. Al primo posto mettete la confessione e poi chiedete una direzione spirituale, se lo ritenete necessario. La realtà dei miei peccati deve venire come prima cosa. Per la maggior parte di noi vi è il pericolo di dimenticare di essere peccatori e che come peccatori dobbiamo andare alla confessione. Dobbiamo sentire il bisogno che il sangue prezioso di Cristo lavi i nostri peccati. Dobbiamo andare davanti a Dio e dirgli che siamo addolorati per tutto quello che abbiamo commesso, che può avergli recato offesa. (Beata Madre Teresa di Calcutta)
 
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San Tommaso d’Aquino

Ultimo Aggiornamento: 30/01/2015 12:15
30/01/2015 12:10

COMMENTO AL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI («CREDO»)
COMMENTO AL SIMBOLO DEGLI APOSTOLI

(«CREDO»)

 

Introduzione

 

   La prima cosa necessaria al cristiano è la fede. Senza di essa nessuno di noi potrebbe, lealmente, dirsi cristiano.

    Mediante la fede:

 

    I. l'anima si unisce a Dio, per quella sorta di matrimonio spirituale descritto da Osea: «Ti fidanzerò con me in un patto fedele» (Os 2, 22). Perciò nel battezzare una persona, le si chiede innanzi tutto che dichiari la propria fede: «Tu, credi in Dio?» Il Signore l'ha detto: «Chi crederà e sarà battezzato, conseguirà la salvezza» (Mc 16, 16), lasciando intendere chiaramente che il battesimo da solo, senza la fede, non giova. Nessuno, che si rifiuti di accettarne l'esistenza, può riuscire gradito a Dio, secondo l'insegnamento di Paolo (cf. Eb 11, 6). Agostino, commentando un passo della lettera ai Romani, scrive: «Dove manchi la conoscenza della Verità eterna e immutabile, risulterebbero inutili anche le virtù di un comportamento irreprensibile».

 

   2. La fede produce come un germoglio di vita eterna, la quale in sostanza altro non è che il conoscere [svelatamente] Dio (cf. Gv 17, 3). Quaggiù ne abbiamo una conoscenza iniziale mediante la fede, ma in futuro diverrà perfetta, e conosceremo Dio nella sua realtà. La fede, cioè, sta alla base delle realtà divine in cui speriamo (cf. Eb 11, 1). Sicché, nessuno potrà giungere alla beatitudine derivante da una piena conoscenza di Dio, se prima non ne accoglie l'esistenza per mezzo della fede (35).

 

    3. Essa costituisce l'orientamento più sicuro nella vita. Per poter vivère rettamente è necessario conoscere le regole fondamentali della rettitudine; ma se per apprenderle l'uomo dovesse affidarsi alla pura riflessione, non vi giungerebbe mai o soltanto dopo lunghissimo tempo. La fede invece ci insegna tutto questo, rassicurandoci sull'esistenza di un Dio che premia gli onesti e punisce i disonesti, nonché sull'esistenza di una vita futura e altre simili verità, efficaci a orientare la vita dell'uomo verso il bene e a distoglierlo dal male; «il giusto - infatti - vivrà ispirandosi alla fede» (Ab 2, 4).

    Ciò trova conferma nel fatto che prima dell'avvento di Cristo, basandosi sul proprio ingegno - elevatissimo quanto si voglia -, nessun sapiente giunse a conoscere intorno a Dio e ai mezzi atti a conseguire la vita eterna tanta certezza quanta ne possiede una vecchierella cristiana, in forza appunto della sua fede. Dopo l'avvento del Signore si realizza quanto profetizzato da Isaia, che cioè Dio si è reso conoscibile per tutta l'estensione della terra (cf. Is II, 9).

    Inoltre, mediante la fede superiamo agevolmente le tentazioni. Non di rado i santi hanno vinto il contrasto coi potenti del mondo, grazie alla loro fede (cf. Eb II, 33). Sappiamo che qualunque tentazione proviene dal diavolo o dal mondo o dalla sensualità (36). Satana vorrebbe indurre l'uomo a non sottomettersi, disubbidendo ai precetti di Dio. La fede, al contrario, ci riconferma che egli è il sovrano Signore, cui è saggezza ubbidire. «Il vostro avversario, il diavolo - ci avverte san Pietro - si aggira come un leone alla ricerca di qualcuno da divorare. Voi resistetegli, saldi nella fede» (I Pt 5, 8).

    Il mondo ci tenta allettandoci con le prosperità, oppure spaventandoci col timore delle tribolazioni. Anche stavolta possiamo vincere grazie alla fede, la quale ci addita un'esistenza migliore di questa, e così possiamo superare i pericoli nascosti nelle fortune e nelle disgrazie mondane. «La vittoria che trionfa su questo mondo è la nostra fede!» (I Gv 5, 4.). E in più, essa ci illumina circa disgrazie anche maggiori, cioè l'inferno, che è il peggiore dei mali.

    La carne, infine, ci tenta invitandoci ai piaceri transitori della vita terrena; e ancora una volta la fede ci trae in salvo mostrandoci come, se ci attaccassimo a essi indebitamente, potremmo perdere le eterne gioie del cielo. L'utilità della fede è quindi evidente.  

    Taluno può giudicare una stoltezza la fede, il credere cioè in qualcosa che non cade sotto l'esperienza dei sensi. È un dubbio inconsistente, se appena cominciamo a considerare i limiti dell'intelletto umano. Nel caso potessimo davvero conoscere perfettamente tutte le cose visibili e invisibili, allora sarebbe un'autentica stoltezza accettarle per pura fede. Purtroppo, però, la nostra mente è tanto debole che mai alcun filosofo è riuscito a sondare sino in fondo la natura d'una semplice mosca: vi fu ad esempio uno studioso che rimase isolato dal resto del mondo, per trent'anni, a investigare sulle abitudini delle api...

   Quindi, se l'intelletto è così debole, non sarebbe stoltezza da parte nostra, nell'investigazione di un soggetto altissimo quale è Dio, volerci fermare a quelle elementari nozioni che la ragione giunge a farsi in proposito? Si tratta niente meno di quel Dio «così grande da restar misterioso di fronte a ogni nostra investigazione, come pure è impossibile contare gli anni della sua eternità» (Gb 36, 26).

   All'obiezione si può rispondere anche in quest'altro modo. Mettiamo che un maestro, competente nella propria materia, venga contestato da un profano; deve trattarsi, dirà chiunque, di persona di poco senno. Ebbene, dato che l'intelletto angelico supera di gran lunga l'intelligenza del più acuto filosofo (assai più di quanto il maestro di cui abbiam parlato non superi la limitata capacità d'intendere di un ignorante), sarebbe ben poco savio colui che negasse credito a una verità recatagli da un angelo, e molto più, dunque, se non volesse credere al Dio che si rivela. Di fatto, la fede ci manifesta parecchie cose al di sopra della pura ragione umana (37).

   Se del resto qualcuno volesse ostinarsi ad accogliere esclusivamente ciò di cui ha diretta esperienza, un tale uomo potrebbe vivere in questo mondo? Come campare senza fidarsi dell'altrui esperienza? Chi, per esempio, potrebbe essere certo di esser figlio dell'uomo che si dice suo padre?

   Quindi è necessario che ognuno presti fede agli altri, là dove la personale conoscenza non arriva. E soprattutto dobbiamo fidarci di Dio, credibile più di ogni altro. Perciò l'uomo che respinge le verità rivelate non si dimostra intelligente, bensì sciocco e orgoglioso (cf. 1 Tm 6, 4); mentre chiunque si fida di Dio e lo onora con il debito ossequio, sperimenta una certezza incrollabile (38).

    E si può ancora aggiungere che Dio non manca di avallare l'autenticità delle verità di fede. Quando un re invia delle lettere contrassegnate col proprio sigillo, nessuno può metterne in dubbio l'autenticità. Altrettanto possiamo dire a proposito del nostro assunto: le verità di fede che i santi hanno creduto e poi tramandato fino a noi risultano autenticate da quel sigillo di Dio che sono i miracoli (ben al di sopra della portata delle semplici creature), coi quali Cristo ha convalidato l'insegnamento degli agiografi e degli apostoli (39).

    Che se tu volessi insistere, che i miracoli stessi sfuggono alla diretta esperienza della maggior parte degli uomini, ti risponderò: la storia - comprese le fonti pagane - ci insegna che l'intera umanità credeva negli idoli mentre la fede di Cristo veniva combattuta. Ma da un certo periodo in poi il mondo prese a convertirsi al vangelo. Sapienti, nobili, ricchi, personaggi celebri e autorevoli si convertono nell'ascolto di pochi, semplici e poveri predicatori evangelici.

    Ebbene, o questo è un fatto miracoloso, oppure no. Nel primo caso, eccoti la dimostrazione che cercavi. Se tu invece negassi ancora, ti farò notare che un miracolo più prodigioso di questo è addirittura inimmaginabile: che il mondo si sia potuto, senza intervento divino, convertire a Cristo. Mi pare abbastanza chiaro.

    Concludendo: nessuno può ragionevolmente dubitare delle verità rivelate e, anzi, deve crederle più di ciò che percepisce attraverso i sensi. La vista, ad esempio, può ingannarsi, mentre la sapienza di Dio è assolutamente infallibile.

 

 

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra

 

    Si tratta della verità fondamentale. Considerando cosa significhi la parola Dio, possiamo dire che essa indica colui che assegna una finalità alle sue creature, e le provvede dei mezzi atti a conseguirla. Quindi crede davvero in Dio colui che è convinto della sua opera sapiente e provvidenziale.

    Non crede in Dio, invece, chi pretendesse di far derivare le creature dal caso. È quasi impossibile amméttere che taluno neghi l'esistenza di un ordine nel creato, in cui ogni cosa appare indirizzata verso un preciso fine: sono di comune esperienza numerosi cicli naturali, tra cui il ritorno delle stagioni; vediamo sorgere e tramontare il sole, e la luna e le stelle percorrono orbite di assoluta precisione. Dunque, esattamente il contrario del caso. Se qualcuno perciò fosse davvero convinto che Dio non esiste, deve trattarsi di uno stolto (cf. Sal 13. 1).

    Vi sono altri che, pur ammettendo l'azione finalizzatrice di Dio sopra il resto della natura, la escludono per quanto riguarda l'uomo; le umane vicende sarebbero per costoro, al di fuori di ogni intervento divino. A sostegno della loro tesi adducono il fatto che in questo mondo [spesso] i buoni sono afflitti, mentre i malvagi prosperano; il che dimostrerebbe che la divinità non si occupa di noi. La Scrittura riferisce le parole di uno di tali increduli: «Che cosa può conoscere Iddio? Può forse giudicare [le nostre cose] attraverso la caligine? Le nubi gli fanno velo, quindi egli non vede in giù. Così, egli se ne va a passeggio per la cerchia dei cieli!» (Gb 22, 13-14).

    Ma questa è una vera sciocchezza. I loro giudizi sono simili a quelli di chi, vedendo un medico somministrare, in base ai dettami dell'arte medica (che essi ignorano), acqua a un infermo e vino a un altro, concludono che deve trattarsi di una terapia cervellotica e di un procedere a caso.

    Dio, paragonabile a un medico esperto, per quelle giuste cause che egli conosce, dispone quanto ritiene sia meglio per l'uomo, lasciando alcuni buoni nell'afflizione e altri, peccatori, nella loro prosperità. Pensare che ciò denoti disinteresse da parte di Dio è, ripeto, stoltezza e presunzione d'una creatura che pretende di dar consigli al Creatore. Contro costoro si legge in un salmo: «Van dicendo: 'Il Signore non vede' (...) Cercate di comprendere, stolti più di chiunque altro! O insensati, quando imparerete? Chi ha formato gli orecchi non udrà? chi ha plasmato gli occhi, non vedrà?» (Sal 93, 7-9).

