «Tutto proviene da te, e noi non facciamo che restituirti quello che la tua mano ci ha dato» (I Cr 29, 14).

     Rimettiamo nelle sue mani la nostra anima, dolendoci dei peccati commessi («Sacrificio a Dio è uno spirito contrito» (Sal 50, 19)) e ringraziandolo dei benefici («S'innalzi la mia preghiera come un incenso al tuo cospetto» (Sal 140, 2)). Il giorno festivo infatti è particolarmente idoneo a procurarci quella letizia spirituale che promana dalla preghiera, per cui in tal giorno dovremo moltiplicare il nostro dialogo col Signore.

    È giusto affliggere il corpo, [tra l'altro] mediante il digiuno («Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi quale ostia viva» (175) oltre che mediante la lode («L'offerta della lode mi onorerà» (Sal 49, 23)); perciò nel giorno festivo vengono moltiplicati i canti.

     Farai bene a sacrificare qualcosa dei tuoi averi, distribuendo il superfluo. «Non vogliate dimenticarvi della beneficenza e della comunione [nella carità], poiché con tali vittime si guadagna la benevolenza di Dio» (Eb 13, 16). Una carità operosa e più abbondante che negli altri giorni della settimana, facendo sì che la letizia divenga generale. «Mandate una parte [dei vostri cibi e delle vostre bevande] a quelli che non han potuto preparare nulla, perché questo giorno è sacro al Signore» (Ne 8, 10).

    Dobbiamo inoltre dedicarci alla meditazione delle divine verità, come fanno tuttora gli ebrei. «Gli oracoli dei profeti si leggono tutti i sabati» (At 13, 27). Dunque, i cristiani, che devono mostrarsi più perfetti di loro, devono frequentare la chiesa per ascoltarvi la parola di Dio e i canti della liturgia. «Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio» (Gv 8, 47).

    Il nostro parlare dev'essere [più che mai] teso alla edificazione del prossimo: «Non esca dalla vostra bocca alcun cattivo discorso, ma tale che sia atto a insegnare le verità della fede e risulti utile a coloro che ascoltano» (Ef 4, 29). Ciò, assieme alla riflessione sulla divina parola, fa del bene a chi vive nel peccato, poiché mutano in meglio le sue disposizioni interiori. «La mia parola non è forse come il fuoco, dice il Signore, come il martello che frantuma le pietre?» (Ger 23, 29).

    Non ne ricavano frutto invece quei buoni che non si preoccupano di comunicare ad altri la Parola che hanno ascoltato, oppure non l'ascoltano essi stessi. «I cattivi discorsi corrompono i costumi virtuosi. State all'erta, voi giusti, e non peccate» (I Cor 15, 33-34); e un salmo ci esorta alla continua meditazione della legge di Dio, quale mezzo validissimo per evitare di offenderlo (cf. Sal 118, 11). La dottrina [del Signore] infatti istruisce chi non sa («La tua parola è una lampada dinanzi ai miei piedi, una luce sui miei sentieri» (Sal 118, 105), e infervora il tiepido: «La parola del Signore lo infiammò» (176).

    Infine, sarà utile dedicarci alle pratiche che alimentano la pietà, come fanno i più progrediti [nella vita spirituale]. «Fate esperienza di quanto sia soave il Signore» (Sal 33, 9). Ne trarrà vantaggio l'anima, innanzi tutto: l'anima che desidera quei momenti di quiete, non meno che il corpo affaticato. E non c'è luogo in cui lo spirito si senta rinascere, meglio che accanto al Signore. «Sii per me un Dio protettore e un luogo in cui sentirmi al riparo» (Sal 30, 3). Resta in vigore [anche per noi cristiani] un giorno in cui poter riposare: chi partecipa del riposo di Dio, trova ristoro dalle proprie fatiche (cf. Eb 4, 9-10). Rientrati nella quiete dello spirito, ci riposeremo in compagnia della Sapienza (cf. Sap 8, 16).

    Prima però di poter giungere a questa pace, l'anima deve purificarsi da tre motivi d'inquietudine. Dal travaglio che è frutto del peccato («Il cuore dell'empio è simile a un mare in tempesta, che non riesce a calmarsi») (Is 57, 20); dalle passioni della carne, giacché «la carne ha desideri opposti a quelli dello spirito e lo spirito desideri contrari a quelli della carne» (Gal 5, 17); dalle occupazioni profane. «Marta, Marta tu t'inquieti e ti affanni per troppe cose» (Lc 10, 41).

    Dopo, sì, l'anima può, senza impacci, riposare in Dio, stare nell'intimità del suo Signore (cf. Is 58, 13-14).

    Ecco perché i santi hanno preferito sempre staccarsi da tutto: questa [pace dell'anima] è simile alla perla di gran valore, di cui parla Matteo: il mercante che ne ha scoperto l'esistenza si dà da fare, e investe in essa il suo capitale pur di entrarne in possesso (cf. Mt 13, 46).

    È [un anticipo del]la vita eterna, [del] gaudio interminabile. È il luogo del nostro riposo, dove abbiamo scelto di abitare per sempre (cf. Sal 131, 14). E che Dio ci accompagni!


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