    Dio vede tutto, non esclusi i pensieri e i desideri più inconfessati. Ne deriva per noi una vigile necessità di ben fare, dal momento che ogni cosa umana non ha misteri per lo sguardo di Dio. «Tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui al quale dobbiamo render conto» (Eb 4, 13).

    Ne segue poi che questo Dio, che dispone [ordinatamente] e governa l'universo, debba essere unico, l'unico possibile; anche per la ragione che tra miriadi di esseri l'ordine è perfetto quando i medesimi siano governati da una sola mente in grado di farlo. La molteplicità dei governanti spesso induce il disordine tra i sudditi. Dunque, essendo infinitamente superiore a qualunque regime escogitato dagli uomini, è chiaro che l'ordine riscontrabile nel cosmo non può dipendere da un collegio di dèi, ma da un'unica divina intelligenza: Dio.

    I motivi che inducono a credenze politeiste sono diversi.

 

    I. La limitatezza della mente umana. Non riuscendo a varcare i confini del mondo materiale, gli uomini primitivi non sospettarono neppure l'esistenza di altre realtà all'infuori dei corpi sensibili. E tra questi supposero che i più preziosi e nobili esercitassero svariati influssi sul creato. Giunsero a rendere loro culti di adorazione, come ad esempio nel caso del sole e d'altri corpi celesti.

    A costoro accadeva un po' ciò che si narra di quel sempliciotto che, entrato nella reggia per vedere il sovrano, credette di trovarsi appunto in presenza del re non appena si imbatté nel primo funzionario di passaggio, decorosamente vestito. Il sole, la luna e le costellazioni stellari non sono, come erroneamente fu creduto, i governatori di questo mondo (cf. Sap 13, 2). «Uomini, ci esorta la Scrittura, alzate gli occhi al cielo e guardate in basso la terra: i cieli svaniranno come fumo, la terra si consumerà come una veste [divorata dalle tignole], e i suoi abitanti periranno come le mosche; la mia salvezza invece [dice il Signore] dura in eterno e la mia giustizia non potrà mai esaurirsi» (Is 51, 6).

 

    2. Anche l'adulazione può aver avuto il suo peso. Volendo lusingare un padrone o il proprio sovrano, taluni resero loro quell'onore che dev'essere tributato a Dio; così li ubbidirono ciecamente, si dichiararono loro schiavi e, col sopraggiungere della morte, elevarono un uomo al rango degli dèi, se già non lo avevan fatto ancor prima, mentre era in vita. Servano ad esempio in tal senso le parole di Oloferne: «Chi è dio se non Nabucodonosor? Egli manderà le sue forze e li disperderà dalla faccia della terra (...) e non li scamperà il loro Dio!» (Gdt 5, 29).

 

    3. Un affetto troppo carnale verso i figli. o i parenti produce una sorta di idolatria. Non è mancato chi dedicasse loro delle statue, con una liturgia pseudodivina: «Imposero l'incomunicabile Nome alle pietre e al legno» (40).

 

    4. La malizia del diavolo di sicuro non rimase inattiva. Colui, infatti, che dal principio ambì d'equipararsi al suo Creatore dicendo: «Sormonterò l'altezza delle nubi, sarò simile all'Altissimo» (Is 14, 14), non desistette neanche dopo [il castigo]. Egli fa di tutto per essere adorato dagli uomini e ottenerne offerte sacrificali. Non sa che farsene di un cane o di un gatto che vengono immolati in suo onore, ma gode di vedersi oggetto di quella riverenza che è dovuta a Dio. Giunse a proporre al Cristo l'offerta di tutti i regni del mondo nella loro splendida magnificenza se, prostrato a terra-, lo avesse adorato (cf. Mt 4, 9). Per meglio ingannare gli uomini e conseguire il culto cui ambivano, i demoni presero ad abitare gli idoli, emettendo oracoli.

    È qualcosa d'orribile l'idolatria, [celandosi dietro a essa il nemico di Dio], eppure non sono pochi quelli che, per una ragione o per l'altra, vi aderiscono. Anche se non lo confessano apertamente e non ne sono coscienti, tuttavia lo danno a vedere con il loro comportamento.

    Quanti ad esempio pensano che gli astri siano in grado di influenzare le decisione umane, o li consultano nella speranza di ottenere risultati felici in base agli oroscopi, costoro deificano praticamente i corpi celesti, come quelli che costruiscono gli astrolabi (41). Il timore di fronte a prodigi celesti, quali i fenomeni naturali, devono indurre a un moderato timore, mentre i pagani, attribuendoli a inesistenti divinità, se ne spaventano oltremisura (cf. Ger 10, 2).

    Chi ubbidisce al sovrano più che a Dio, o in qualcosa che contrasta coi divini comandamenti, anche costui professa una forma di idolatria; e gli Atti degli Apostoli perciò ci ricordano che «bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5, 29).

    Chi predilige, al di sopra di Dio, i consanguinei o, peggio ancora, chi smodatamente ama il cibo, anche costoro praticamente hanno i loro idoli personali. Di questi ultimi, scrivendo ai Filippesi, san Paolo dice che «loro dio è il ventre» (Fil 3, 19).

    Le persone che si occupano di filtri e incantesimi attribuiscono ai demoni prerogative divine: chiedono infatti agli spiriti del male determinati responsi che solo Dio può dare, quali la rivelazione di cose nascoste o di avvenimenti futuri.

    Tutto ciò, allo scopo di ribadire che esiste un unico Dio, cui competono le suddette prerogative.

    Chiarito che vi è un solo Dio, passiamo ora a mostrare come egli sia il creatore e l'organizzatore del cielo e della terra, delle realtà visibili e di quelle invisibili.

    Lasciando da parte le dimostrazioni sottili, porterò qualche esempio elementare. A colui che prende a considerare la realtà di questo mondo succede un po' come a chi, entrando in una casa, sentisse un certo grado di calore che vada aumentando col procedere verso le stanze più interne. Anche senza vedere la fonte da cui emana il calore, egli dirà che deve esservi un fuoco acceso.

    Così, nell'universo vediamo che le cose sono ordinate secondo una scala di valori, come bellezza e nobiltà intrinseche (42). Le più elevate sono anche le più belle e nobili, e i corpi celesti sorpassano per dignità quelli terreni, allo stesso modo che le sostanze spirituali sopravvanzano quelle percepite dai sensi. Perciò è ragionevole concludere che l'insieme del creato dipenda da un unico. Dio, il quale dà alle singole creature l'essere e un grado determinato di nobiltà. Stolti, dunque, son quegli uomini «che ignorano Dio, e dai beni che si vedono non han saputo risalire a colui che è: anzi, pur mirando le sue opere, non ne riconobbero l'artefice ma credettero dèi, governatori del mondo, il fuoco o il vento o l'aria veloce, o il firmamento stellato o le acque violente o gli astri del cielo. Se li ritennero dèi perché attratti dalla loro bellezza, cerchino di capire quanto più meraviglioso dev'essere il Signore di quelle cose: chi le creò è l'autore della stessa bellezza. Se poi li ha colpiti l'energia che da esse sprigiona, comprendano quanto più potente è colui che le ha fatte; poiché la grandezza e la bellezza delle creature svelano alla ragione, per riflesso, l'identità del loro autore» (Sap 13, 1-5).

    Nessun dubbio dunque per noi, che Dio sia l'autore dell'intero universo.

 

Tre errori da evitare in proposito.

 

    I. Quello dei manichei, per i quali il creato visibile è opera del diavolo, mentre a Dio andrebbe attribuita esclusivamente la creazione degli esseri spirituali. Partivano da una verità: se Dio è il sommo bene (e lo è in effetti), tutto quanto da lui deriva dovrebbe somigliare a lui. Di qui, con una logica grossolana, deducevano che quelle cose che in qualche modo si rivelino difettose o causa di un male contingente, fossero decisamente cattive e opera del maligno. Perfino il fuoco, per essi, era cattivo perché brucia, o l'acqua in cui uno può affogare, e via dicendo. Ora, non esistendo al mondo nulla che possa dirsi perfettamente buono, ne conclusero che l'insieme delle realtà visibili dovesse trarre origine non da Dio, bontà per essenza, bensì dallo spirito del male.

    Agostino ribatte con l'esempio seguente. Entrando nell'officina d'un artigiano qualcuno inciampa contro un arnese e si fa del male: se concludesse che deve trattarsi senz'altro di un'arma destinata a ferire, ragionerebbe da stolto, dal momento che l'artigiano l'adopera esclusivamente per il proprio lavoro. Altrettanto sciocco è il dedurre, dal fatto che possono nuocere in determinate circostanze, che le creature siano intrinsecamente malvagie e ordinate al male. La medesima cosa infatti che può nuocere ad uno, può giovare ad altri.

    Un simile errore è contrario alla dottrina della Chiesa. Perciò nel Credo si legge che Dio è creatore di tutte le cose: «delle creature visibili e di quelle invisibili». Dio ha creato il cielo e la terra: tutto è stato fatto mediante il suo Verbo (43).

 

    2. Il secondo errore, di quelli che sostengono l'eternità del mondo, deriva dalla difficoltà di intenderne rettamente l'origine. Riferendosi a codesta opinione, l'apostolo Pietro così scrive: «Da quando i padri [cui venne fatta la rivelazione] sono morti, tutto è rimasto com'era fin dal principio della creazione» (2 Pt 3, 4). E Rabbi Moyses dice che a costoro succede come a un bambino che venisse relegato, subito dopo la nascita, in un'isola [deserta]. Non avendo veduto mai una donna incinta né sapendo nulla circa le modalità del parto, se da grande gli venisse detto che egli stesso, un tempo, era stato concepito e nutrito nel grembo di sua madre, egli si rifiuterebbe di ammettere che un adulto come lui potesse esservi contenuto. Così costoro, vedendo lo stato attuale del mondo, non riescono a immaginarne il principio.

    Anche questo è un errore contro la fede cattolica. Abbiamo perciò, nel Credo: «Creatore del cielo e della terra». Se le creature sono state fatte, è lo stesso che dire ch'ebbero un inizio. A un cenno del Signore cominciarono a esistere (cf. Sal 148, 5).

 

    3. Secondo altri, Dio avrebbe formato il mondo partendo da una materia preesistente. Vorrebbero farsi un'idea della divina potenza paragonandola alla nostra. Noi, infatti, non possiamo far nulla senza una materia su cui agire; e lo stesso affermano di Dio: creò il mondo servendosi di una materia predisposta.

    È un errore. L'uomo sì, essendo un agente di limitata potenza, può solo modificare la forma della materia su cui agisce. Dio però è causa totale, in grado di creare tanto la materia quanto la forma della medesima. Dunque ha fatto tutto, dal nulla, il «creatore del cielo e della terra».

    Creare e fare non sono sinonimi: nel primo caso si tratta di un chiamare all'esistenza partendo dal nulla, mentre il secondo verbo indica le molteplici modificazioni operate sulla materia.

    E se Dio ha fatto il tutto dal nulla, è credibile che potrebbe rifare ogni cosa, se questo mondo cessasse di esistere; e può dare a un cieco la capacità di vedere della quale era privo, nuova vita a un cadavere e fare miracoli di ogni genere. «Signore, (...) nelle tue mani sta il potere e puoi usarlo quando tu vuoi» (Sap 12, 18).

    Ne derivano alcune conclusioni. L'uomo viene orientato verso la conoscenza di un Dio maestoso. Un autore emerge sempre rispetto alle proprie opere, e Dio che abbiamo chiamato «creatore dell'universo» risulta infinitamente più grande delle sue creature. La grandiosità e la bellezza delle opere divine non sono altro che un pallido riflesso del Creatore (cf. Sap 13, 3-4). Qualunque cosa noi possiamo concepire o fantasticare, resterà sempre inferiore alla realtà di Dio. Giobbe esclama con ragione: «Ecco, Dio è così grande che non possiamo adeguatamente comprenderlo... L'Onnipotente, del quale non possiamo penetrare la forza, la rettitudine, la giustizia!» (Gb 36, 26; cf. ib. 37, 23).

    La nostra gratitudine riceve, dal considerare quanto detto finora, continuo impulso: è evidente che tutto ciò che siamo o abbiamo, ci viene da Dio. Alla domanda rivolta all'uomo da san Paolo: «Che cos'hai, tu, che non l'abbia ricevuta da Dio?» (I Cor 4, 7) risponde il salmista: «Del Signore è la terra con quanto essa racchiude: il mondo e i suoi abitatori» (Sal 23, 1). Quindi dobbiamo ringraziarlo, chiedendoci continuamente: «Che posso io rendere al Signore, per tutti i benefici che da lui ho ricevuto?» (Sal 115, 12).

    Anche la pazienza nelle avversità ne risulta accresciuta. Ogni creatura ha origine dal volere di Dio, perciò è intrinsecamente buona: se essa ci è causa di qualche danno o sofferenza, dobbiamo escludere che voglia farci del male, colui che È; è esente dal male in assoluto, e credere piuttosto che quanto egli permette sia sempre ordinato al bene. Dobbiamo sopportare con pazienza ogni pena, in quanto esse hanno il potere di purificare l'uomo dai peccati, umiliano il colpevole, spingono i retti a un più vivo amore di Dio. «Se da Dio si accetta il bene, il male [che egli permette in ordine ai suoi fini provvidenziali] perché non dovremmo accettarlo?» (Gb 2, 10).

    Una retta conoscenza di Dio ci induce a usare debitamente delle cose create, in linea con il fine inteso dal Creatore: la sua stessa gloria e il nostro vantaggio (cf. Prv 16, 4; cf. Dt 4, 19). In altre parole, dobbiamo servirci dei beni creati in maniera da non contrastare la sua volontà, evitando di macchiarci col peccato, qualora li indirizzassimo verso fini diversi dai suoi. Qualunque cosa tu possieda - dalla scienza alla bellezza, tu devi riconoscerla da lui, e servirtene per rendergli gloria (cf. I Cr 29, 14).

    Infine, la conoscenza di Dio, quale Padre e creatore dell'universo, ci guida verso una maggior conoscenza dell'umana dignità. Difatti la creazione venne ordinata a quella creatura che, dopo gli angeli, più è simile a Dio: l'uomo. A lui affidò il dominio del creato (cf. Sal 8, 8). Non fece a sua immagine, secondo la propria somiglianza (cf. Gn I, 26) gli spazi siderali o i corpi celesti, bensì l'uomo allorché la nostra anima fu dotata di libera volontà, ed è immortale. Ciò ci rassomiglia più di qualunque altra creatura alla divina essenza.

    L'uomo perciò va considerato come la creatura maggiormente elevata in dignità, dopo l'angelo. Dobbiamo far sì che i desideri immoderati verso beni a noi inferiori non degràdino questa dignità. Le creature sono al nostro servizio, ma occorre servirsene ragionevolmente, conforme ai fini stabiliti da Dio.

    Egli fece l'uomo affinché governasse il creato ma restasse a lui soggetto. Dobbiamo quindi disporre dei beni creati rimanendo però sottomessi al Creatore, pronti a ubbidirgli sollecitamente. Arriveremo in tal modo al godimento di Dio.

 

 

[Credo] in Gesù Cristo, suo unico Figlio e Signore nostro

 

    La seconda verità di base cui i cristiani devono prestare fede è questa: Gesù è vero figlio di Dio. Non si tratta di leggenda ma di verità certa, garantita dalla voce che risuonò sul monte [della trasfigurazione]. Ne è testimone lo stesso Pietro, trovatosi presente: «Siamo stati testimoni della sua maestà. Lassù [Cristo] ha ricevuto da Dio Padre onore e gloria, quando tra il glorioso splendore gli fece udire una voce, che diceva: «Questi è il mio Figlio diletto, in cui ho riposto tutta la mia compiacenza. E noi l'abbiamo udita questa voce che veniva dal cielo, quando eravamo con lui sulla montagna santa, sicché acquista per noi una forza ancor maggiore la parola dei profeti» (2 Pt I, 16-19).

    Gesù stesso, in diversi passi del Vangelo chiama Dio «Padre mio», e si definisce «Figlio di Dio», cosicché gli apostoli e i santi padri poterono aggiungere tra gli articoli di fede che Gesù Cristo è vero Figlio di Dio.

    Non mancarono gli eretici, che intesero erroneamente questa verità.

    Fotino (44) asseriva che il Cristo può esser considerato figlio di Dio non diversamente da un qualunque uomo virtuoso che, vivendo secondo i precetti divini, si comporta (per dirla con espressione metaforica) da figlio adottivo di quel Dio che egli onora. Così avrebbe fatto Gesù: vivendo santamente in ossequio alla volontà divina, meritò l'appellativo di «figlio di Dio». Di più, Fotino sostenne che il Cristo ebbe esistenza solo nel momento in cui venne concepito dalla beata Vergine.

    Il suo ragionamento pecca doppiamente. Per prima cosa egli erra nel non credere che Gesù sia Figlio di Dio, consostanziale col Padre; poi nell'attribuirgli un'esistenza puramente temporale. La dottrina cattolica insegna invece che Cristo è Figlio di Dio in forza della comunione nella divina natura, e professa la fede nell'eternità del Verbo che si incarna in Maria. La sacra Scrittura smentisce ampiamente le gratuite asserzioni di questo eretico. Ad esempio, leggiamo del Cristo che non solo è figlio, ma figlio unigenito del Padre (cf. Gv 1, 18). Gesù afferma di sé stesso: «Prima che Abramo nascesse, io già esistevo» (Gv 8, 58). Abramo visse assai prima di Maria. Egli è perciò «figlio unigenito di Dio; nato dal Padre prima di tutti i secoli».

    Sabellio (45), pur ammettendo che Cristo preesisteva a sua madre, sostenne tuttavia che non ci sono un Padre e un Figlio. È il Padre in persona a incarnarsi. Dottrina ereticale, che intacca il dogma della Trinità, esplicito ad esempio nel Vangelo di Giovanni: «Non sono solo - afferma Gesù - perché con me ho il Padre, che mi ha inviato [mediante l'opera dello Spirito]» (Gv 8, 16). Nessuno evidentemente può inviare se stesso. Sabellio, quindi, ha torto. Nel Credo leggiamo così che Cristo è «Dio [proveniente] da Dio; Luce da Luce»: cioè, Dio Figlio procede da Dio Padre, e il Verbo è luce intellettiva derivante dal lume divino che è il Padre.

    Ario (46) non commette gli errori precedenti, però attribuisce a Cristo tre elementi inaccettabili: egli sarebbe una creatura quanto si voglia nobilissima, esistente non ab aeterno; e non avendo la medesima natura del Padre, non potrebbe dirsi vero Dio.

    Anche qui le autorità scritturistiche parlano chiaro. «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 30); evidente perciò l'unità di natura tra le persone divine. E come il Padre è vero Dio, altrettanto lo è il Figlio. Non creatura, ma «Dio vero da Dio vero»; non creato nel tempo, bensì «generato» nell'eternità e «della stessa sostanza del Padre».

    Siamo convinti che Cristo è il Figlio unigenito del Padre, a lui consostanziale e coeterno. Quaggiù noi professiamo queste verità mediante l'atto di fede; nella vita eterna ne avremo la chiara visione. Intanto possiamo render più confortevole l'attesa sviluppando qualcuno dei punti sopra accennati.

    Il termine generazione può avere diversi sensi: Dio infatti genera in modo assai diverso dai modi in cui si esplica il molteplice riprodursi delle creature. Orbene, se vogliamo farci un'idea meno impropria della divina azione generante, prendiamo in considerazione quella realtà che, nel campo della nostra esperienza, più si avvicina all'essere di Dio. Dobbiamo cioè partire dall'anima umana, la quale, mediante i suoi concetti universaliconcepisce appunto, o genera, un verbum ossia la parola dell'intelletto.

     Il Figlio di Dio altro non è che il Verbo, la Parola del Padre, non nel senso di una delle nostre parole che pronunziandole situiamo al di fuori di noi stessi. Egli è piuttosto somigliante al concetto mentale che resta interiorizzato nell'intelligenza. Il Cristo è Verbo intimo alla Trinità, della medesima natura del Padre e dunque Dio egli stesso. Nel prologo del suo Vangelo, parlandoci del Verbo, san Giovanni respinge con un'unica espressione le tre eresie fin qui esaminate: «In principio era il Verbo», contro quella di Fotino; «e il Verbo era presso Dio», contro Sabellio; «e il Verbo era Dio», contro la dottrina di Ario (Gv I, 1).

    Essendo il Verbum Dei la medesima realtà che il Figlio di Dio - e ogni parola di Dio ne riflette in qualche modo l'infinita ricchezza -, dobbiamo:

    1) ascoltarne volentieri il messaggio. È segno che amiamo il Signore;

    2) credere a quanto egli dice. In tal modo il Verbo di Dio prende dimora in noi, attraverso la fede (cf. Ef 3, 17);

    3) meditare continuamente sulle parole uscite dalla bocca di Dio. Diversamente la fede non produrrebbe i suoi frutti; e una tale meditazione è assai efficace contro il peccato, seguendo l'esempio del salmista che scrive: «Custodisco nell'intimo le tue parole per non peccare e offenderti» (Sal 118, 11), mentre in altro salmo è detto dell'uomo giusto che «medita la legge di Dio giorno e notte» (Sal I, 2). Di Maria, infine, narra san Luca che «conservava ogni parola udita [sul conto del Figlio], meditandola attentamente» (Lc 2, 51).

    4) Si richiede inoltre che l'uomo, nutritosi della divina dottrina, la comunichi anche agli altri, ammonendo o predicando con fervore, per l'edificazione del prossimo (cf. Col 3, 16). Il medesimo apostolo raccomandava, scrivendo ai cristiani di Colosse: «La parola di Cristo coi suoi tesori abiti in voi; istruitevi ed esortatevi a vicenda con tutta saggezza (...), secondo che la grazia v'ispira» (Col 3, 16), mentre a Timoteo dà un consiglio valido per chiunque sia preposto al governo dei suoi fratelli in Cristo: «Predica il vangelo, insisti a tempo e fuori tempo, riprendi, minaccia, esorta, sempre con pazienza e integrità di dottrina» (2 Tm 4, 29).

    5) La Parola di Dio dev'esser principalmente tradotta in pratica, sì da non meritare il rimprovero di Giacomo: «Non vi limitate ad ascoltarla, ingannando voi stessi» (Gc I, 22).

    Nel dare dalla propria carne un corpo al Verbo divino, la beata Vergine Maria adempì tutto ciò perfettamente. L'ascolto della Parola [di cui l'angelo è messaggero]: «Lo Spirito Santo verrà su di te, la potenza dell'Altissimo ti coprirà della sua ombra» (Lc I, 35). Il consenso della fede: «Eccomi, sono l'ancella del Signore» (Lc I, 38). Essa lo andò formando e custodì nel grembo. Lo diede alla luce. Lo nutrì col suo latte. La Chiesa può cantare di lei: «Colma di celesti tesori, la Vergine Madre allatta il re degli angeli».

 

 


30/01/2015 12:12

Fu concepito per opera dello Spirito Santo. Nacque da Maria Vergine

 

    Occorre credere poi nell'incarnazione del Verbo, seguendo l'evangelista Giovanni che, dopo averci rivelato [nel prologo del quarto Vangelo] verità ardue e sublimi, passa ad accennare all'incarnazione del Figlio di Dio: «E il Verbo si è fatto uomo» (Gv I, 14).

    Per meglio intenderci, porteremo due esempi. Abbiam detto che non è possibile trovare un'altra immagine atta a rappresentarci il Verbo del Padre, all'infuori del pensiero concepito dalla mente umana. Nessuno può conoscerlo finché esso rimanga racchiuso nell'anima di colui che l'ha pensato. Proferendolo, egli lo comunica all'intorno. Analogamente, fino a quando il Verbo rimase nella mente del Padre, nessun altro oltre al Padre poté conoscerlo. Incarnandosi (come accade al nostro pensiero, reso sensibile non appena si riveste di suoni intelligibili), il Verbo divino divenne manifesto anche per gli uomini. Simile alla sapienza creatrice di cui parla il profeta Baruc, il Verbo [incarnato] «apparve sopra la terra. e abitò in mezzo agli uomini» (Bar 3, 38).

    Altro esempio. Possiamo conoscere l'altrui pensiero mediante la parola captata dall'organo dell'udito, ma non la si può, però, né vedere né tanto meno toccare, finché non venga scritta sopra una pagina: allora appare ai nostri occhi, assume una qual certa consistenza fisica.

    Così il Verbo divino si rese visibile e tangibile, quando fu come scritto nella umana carne. Noi, che usiamo chiamare parola del re la carta stessa su cui è stilato il suo volere, indichiamo col nome di Figlio di Dio l'uomo cui ipostaticamente (47) venne a unirsi il Verbo. Nel Credo perciò si afferma che egli fu «concepito per opera dello Spirito Santo, nacque da Maria Vergine».

    Anche su questa verità di fede furono in molti a errare; sicché nel sinodo di Nicea (48) i padri [della Chiesa] aggiunsero varie precisazioni contro le nuove eresie, come si può vedere nell'antica formulazione dogmatica.

    Origene (49), infatti, insegnava che Cristo era venuto al mondo per salvare tutti, compresi i demoni. Alla fine avrebbero conseguito la redenzione gli stessi spiriti del male. Il che è contro la Scrittura, la quale registra a loro riguardo la sentenza di Cristo giudice: «Andate lontano da me, voi maledetti, nel fuoco eterno preparato per il diavolo e i suoi sostenitori» (Mt 25, 41). Di qui l'aggiunta, nel Simbolo: «[Il Verbo si è incarnato] per noi uomini, per la nostra salvezza (non già per quella dei demoni)». Un segno di più dell'amore che Dio ha voluto riservarci.

    Fotino (50), concesso che Cristo era nato da Maria, ne faceva un semplice uomo che, vivendo rettamente nell'adempimento della divina volontà, meritò d'essere elevato al rango di figlio di Dio, come del resto gli altri santi. Trova però smentita nelle parole di Gesù riportateci da Giovanni: «Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38). Se ne è discéso, è segno che vi si trovava, e un comune mortale non abita nei cieli. Egli invece veramente «discese dal cielo».

    I manichei (51) sostenevano che, pur essendo stato sempre Figlio di Dio, venendo sulla terra egli non assunse un corpo reale, ma solo apparente. Ciò è falso, anche perché non era conveniente che il Maestro della verità ricorresse agli inganni, ma soprattutto se consideriamo le parole di Gesù [e la conseguente testimonianza degli apostoli]: «Guardate le mie mani e i miei piedi: son proprio io. Palpatemi e osservatemi: uno spirito infatti non ha carne e le ossa come vedete che ho io» (Lc 24, 39). Esatta, quindi, la formulazione: «Il Verbo si è incarnato».

     Ebione (52) l'ebreo disse che il Cristo, vero figlio di Maria, sarebbe il risultato di un normale rapporto coniugale. Ma l'angelo, rassicurando Giuseppe, dice esplicitamente: «Non temere di prendere con te Maria, tua fidanzata, perché colui che in lei è stato concepito è opera dello. Spirito Santo» (Mt I, 20). E il Credo annota fedelmente tale verità.

    Valentino ammette che il Cristo fu concepito secondo le parole dell'angelo, ma suppose che l'opera dello Spirito Santo fosse consistita nel deporre nel grembo di Maria quella medesima [nobile] sostanza che costituisce le emanazioni celesti (53), da cui ebbe origine il corpo umano del Cristo. La Vergine fu, per quest'eretico, null'altro che l'asilo vivente che protesse il bambino nei mesi della gestazione, un puro tramite che gli permise di comparire tra noi. Eppure, ancora una volta l'angelo aveva parlato con chiarezza: «Il figlio che da te nascerà, il Santo, sarà detto 'Figlio di Dio'» (Lc I, 35), e altrettanto chiaro scrive san Paolo: «Trascorso che fu il numero dei secoli prestabiliti, Dio mandò suo Figlio, fatto da una donna» (Gal 4, 4). «Nato - perciò - da Maria Vergine».

    Ario (54) e Apollinare (55) dicevano: Cristo è il Verbo di Dio, Maria ne è veramente la madre, però quel figlio non ebbe un'anima propria, simile alla nostra, essendo sufficiente ad animarlo la divinità. Questa tesi va contro diversi passi della Scrittura. Ad esempio: «Adesso provo angoscia nell'anima!» (Gv 12, 27); oppure: «La mia anima è triste, quasi fino a morirne» (Mt 26, 38). A evitare eresie in proposito, i Padri aggiunsero nel Simbolo: «Si è fatto uomo», dotato d'un'anima e di un corpo, integralmente uomo, escluso il peccato.

    La formula in questione, circa la vera natura umana del Cristo, si è dimostrata valida anche contro gli errori di Eutiche (56) e quelli di Nestorio (57). Costui affermava che il Figlio di Dio inabitava semplicemente l'uomo Gesù (ma leggiamo nel vangelo di Giovanni, letteralmente: «Voi cercate di uccidere quest'uomo che sono io e v'ho detto una verità che ho conosciuto stando presso il Padre» (cf. Gv 8, 40). Il primo, cioè Eutiche, aveva fantasticato nella persona del Cristo una mescolanza delle due nature - quella divina e quella umana, da cui però sarebbe risultato un essere che, propriamente parlando, non era né Dio né uomo. Il Credo perciò sostiene che il Verbo si è fatto uomo.

    Possiamo ormai trarre alcune conclusioni di notevole importanza.

 

    I. La fede cristiana, considerando il mistero dell'incarnazione viene a essere rafforzata. Se qualcuno raccontasse meraviglie a proposito di terre sconosciute che mai ha visitato, gli daremmo credito fino a un certo punto. Qualcosa di simile accadde a proposito della rivelazione: patriarchi e profeti e lo stesso Giovanni Battista furon creduti con un certo margine di riserva, assai meno cioè di quanto non fu creduto il Cristo, l'inviato del Padre, anzi Dio egli medesimo. La nostra fede, basata sul messaggio di Gesù, ha quindi un ottimo fondamento. L'unigenito Figlio che vive nel seno del Padre ci ha fatto conoscere non la legge di Mosè ma la grazia e la verità (cf. Gv I, 18; 17). Egli ha illuminato molti misteri, fino allora nascosti al genere umano.

    2. La speranza si eleva più fiduciosa, al pensiero che il Figlio di Dio è venuto tra noi, come uno di noi, per un non lieve motivo: al contrario, assunti corpo e anima d'uomo, si degnò di nascere dalla Vergine per comunicare agli uomini la propria divinità. Si è fatto uomo per elevare l'uomo sino a Dio. «Mediante la fede in Gesù Cristo abbiamo ottenuto l'accesso a questa grazia in cui siamo, e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5, 2).

    3. Si ravviva la carità. Nessun indizio più evidente dell'amore che Dio ci serba, quanto il vedere il creatore dell'universo farsi egli stesso creatura, il Signore farsi nostro fratello, il Figlio di Dio diventare figlio dell'uomo. «Dio ha tanto amato il mondo da sacrificare il proprio Figlio unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16). Come possiamo restare indifferenti e non sentirci infiammati d'amore, a nostra volta?

    4. Siamo stimolati a preservare l'anima dal peccato. Essa acquistò una nobiltà somma dall'essere unita a Dio e, nella persona del Cristo, elevata alla comunione con la persona del Verbo. Comprendiamo così perché, avvenuta l'incarnazione, l'angelo non permise che Giovanni lo adorasse (58), mentre i messaggeri celesti erano soliti ricevere questa sorta di ossequio anche da parte dei massimi patriarchi.

    Considerando debitamente una simile elevazione, l'uomo deve avere in orrore di abbassarsi nel peccato. Scrive l'apostolo Pietro: «Dio Padre ci ha chiamati alla fede e (...) ci ha messo in possesso dei preziosi e magnifici beni promessi, affinché (...) diveniamo partecipi della natura divina fuggendo la corruzione che esiste nel mondo a causa della concupiscenza» (2 Pt I, 4).

     5. Infine, sentiremo infiammarsi il nostro desiderio di raggiungere Cristo [nella gloria]. Se il fratello di un re stesse lontano, certo bramerebbe di poter vivergli accanto. Ebbene, Cristo ci è fratello: dobbiamo quindi desiderare la sua compagnia, diventare un sol cuore con lui, imitando l'apostolo Paolo che avrebbe voluto morir subito per non tardare ulteriormente l'incontro col Signore (cf. Fil I, 23). Meditando sul mistero dell'incarnazione, s'accresce questo desiderio.

 

 

Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto

 

    Accolta la realtà dell'incarnazione del Verbo nella persona di Cristo, il cristiano deve credere alla sua vita sofferente, che si concluse con la morte [in croce]. Che cosa ci avrebbe giovato il nascere - si chiede san Gregorio -, se poi non avessimo trovato un redentore ?

    Questo mistero, che cioè Cristo sia morto per noi, è talmente sublime, che il nostro intelletto riesce a farsene appena una pallida idea. Impossibile penetrarlo sino in fondo! Davvero, nella vicenda del Cristo si è compiuta un'opera divina quasi incredibile a raccontarsi (cf. At 13, 41; Ab 1, 5). La gratuita carità di Dio nei nostri riguardi è stata così munifica, che stentiamo a percepirne la portata.

    Non dobbiamo tuttavia credere che, morendo il Cristo, sia morta la stessa divinità. Fu soggetta alla morte la natura umana unita al Verbo. Cristo morì in quanto uomo, non certo in quanto era Dio. Vediamo di spiegarci meglio.

    Quando muore uno di noi, ossia quando l'anima si separa dal corpo, è in quest'ultimo che si spegne la vita, giacché l'anima sopravvive. In Gesù sopravvissero e l'anima e la divinità.

    Si affaccia a questo punto una obiezione: se non uccisero la divinità, i giudei [che decisero l'eliminazione del Cristo] sono colpevoli di un semplice omicidio. Al che rispondo: se qualcuno insudicia intenzionalmente la veste del sovrano, non viene considerato colpevole di reato allo stesso modo che se ne avesse imbrattato la persona? Perciò, sebbene non abbiano ucciso Cristo-Dio (cosa impossibile), gli autori [morali] della morte di Gesù hanno meritato, in base alle loro intenzioni, una gravissima condanna (59).

    E poi, come si è detto, il Figlio di Dio, Parola dell'eterno Padre, incarnandosi s'è reso in qualche modo visibile, leggibile come uno scritto davanti ai nostri occhi. Chi lacerasse un decreto regio, attenta alla stessa maestà regale; e quindi il peccato di quei giudei è di tentato deicidio.

    Altra possibile domanda: era necessario che il Verbo divino patisse per noi? Sì, era necessario, oltre che opportuno.

    Dalla passione del Cristo deriva un rimedio molteplice, contro le conseguenze del peccato.

    I. Infatti, peccando, l'uomo deturpa la propria anima dato che la virtù è un'interiore bellezza, che viene a essere imbruttita dalla colpa. Riecheggia il lamento del profeta: «Per qual motivo, o Israele, sei in terra nemica, invecchi in un paese straniero, ti vai contaminando tra i morti, (...) tra coloro che discendono nell'abisso?» (Bar 3, 10-11). La passione sofferta dal Cristo vi apporta il giusto rimedio: il sangue sparso da lui è come un lavacro spirituale, in cui i peccatori potranno purificarsi (cf. Ap I, 5). Il sacramento del battesimo acquista una forza rigeneratrice, in virtù appunto del sangue di Gesù.

    Chiunque pecchi dopo il battesimo, reca a Cristo una maggiore offesa, secondo la giusta ammonizione di Paolo: «Colui che abbia violato la legge di Mosè è messo a morte - sulla deposizione di due o tre testimoni - senza misericordia; di qual supplizio più atroce pensate voi non sarà degno colui che avrà calpestato il Figlio di Dio e reputa come immondo il sangue della sua alleanza, col quale è stato santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito della grazia?» (Eb 10, 28-29).

 

    2. Peccando, offendiamo Dio. Come l'uomo carnale ama la bellezza fisica, così egli predilige l'interiore armonia che abbellisce l'anima. Il peccato la inquina, Dio ne rimane offeso e ne prova disgusto: «Il Signore odia in egual misura l'empio e la sua empietà» (Sap 14, 9).

    Cristo pone rimedio a tale situazione, rendendo al Padre quella soddisfazione che l'uomo non avrebbe mai potuto dargli. La carità del Figlio, la sua ubbidienza hanno superato la portata dello stesso peccato d'origine. «Siamo stati riconciliati con Dio, noi suoi nemici, mediante la morte del suo Figlio» (Rm 5, 10).

 

    3. Cresce la nostra fragilità morale. Possiamo illuderci di riuscire a evitare nuove cadute, ma l'esperienza ci convince facilmente del contrario. A seguito del primo cedimento l'uomo risulterà debilitato e proclive a cedere. Il peccato ci domina gradualmente e, abbandonati a noi stessi, rassomigliamo sempre più a chi si getta in un pozzo da cui non potrà uscire se altri non lo aiuta.

    La natura umana è stata indebolita e corrotta dal peccato d'origine, l'uomo è maggiormente incline a cadere. Ed ecco il Cristo, che viene a ridurre la portata di questa nostra infermità morale. La natura non è ricondotta allo stato primigenio, ma l'uomo trae energia dai meriti della passione di Cristo, mentre la forza del male è in qualche modo sotto controllo di quella grazia divina che ci proviene dall'uso dei sacramenti. I nostri sforzi per risalire la china non saranno dunque più vani, come per l'uomo vecchio, schiavo del peccato (cf. Rm 6, 6). Prima che Gesù si offrisse in olocausto, ben pochi saranno stati gli uomini cui riuscì di vivere senza colpe gravi. Dopo, invece, tantissimi son vissuti e vivono liberi da tale schiavitù.

 

    4. Un altro effetto del peccato è la conseguenza penale che trae seco. La divina giustizia esige che chiunque abbia peccato debba essere punito, commisurando la pena sulla gravità della colpa. Ora, essendo praticamente infinita una colpa come quella del peccato mortale - un attentato al bene infinito che è Dio e che viene gravemente offeso dal trasgressore della legge -, la pena dovrà essere proporzionata.

    In forza dei suoi patimenti, Cristo ci ha liberati dall'obbligo di saldare un debito umanamente insolvibile. Pagò egli stesso, al posto nostro, di persona. Egli, secondo l'espressione apostolica, «ha portato su di sé i nostri peccati: nel proprio corpo crocifisso al legno della croce, affinché noi, separati da tutto ciò che è peccato, vivessimo secondo giustizia. Siete stati guariti al prezzo delle sue piaghe» (I Pt 2, 24).

    La passione di Gesù fu di tale efficacia, che sarebbe sufficiente a espiare i peccati di tutto il mondo, fossero pure in numero infinito.

    Questo è il motivo per cui, a contatto col sacramento, i battezzati ricevono la piena remissione delle loro colpe. È la passione del Cristo che conferisce al sacerdote un potere assolutorio, e quanto maggiormente una persona si conforma alla passione del Cristo, tanto più ampio è il perdono e più abbondante la grazia.

 

    5. Il peccatore perde ogni diritto d'entrare nel regno dei cieli, secondo la pena dell'esilio riservata ai colpevoli di lesa maestà. Adamo, per primo, fu scacciato dal paradiso [terrestre], e alle sue spalle venne sbarrato l'ingresso anche di quello celeste. Cristo lo riaprì grazie ai meriti della sua passione [e morte]. Gli esuli videro revocato il divieto di rientrare in patria. La porta del regno dei cieli fu di nuovo aperta nel momento in cui veniva squarciato il fianco al Cristo, spirato sulla croce. Versato che fu il suo sangue, scomparve la macchia del peccato, fu placato lo sdegno del Padre, la fragilità umana trovò un rimedio, ed espiata la pena gli esuli sono richiamati in patria!

    A uno dei due malfattori [morente sul Calvario] venne fatta la promessa: «Oggi stesso sarai con me in paradiso» (Lc 23, 43). Non sono parole rivolte a qualcun altro, ad Adamo per esempio, o ad Abramo il patriarca o al re e profeta David... Qui non si tratta di profezia che dovrà attendere per lungo tempo d'essere adempiuta: «Oggi», gli dice, nel giorno stesso in cui la porta dei cieli venne riaperta. Il delinquente pentito ottenne senza dilazioni il perdono implorato. Sperimentò in quel medesimo giorno ciò che dice san Paolo: «Grazie al sangue di Gesù Cristo, abbiamo la certezza di poter entrare nel santuario» (Eb 10, 19).

    Quanti utili esempi, poi, ricaviamo dalla meditazione del sacrificio di Cristo! Infatti, come nota sant'Agostino, la passione di Gesù è sufficiente per impostare di sana pianta l'umana esistenza. Chiunque voglia vivere una vita di perfezione, altro non dovrà fare che disprezzare ciò che il Salvatore respinse fino alla croce, e non amare qualcosa di diverso da ciò che egli amò.

    Non c'è virtù che dalla morte in croce del Cristo non tragga incentivo.

 

    6. Difatti, se cerchi un esempio d'amore (e nessuno ne ha uno più grande di chi sappia sacrificare la vita per gli amici) (cf. Gv 15, 13), vedi che Cristo te lo seppe dimostrare salendo al tuo posto in croce. Se quindi ha esposto la propria vita nel suo farsi olocausto d'amore, non dobbiamo giudicare eccessivo il soffrire le nostre croci per amor suo. Niente di più gradito potrò offrire al Signore, in cambio dei molti doni che mi ha elargito (cf. Sal 115, 12).

 

    7. Se invece vi cerchi mi esempio di pazienza, la croce del Cristo è di per sé la risposta più eloquente. Un uomo dà prova di vera pazienza quando accetta le grandi traversie della vita, oppure qualora si esponga a gravi disagi che potrebbe evitare.

    Ebbene, la pazienza del Cristo fu magnanima specie sulla croce. Avrebbe potuto ripeterci: «Oh, voi tutti che passate per la via, fermatevi a considerare se vi sia un dolore simile al mio!» (Lam I, 12). Tollerò pazientemente ogni spasimo, e «ingiuriato, non rispondeva con ingiurie» (I Pt 2, 23). Di lui aveva profetato Isaia: «Era maltrattato ma restava sereno, non diceva una parola, simile a un agnello che si porti a uccidere; come la pecora rimane muta dinanzi a chi la tosa, egli non aprì la bocca per lamentarsi» (Is 53, 7).

    Avrebbe potuto facilmente evitare tanta sofferenza, ma preferì andarle incontro; e a Pietro che aveva usato la spada per difenderlo, chiedeva: «Credi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si adempirebbero le Scritture, secondo le quali bisogna che avvenga così?» (60). Giudica tu, da te stesso, se fu grande la pazienza del Cristo in croce. Perciò, «corriamo [anche noi] nell'arena che ci è aperta dinanzi, tenendo lo sguardo fisso all'autore e perfezionatore della fede, Gesù, il quale anziché il gaudio di cui poteva disporre, preferì sopportare la croce senza curarsi dell'ignominia» (Eb 12, 1-2).

    8. Nel Crocifisso troverai il modello per la tua umiltà: Dio che si lascia trascinare in tribunale, dinanzi a Ponzio Pilato, per subirvi un [iniquo] processo ed essere condannato a morte. La sua causa parve subito quella di un pregiudicato (cf. Gb 36, 17), di un delinquente della peggiore specie, cui viene riservata una morte ignominiosa (cf. Sap 2, 20). Il Signore che si espone a morire al posto del suo servo! Colui che è vita degli angeli, si lascia uccidere per noi uomini!

 

    9. Non potresti trovare un più alto esempio d'ubbidienza, alla scuola di colui che fu ubbidiente al Padre sino a morire! (cf. Fil 2, 8). E «come per la disubbidienza di un solo uomo gli altri sono stati resi peccatori, così per l'ubbidienza di uno, gli altri saranno resi giusti» (Rm 5, 19).

 

    10. E se infine vai cercando un perfetto esempio di disprezzo delle cose terrene, segui il Re dei re, il Sovrano dei sovrani, colui che racchiude in sé la sapienza in grado massimo: e tuttavia lo trovi spoglio sulla croce, dove muore dopo essere stato schernito, oggetto di sputi, percosso e abbeverato con fiele e aceto...

    Non attaccarti perciò eccessivamente a vesti e ricchezze, di fronte a Gesù che ti ripeterebbe: «Si dividono tra loro gli abiti miei; tirano a sorte la mia tunica» (Sal 21, 19); non attaccarti agli onori, giacché [l'Uomo dei dolori] ti ricorda: «Io ho conosciuto gli insulti e le percosse. Non mirare alle posizioni di prestigio, se a me fu riservata una corona di rami spinosi intrecciati; non alle cose che danno gusto, se per me i carnefici seppero trovare soltanto una spugna imbevuta d'aceto».

    Commentando il passo in cui l'Apostolo considera i patimenti sofferti dal Figlio di Dio (cf. Eb 12, 1-2), Agostino ha scritto: «Gesù Cristo spregiò tutte le cose terrene, per insegnarci a disprezzarle».

 

 

Discese agli inferi

Il terzo giorno risuscitò da morte

 

    La morte di Cristo, s'è visto, sopravvenne per la separazione dell'anima dal corpo, come accade per tutti gli uomini; ma la divinità, congiunta indissolubilmente con l'uomo-Cristo, seguitò a pervadere nel modo più completo sia l'anima che il corpo dissociati. Perciò il Figlio di Dio fu nel sepolcro assieme al corpo di Gesù, e ne accompagnò l'anima nella sua discesa oltre la tomba.

    Egli vi andò per quattro motivi.

 

    I. Per addossarsi interamente la pena relativa ai nostri peccati e, in tal modo, espiarli del tutto. Il castigo comminato per la colpa originale non consisteva soltanto nella morte fisica dell'uomo ma nelle sofferenze che l'anima umana avrebbe sperimentato trovandosi privata della visione divina.

    Finché una simile pena fosse rimasta valida, tutti gli uomini, compresi i patriarchi e i giusti dell'antica alleanza, morendo dovevano scendere nel limbo e restarvi fino a quando non fosse venuto in terra il Redentore, a soddisfare anche questo debito. Allora, prefiggendosi di estinguerlo interamente, Cristo volle seguire in tutto il destino del genere umano: morire e scendere nell'oltretomba (61). Con questa differenza: che mentre gli altri vi dimoravano in qualità di prigionieri, Cristo vi giunse libero, da liberatore.

 

    2. Poté aiutare così nella maniera più perfetta i propri amici. Ne aveva non solo quaggiù, ma nel limbo dei giusti. Qui in terra suoi amici sono quanti vivono nella carità; nell'aldilà gli sono amici tutti coloro che passarono da questa vita amando Dio e protési nella speranza verso il Messia venturo: Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, David e altri uomini retti.

    Essendosi intrattenuto con gli amici viventi in questo mondo sino al giorno in cui morì sulla croce, Cristo volle visitare anche gli eletti recando loro aiuto nella dimora ultraterrena. Come la divina sapienza cantata dall'Ecclesiastico, poté ripetere: «Penetrerò nelle più profonde regioni del creato, getterò lo sguardo sui dormienti e illuminerò chiunque abbia riposto la propria speranza nel Signore» (Sir 24, 25).

 

    3. La discesa nell'oltretomba costituì una compiuta vittoria sul diavolo. Non si limitò a vincerlo sul campo di battaglia ma lo inseguì, occupandone il dominio e spodestandolo dal trono. Sulla croce, la vittoria: «il principe di questo mondo» perde la sua prerogativa di dominatore assoluto (cf. Gv 12, 31). Il Cristo risorto lo volle incatenare nel regno infernale: vi penetrò scardinando ogni cosa, strinse il nemico in ceppi e gli tolse di mano le anime [dei giusti] che teneva quale preda di guerra. Il Padre, mediante l'opera del Figlio, spogliò i principati e le potestà infernali e li espose alla pubblica derisione (cf. Col 2, 15).

    Dominatore del cielo e della terra, Cristo estese il dominio fino al regno dei morti, in maniera che si avverò quanto proclama l'Apostolo: «Nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli inferi, e ogni lingua riconosca che Cristo Gesù è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 10). Nome, il suo, di illimitata potenza, se ai discepoli inviati a predicare il vangelo sarebbe bastato pronunciarlo per mettere in fuga gli spiriti del male! (cf. Mc 16, 17).

 

    4. Volle morire infine per liberare [come si è accennato al n. 2] i santi che lo attendevano nel limbo. Affrancati i viventi da una morte senza risurrezione, Cristo estese il beneficio anche ai defunti. Il Messia, il re mansueto e pacifico cantato dal profeta, in forza del sangue con cui siglò la nuova alleanza tra gli uomini e Dio ha fatto uscire «i prigionieri dalla fossa arida» (cf. Zc 9, 11). Egli poté ripetere le parole profetizzate da Osea: «Li libererò dal sepolcro, li salverò dal potere della morte. A cosa son servite le tue stragi, o morte, che valgono i tuoi micidiali flagelli, o inferno?» (Os 13, 14). [L'antica versione di questo passo] dice: «Io sarò come un morso, per te, o inferno», poiché mentre egli pose fine a una condizione di morte [eterna], per l'ade fu una grave lacerazione, in quanto che liberò non tutti i prigionieri ma solo quelli che vi si trovavano immuni dal peccato d'origine (dal quale erano stati salvati individualmente per il rito della circoncisione) e da altri peccati mortali. Del resto, anche prima che la circoncisione venisse praticata, i piccoli innocenti conseguivano la salvezza mediante la fede dei genitori [verso il Messia venturo], e gli adulti grazie alle offerte sacrificali e, sempre, alla fede.

    La macchia del peccato d'origine contaminava la natura stessa dell'uomo, per cui l'intero genere umano avrebbe trovato il suo liberatore esclusivamente nel Cristo. Egli, dunque, lasciò nell'oltretomba [infernale] gli adulti, morti in stato di colpa grave, e [nel limbo ] i piccoli se incirconcisi (62).

    Dalla considerazione di questo articolo del Credo si rafforza in noi la speranza d'essere accetti a Dio. Per quanto possa trovarsi nell'afflizione, l'uomo dovrà sempre sperare nell'aiuto dell'Altissimo, confidare in lui. Nulla, infatti, vi è di più grave dell'inferno; ora, se Cristo provvide a liberare dall'oltretomba le anime che vi si trovavano, molto più il cristiano, amico di Dio, dovrà confidare che sarà liberato dalle angustie. La Sapienza del Padre discese a confortare il giusto che giaceva tra le mura del carcere, rimase al fianco di chi stava in catene, finché gli procurò lo scettro del regno, gli dette potere sopra i suoi stessi tiranni, demolì la sicurezza ostentata dagli avversari e lo coronò di gloria immortale (cf. Sap 10, 13-14).

    E poiché Dio aiuta specialmente i suoi servi, deve sentirsi sicuro chiunque si ponga al suo servizio. «Chi teme il Signore non ha timori né perde il coraggio, poiché Dio è la sua speranza» (Sir 34, 14).

    Dobbiamo alimentare il timor [di Dio] e respingere ogni presunzione. Pur restando vero che Cristo è sceso nell'oltretomba per recare alle anime i frutti della redenzione, è vero altresì che egli non liberò dal potere di Satana chiunque vi si trovasse, ma solo quanti lo attendevano privi di gravi colpe. Lasciò nell'inferno coloro che erano morti in peccato mortale. Perciò non s'illuda, chiunque entri in simili condizioni nell'aldilà. Dovrà restare nell'inferno quanto i giusti si tratterranno in paradiso: per l'eternità. «I dannati andranno all'eterno supplizio, gli eletti invece all'eterna gloria» (Mt 25, 46).

    Altro beneficio: la discesa di Cristo agli inferi ci rende maggiormente solleciti. Egli infatti vi andò per evitarci quella che, per noi, sarebbe una discesa senza ritorno. Dobbiamo perciò andarvi frequentemente col pensiero, considerando le pene che vi si soffrono, sull'esempio di Ezechia, il quale usava ripetere: «A metà della mia vita me ne dovrò andare, varcando la soglia dell'aldilà» (Is 38, 10).

    Chi vi si sofferma spesso con la riflessione, facilmente eviterà di dovervi andare morendo. Convien fare un po' quel che vediamo far attorno a noi, da quanti cercano di non infrangere il codice [penale] considerandone le severe sanzioni. Quanto più dunque dobbiamo guardarci dall'agire male riflettendo sulle pene infernali, che superano ogni altra pena sia per la durata, sia per l'asprezza e la varietà dei tormenti. «In ogni azione pensa alla tua fine, e non peccherai!» (Sir 7, 40).

    Quale esempio, infine, di come dobbiamo amare le anime dei defunti, Cristo scese agli inferi per liberare i suoi amici. Noi pure, con i suffragi, dobbiamo affrettare la liberazione dei nostri.

    Da sole, nulla possono le anime del purgatorio, mentre possiamo alleviare noi le loro sofferenze. Mostrerebbe una grande durezza di cuore chi trascurasse d'aiutare una persona cara rinchiusa in un carcere. Assai più lo è il cristiano che non porge il minimo aiuto agli amici che stanno nel purgatorio, non essendovi proporzione tra le sofferenze di questo mondo e quelle del purgatorio. Ciascun'anima che vi si trova sembra ripeterci l'invocazione di Giobbe: «Pietà di me, pietà di me, amici miei, ché la mano di Dio mi ha percosso!» (Gb 19, 21). Pietoso e utile, dunque, è il pregare per i defunti, affinché venga affrettata la loro purificazione.

    Possiamo recare loro soccorso in tre maniere, come insegna sant'Agostino: offrendo il sacrificio della Messa, pregando, e distribuendo elemosine in suffragio dei defunti; san Gregorio vi aggiunge il digiuno. Mi sembra giusto se pensiamo che, anche in questo mondo, tra amici ci si aiuta l'un l'altro. Dunque, un nostro sacrificio può valere a pro di un'anima che stia espiando in purgatorio. Non per i dannati.

    L'uomo deve considerare due verità fondamentali, circa la gloria [beatificante] di Dio e le pene infernali. Attratti dal desiderio di una immortalità gloriosa e atterriti dal pensiero degli eterni castighi, gli uomini stanno più cauti e cercano di evitare i peccati. Si tratta, purtroppo di verità non facilmente percepite dalla sola ragione naturale.

    Nel primo caso, è vero ciò che leggiamo nel libro della Sapienza: «A stento sappiamo comprendere ciò che è terreno, conosciamo così poco persino le cose che abbiamo tra mano; quindi, chi riuscirà a capire le cose celesti?» (Sap 9, 16). E la difficoltà cresce per l'uomo immerso nella realtà mondana. Di lui Gesù diceva: «Chi viene dalla terra, alla terra appartiene e parla secondo una mentalità materialistica» (Gv 3, 31). Invece l'uomo spirituale [a imitazione del Cristo] ha pensieri elevati. Dal cielo, il Verbo è sceso su questo mondo, per svelarci le verità soprannaturali.

    Ugualmente difficile farsi una chiara idea dei castighi eterni. [Dicono molti]: «Nessuno è mai tornato dall'oltretomba» (Sap 2, 1). Ma è un ritornello ormai privo di senso poiché la medesima Persona che venne in terra a insegnarci la dottrina che conduce alla vita eterna, è risuscitata dai morti per confermare l'esistenza di un aldilà [dove la giustizia divina punisce i peccatori]. È necessario perciò credere che Dio non soltanto si è incarnato ed è morto in croce, ma «il terzo giorno risuscitò dai morti».

    Sappiamo che diverse persone vennero risuscitate, come Lazzaro, il figlio della vedova [di Naim] e la figliola del caposinagoga [di Cafarnao]. Ma tra queste risurrezioni e quella del Cristo vi sono alcune [radicali] diversità.

    Intanto, la causa della risurrezione. Fu Cristo a operare direttamente questo genere di miracoli, oppure essi ebbero luogo per l'intercessione di qualche santo. Cristo invece risuscitò per virtù propria: essendo nello stesso tempo Dio e uomo (e la divinità del Verbo non fu mai separata né dall'anima né dal corpo), egli poté ricomporre gli elementi costitutivi della persona umana quando volle. L'aveva predetto, del resto: «Io ho il potere di cedere spontaneamente la mia vita, e di riprenderla quando mi piaccia» (Gv 10, 18).

    Morì davvero, non però [direttamente] in seguito ai maltrattamenti o per l'esaurirsi delle forze fisiche: morì perché permise che la morte facesse il suo corso naturale. Chi muore ormai privo di vigore, si spegne in un ultimo soffio; Gesù, al contrario, nell'attimo in cui rese lo spirito nelle mani del Padre gridò ad alta voce (63). Il centurione esclamò [anche per questo motivo]: «Costui era veramente il Figlio di Dio!» (Mt 27, 54). E come tale, Cristo ebbe la facoltà di ritornare in vita quando gli piacque. «Risuscitò dai morti», non «venne risuscitato». Poteva dire, nel suo passare dalla morte alla vita, le parole che Davide disse riferendosi al normale sonno: «Mi ero adagiato per dormire e mi assopii; dopo fui nuovamente sveglio» (Sal 3, 6). Non c'è contraddizione con quanto riferiscono gli Atti: «Costui è quel Gesù che Dio ha risuscitato» (At 2, 32); infatti il Cristo venne richiamato alla sua integra vita d'uomo dal Padre e dal Verbo insieme. La loro divina potenza è inscindibile.

    Diverso, inoltre, è lo stato di vita nuova a cui giunsero Cristo e gli altri risorti, poiché Gesù iniziò un'esistenza beata e permanente «a gloria del Padre» (Rm 6, 4); gli altri, come Lazzaro, furono riammessi a questa vita terrena per un certo numero di anni.

    Una terza differenza si riscontra nella portata dei vari casi di risurrezione. Gli uomini richiamati in vita ne trassero un beneficio circoscritto alla propria persona, mentre è in forza della risurrezione di Gesù che tutti potranno risorgere. Ciò accade fin dal momento in cui Cristo morì. Infatti «molti santi che riposavano nei sepolcri, risuscitarono» (Mt 27, 52), e l'apostolo Paolo lo chiama «primizia dei risorti dal sonno della morte» (1 Cor 15, 20).

    Fa' attenzione, a questo punto, che Cristo giunse alla gloria attraverso le sofferenze (cf. Lc 26, 26), sicché varrà anche per noi l'insegnamento di Paolo e Barnaba, che «è inevitabile passare per molte tribolazioni prima di entrare nel regno di Dio» (At 14, 21).

    Un'ultima diversità, tra la risurrezione operata dal Cristo in sé medesimo e la risurrezione cui è destinato il genere umano. Quest'ultima, infatti, è rinviata alla fine del mondo, eccetto pochi privilegiati come la beata Vergine e (secondo che si narra) Giovanni evangelista. Cristo risuscitò tre giorni dopo la morte.

    Risurrezione, morte e nascita di Gesù erano ordinate alla nostra salvezza. Volle perciò tornare in vita nel momento più opportuno al compimento dell'opera redentrice.

    Se infatti fosse risorto pochi istanti dopo essere spirato, sarebbe rimasto il dubbio di una morte solo apparente. Al contrario, se avesse dilazionato troppo l'ora del suo risveglio dai morti, i primi discepoli avrebbero potuto perdere la fede, e il suo tanto patire sarebbe risultato inutile.

    Risuscitò il terzo giorno affinché non restassero dubbi circa la realtà della sua morte, né la fede di chi sperava in lui restasse delusa.

    Per concludere, facciamo qualche riflessione applicabile a ciascuno di noi.

 

    I. Studiamoci di risorgere con sollecitudine dalla morte spirituale prodotta dal peccato; torniamo a una vita virtuosa, mediante la penitenza. Ci esorta l'Apostolo: «Svégliati, tu che dormi; risorgi dai morti; e Cristo ti illuminerà» (Ef 5, 14). È la prima risurrezione, cui allude l'Apocalisse: «Felice e santo chi partecipa della prima risurrezione! Su costui la seconda morte non ha alcun potere» (Ap 20, 6).

 

    2. Non rimandiamo [la conversione] sino al momento della morte: «Non indugiare a pentirti, non rimandare da un giorno all'altro» (Sir 5, 7). Forse, gravato dalle infermità, non riusciresti a provvedere alla tua salvezza. Oltre a ciò, perdi una parte dei meriti di cui si arricchisce la Chiesa, mentre l'ostinazione nel peccato aggrava l'infermità dell'anima. Quanto più a lungo uno resterà sotto il dominio del diavolo - osserva Beda il Venerabile -, tanto più difficilmente Satana rinuncerà alla preda.

 

     3. Riottenuta la vita di grazia, vediamo di non contaminarla nuovamente; vi sia in noi cioè il proposito di evitare le colpe mortali. Simili al Cristo che, risorto dai morti, più non si assoggetterà alla morte (cf. Rm 6, 29), «anche voi - ci raccomanda san Paolo - pensate che siete morti nei confronti del peccato e che dovete vivere per Iddio in Gesù Cristo. Non regni dunque la colpa nel vostro corpo mortale, in modo da tenervi tuttora soggetti alle sue concupiscenze. Non abbandonate le vostre membra al servizio del peccato, sì che non diveniate strumento di iniquità. Offritevi interamente a Dio, come viventi, da morti che eravate, e fate servire a Dio le vostre membra, come strumenti di giustizia» (ib. 11-13).

 

    4. Sia nobile la nuova vita [in grazia], evitando le occasioni che portarono la morte nell'anima. «Come Cristo è risuscitato dai morti a gloria del Padre, così noi pure dobbiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6, 4): una vita ispirata alla giustizia [soprannaturale], che rigenera l'uomo spiritualmente e lo conduce alla gloriosa eternità.

 

 

Salì al cielo, ove siede alla destra di Dio, Padre onnipotente

 

    Bisogna credere poi nell'ascensione del Cristo, avvenuta quaranta giorni dopo la risurrezione. Si trattò di un fatto sublime, conveniente e utile. Vediamone il perché.

 

    I. Salì il più in alto possibile. Sopra qualunque altra realtà corporea, oltrepassò i cieli più lontani, per primo, giacché fino a quel momento i corpi, nella cui composizione entrava l'elemento terra, non potevan trovarsi che circoscritti nell'ambito sublunare. Adamo medesimo [pur essendo ricco d'ogni sorta di doni] visse nel paradiso terrestre.

    Passò ancora oltre; oltre quei cieli spirituali che sono le gerarchie angeliche. «[Il Padre celeste] dimostrò la sua sovrana potenza in Cristo, risuscitandolo da morte e facendolo sedere alla sua destra nell'alto dei cieli, al di sopra di ogni principato, potestà, virtù e dominazione, al di sopra di qualsiasi dignità o grandezza che possa esser nominata non solo lungo i secoli ma nell'eternità» (Ef 1, 20; cf. Ef 4, 10).

    Si fermò accanto al trono del Padre. Daniele lo aveva veduto in visione, ed esclamava: «Egli avanzò fino all'Eterno (...), che gli conferì potere, maestà e regno, sì che tutti i popoli, le nazioni e le genti.di ogni lingua lo servivano. Il suo potere è un potere eterno, che non verrà meno, e il suo regno non sarà mai distrutto» (Dn 7, 13-14). La profezia si avvera nella testimonianza dell'evangelista: «Il Signore Gesù, dopo aver loro parlato, si elevò nel cielo, e siede alla destra di Dio» (Mc 16, 19).

    L'espressione «alla destra di Dio» è evidentemente metaforica: cioè, in quanto Verbo di Dio, il Cristo ottenne la perfetta eguaglianza con lui; in quanto uomo, entrò in possesso dei beni più grandi (cf. Ef I, 20). Era la sublime altezza di gloria bramata da Lucifero: «Salirò fino al cielo, innalzerò il mio trono sopra le stelle di Dio; mi assiderò sul monte dell'adunanza nelle estremità settentrionali. Salirò ben più in là delle nubi: sarò simile all'Altissimo!» (64).

    Ma a una tale sommità non poté giungervi altri che il Cristo. Egli solo può sedere alla destra del Padre, che lo invitò: «Siedi alla mia destra» (Sal 109, 1).

 

    2. Ragionevole, ossia giusta, fu l'ascensione del Cristo. Il cielo gli apparteneva in forza della divina natura. È infatti conveniente che ciascuno ritorni là da dove trasse origine, e il Verbo di Dio trasse origine dal Padre, l'Altissimo. Gesù lo insegnò apertamente: «Uscito dal Padre, son venuto nel mondo; ora lascio il mondo e mi accingo a tornare al Padre» (Gv 16, 28). Oppure, sempre nel vangelo di Giovanni: «Nessuno è asceso al cielo, se non colui che ne è disceso, il Figlio dell'uomo che è in cielo» (Gv 3, 13).

    Anche ai santi è concesso di salire al cielo, ma non come poté fare il Cristo, per virtù propria cioè: i santi salgono al cielo in quanto attratti da Cristo.

    Si potrebbe anche dire che egli sia l'unico a penetrare davvero nei cieli: gli altri vi pervengono nella loro qualità di membra di Cristo, che è il capo della Chiesa, suo corpo mistico.

    Il cielo gli spettava quale premio per la sua vittoria. Venuto quaggiù per lottare contro il diavolo, lo aveva sconfitto. Per questo meritava d'essere esaltato al di sopra dell'intera creazione. L'Apocalisse ne riporta le parole d'esultanza: «Io, che ho vinto, mi sono assiso sul trono accanto al Padre!» (Ap 3, 21).

    Lo aveva guadagnato, il cielo, con la sua umiltà. Mai potrà esservi abbassamento più profondo di quello vissuto dal Cristo: Dio, volle farsi uomo; dominatore, si fece servo di tutti, ubbidiente fino alla morte (cf. Fil 2, 8); e scese ancora: negli abissi del creato. Meritò ampiamente di essere innalzato al trono dell'Altissimo, avendo percorso [per amore] tutta intera la via dell'umiltà: «Chi si umilia sarà esaltato» (Lc 14, 11).

 

    3. Molteplice, infine, l'utilità derivante dal mistero dell'ascensione. L'umanità aveva smarrito il sentiero che conduce al cielo, sicché il Cristo vi ascese facendoci da guida, simile al condottiero che cammina alla testa d'una moltitudine (cf. Mic 2, 13). Per rafforzare la nostra speranza di aver parte al regno dei cieli, vi entrò lui per primo: «Vado a prepararvi un posto» (Gv 14, 2).

    La speranza diviene certezza, al pensiero che Cristo si trova in cielo, immortale e onnipotente, per intercedere in nostro favore (cf. Eb 7, 25). Presso il Padre abbiamo un avvocato: «Gesù Cristo il Giusto» (I Gv 2, 1).

    È asceso al cielo per attrarvi il nostro cuore, nel disprezzo dei beni che passano. Se Cristo vale più di qualunque altro tesoro, il nostro spirito deve serbarsi in sintonia con lui (cf. Mt 6, 21). «Se siete risuscitati con Cristo - conclude l'Apostolo -, cercate le cose del cielo, dov'è Cristo assiso alla destra del Padre: aspirate alle cose di lassù e non a quelle che son sulla terra. (...) La vostra vita è nascosta con Cristo in Dio» (65).

 

 


30/01/2015 12:13

[Dal cielo] verrà a giudicare i vivi e i morti

 

    La facoltà di giudicare spetta ai re e ai capi (cf. Prv 20, 8). Tornando perciò nel proprio regno e sedendo alla destra del Padre, è chiaro che spetta al Figlio - quale Signore di tutto il creato - giudicare i vivi e i morti. L'avvenimento è adombrato nelle parole rivolte dagli angeli agli uomini di Galilea: «Quel Gesù che, lasciandovi, è salito al cielo, verrà [di nuovo]» (At I, 11).

    A proposito di questo giudizio futuro possiamo considerare tre cose: la persona del giudice, i convenuti in giudizio e la materia del giudizio medesimo.

    Cristo è stato costituito dal Padre quale giudice dei vivi e dei morti (cf. At 10, 42), e col nome di vivi possiamo indicare sia coloro che vivono rettamente, sia gli attuali abitatori della terra [prescindendo da ogni considerazione]; invece morti, oltre ai defunti in senso fisico, anche i peccatori.

    Egli è giudice in quanto Dio e in quanto uomo, opportunamente. La divinità è una realtà così beatificante che nessuno può trovarsi alla sua diretta presenza e non essere colmato di gaudio. Quindi è necessario che il giudice divino appaia nella persona del Cristo, in maniera da poter giudicare l'intera umanità senza che i reprobi gustino il sommo bene.

    Gesù, «figlio dell'uomo» (cf. Gv 5, 27) ha meritato l'incarico di giudice universale, egli che venne giudicato ingiustamente.

    In più, sapendo che dovranno incontrarsi con un giudice divino ma dall'aspetto umano, gli uomini serberanno una certa quale speranza, che non potrebbe sussistere se li attendesse per vagliare le loro azioni la pura divinità. Minore sarà lo spavento allorché gli uomini «vedranno un 'figlio dell'uomo' venire sulle nubi» (Lc 21, 27). E nessuno degli uomini che videro la luce del sole, nessuno potrà sottrarsi a quel processo. Infatti «tutti quanti dobbiamo comparire innanzi al tribunale di Cristo, perché ognuno riceva ciò che è giusto per quel che avrà fatto mentre viveva unito al corpo, sia in bene che in male» (2 Cor 5, 10).

   San Gregorio Magno prende in esame le differenze che intercorrono tra le categorie di coloro che saranno convocati al giudizio finale.

   Tra i reprobi, un certo numero verrà condannato senza che si proceda neppure a un esplicito dibattimento. Si tratta di coloro che rifiutarono il dono della fede. «Chi non crede è già condannato, perché non crede nel nome dell'unigenito Figlio di Dio» (Gv 3, 18).

   Altri ascolteranno la sentenza che li condanna, dopo la denunzia delle loro colpe: i credenti cioè che morirono in peccato mortale. La sola fede non basterà a salvarli, e riceveranno la paga del peccato - che è la morte [eterna] -, di cui parla san Paolo (cf. Rm 6, 23).

   Anche nel numero degli eletti vi saranno tal uni che verranno invitati alla destra di Cristo giudice sin dall'inizio: quanti vissero in spirito di povertà per amore di Dio. Leggiamo nel vangelo di Matteo che chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o moglie, o figli, o campi, per seguire il Signore non solo riceverà il centuplo e avrà in eredità la vita eterna, ma sarà chiamato a sedersi accanto al «Figlio dell'uomo» per giudicare con lui il genere umano (cf. Mt 19, 28). Oltre ai dodici e agli altri discepoli che accompagnarono il Maestro nel suo peregrinare terreno, una uguale sorte è serbata a tutti i poveri in spirito. Non potrebbe esserne escluso l'apostolo Paolo, ad esempio, che si affaticò più d'ogni altro, vivendo la povertà evangelica. Altrettanto varrà per i discepoli degli apostoli e per tutti gli uomini autenticamente apostolici. San Paolo esprime addirittura la certezza che gli eletti giudicheranno perfino gli angeli [decaduti] (cf. I Cor 6, 3). Nel giorno del giudizio, gli eletti somiglieranno agli anziani e ai principi del popolo di Dio, di cui parla Isaia (cf. Is 3, 14).

    Gli uomini che saranno stati colti dalla morte in uno stato di sostanziale equità benché non siano vissuti esenti da qualche attaccamento ai beni temporali conseguiranno la salvezza, ma ogni particolare della loro esistenza sarà accusatamente soppesato: azioni, parole, e perfino i pensieri. Ci avverte pèrciò la Scrittura: «Segui pure gli impulsi del tuo cuore e i desidèri dei tuoi occhi. Sappi però che per tutto questo Dio ti chiamerà in giudizio» (66). E il Signore: «Vi dico che nel giorno del giudizio gli uomini renderanno conto di ogni parola vana che avranno proferita» (Mt 12, 36), mentre la Sapienza ribadisce che non sfuggiranno al giudice divino neppure i propositi che l'empio avrà formulato credendosi al sicuro perfino dallo sguardo di Dio (cf. Sap I, 9).

    Di fronte a un simile giudizio il timore è ben giustificato.

 

    I. Saremo esaminati da un giudice capace di penetrare l'intimo dell'anima. Egli sa tutti i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre opere: «tutto è chiaro e svelato agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto» (Eb 4, 13). Allo sguardo di altri uomini le nostre scelte potranno apparire oneste, ma il Signore scruta le profondità dello spirito (cf. Prv 16, 2).

    Dio [come s'è detto] conosce ogni parola da noi pronunziata: come un orecchio geloso, anch'egli ascolta tutto e non gli rimane nascosto neanche il sussurro delle mormorazioni (cf. Sap I, 10). Ci legge nel pensiero. Il cuore umano, certo, è più complesso d'ogni altra cosa, e malizioso. Ebbene, dice il Signore, «Io scruto i cuori, scandaglio i reni (67), per dare a ciascuno secondo la sua condotta e il frutto delle sue opere» (Is 17, 9).

    Non saranno assenti, nel giorno del giudizio finale, i testimoni. Teste infallibile, la coscienza d'ognuno, secondo l'Apostolo: «I dettami della legge sono scritti nei loro cuori, come ne fa fede la loro coscienza coi suoi giudizi, la quale, volta per volta li accusa o li difende. E questo diventerà manifesto nel giorno in cui (...) Dio giudicherà per mezzo di Gesù Cristo le azioni segrete degli uomini» (Rm 2, 15-16).

 

    2. Altro motivo di timore: la potenza, o per meglio dire l'onnipotenza del giudice: «Ecco il Signore Dio che viene, con possanza!» (Is 40, 10). Avrà per alleati tutte le creature, poiché «l'universo combatterà con lui contro gli insensati [che gli si opposero]» (Sap 5, 20). Diceva bene Giobbe: «Non c'è chi possa liberarmi dalla tua mano» (Gb 10, 7); e il salmista: «Se anche salissi al cielo, tu ci sei; s'io vado in fondo agli abissi, eccoti là» (Sal 138, 8).

 

    3. La sua giustizia sarà inflessibile. Adesso è tempo di misericordia, ma in quel giorno finale vi sarà posto soltanto per la giustizia; il momento attuale è nelle nostre mani, mentre allora sarà nelle sue, esclusivamente. «Quando avrò deciso di farlo, emetterò, con rettitudine, la mia sentenza» (Sal 74, 3). In preda al suo santo sdegno non perdonerà nel dì della vendetta, non ascolterà le implorazioni di nessuno, non defletterà dal suo retto giudizio neppure se gli offrissimo tutte le ricchezze dell'universo (68).

 

    4. Terribile sarà l'ira del Giudice supremo. Ai giusti mostrerà il suo volto dolce e beatificante (cf. Is 33, 17), ma ai reprobi apparirà in collera e tanto tremendo, che essi diranno alle montagne: «Cadeteci addosso, nascondeteci dalla faccia di Dio che è assiso sul trono e dall'ira dell'Agnello!» (Ap 6, 16). Non sarà, quello, uno sconvolgimento emotivo [nell'animo di Cristo giudice, come quando l'uomo si adira], bensì un modo di esprimere l'effetto della sua indignazione [contro gli ostinati ribelli]. Quel giorno è chiamato «giorno dell'ira» (69), quando si consideri la pena inflitta ai peccatori: l'inferno, per l'eternità.

     Di fronte a un così fondato timore, ci sentiremo rianimati se:

    - cercheremo di agire bene, secondo l'esortazione dell'Apostolo: «Vuoi non aver da temere l'autorità? Fa' il tuo dovere, e ne avrai anzi la lode» (Rm 13, 3);

    - ricorrendo al sacramento della penitenza e riparando gli errori, confessandoci cioè con vera contrizione, con sincero rincrescimento nell'accusa e severe pratiche penitenziali come espiazione [commutativa] delle pene eterne;

    - distribuendo elemosine, che completano la purificazione dell'anima. «Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, affinché quando verrà a mancarvi, essi vi accolgano nella dimora eterna» (Lc 16, 9);

    - vivendo nella carità, ossia nell'amore verso Dio e verso il prossimo: sarà così ricoperta una moltitudine di peccati (cf. I Pt 4, 8; cf. Prv 10, 2b).

 

 

Credo nello Spirito Santo

 

    Abbiamo veduto che il Verbo di Dio è suo Figlio, come il verbo [mentale] dell'uomo è il concetto della sua intelligenza (70); ora accade talvolta che si tratti di concetti non vitali, di progetti inattuati per mancanza di volontà operativa. Il credente conosce le verità di fede, ma spesso non agisce in modo coerente. La sua, allora, è una fede morta.

    Il Verbo di Dio invece è [eternamente] vivo (cf. Eb 4, 12): è segno che in lui pulsa la volontà, l'amore.

   Come il Verbo è Figlio di Dio, così il suo Amore è lo Spirito Santo. Ne segue che un uomo ha in sé questo Spirito se ama Dio. «L'amore di Dio è stato diffuso in abbondanza nei nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5, 5).

   Non mancarono tal uni che, errando su tale materia, sostenevano che lo Spirito Santo era una semplice creatura, e, in quanto tale, minore, rispetto al Padre e al Figlio, loro servo e strumento. Per respingere simili errori, i teologi della ortodossia aggiunsero nel Simbolo cinque precisazioni intorno allo Spirito Santo.

   I. Esistono altri esseri spirituali, gli angeli, la cui funzione è propriamente quella di esecutori del volere di Dio: «spiriti al servizio di Dio», come si legge nella lettera agli Ebrei (Eb I, 14) mentre, al contrario, lo Spirito Santo è Signore, «è Dio» (Gv 4, 24) o, più esplicito, «lo Spirito Santo è Signore» (2 Cor 3, 17). Dunque, non subisce coazioni, è libero, e dove ci sia lo Spirito, ivi troviamo la vera libertà (2 Cor 3, 17). Egli, infatti, attraendoci all'amore di Dio, ci libera dagli attaccamenti mondani. Lo Spirito Santo è «Signore».

 

   2. La [vera] vita dell'anima deriva dalla sua unione con Dio, come è l'anima a render vitale un corpo cui sia unita. Dio si unisce all'uomo mediante il suo Amore, che è lo Spirito; e lo vivifica: «è lo Spirito che dà la vita [soprannaturale] (Gv 6, 63). Egli, dunque, «ci dà la Vita».

 

   3. Lo Spirito Santo è della medesima sostanza [divina] che il Padre e il Figlio. Difatti, come il Figlio è Verbo del Padre, lo Spirito è l'Amore intercorrente tra il Padre e il Figlio, procedente da entrambi e quindi partecipante dell'unica divinità. Egli «procede dal Padre e dal Figlio». Non è, evidentemente, quella creatura che qualcuno disse.

 

    4. Riguardo al culto [che gli dobbiamo], sta su un piano di uguaglianza col Padre e il Figlio.

    Il battesimo stesso che applica all'uomo i frutti della passione redentrice del Figlio e procede dalla benevolenza del Padre, si compie - accomunandolo nel medesimo rito ­ mediante l'effusione dello Spirito (cf. Mt 28, 19). «Con il Padre e il Figlio, [lo Spirito] è adorato e glorificato».

 

    5. A conferma dell'eguaglianza delle tre Persone sta la divina ispirazione concessa ai profeti. E evidente che se lo Spirito non fosse Dio medesimo, nessuno potrebbe sostenere quanto, ad esempio, afferma san Pietro: «Uomini retti, mossi dallo Spirito Santo, hanno parlato da parte di Dio» (71). E Isaia poté ripeterlo di sé medesimo: «Il Signore Dio e il suo Spirito mi hanno mandato [a profetare]» (Is 61, 1).

   Risultano così infirmate due tesi ereticali: l'errore cioè dei manichei, secondo i quali l'Antico Testamento non aveva Dio per autore; il che è falso, avendo parlato lo Spirito Santo per bocca dei profeti.

   Poi l'errore di Priscilla e di Montàno (72), i quali davano per certo che i profeti non trasmisero il pensiero dello Spirito Santo, bensì i propri vaneggiamenti.

    Dallo Spirito ci deriva una quantità di frutti spirituali.

    Egli purifica l'anima dai peccati, spettando l'opera di restaurazione all'autore medesimo. Ora, l'anima umana è creata mediante lo Spirito Santo, dato che il Padre crea ogni cosa per un atto del suo Amore. «Tu ami tutte le cose esistenti, e nulla disprezzi di quanto hai creato» (Sap II, 24). E Dionigi scrive che l'Amore non permise che la divinità restasse infeconda.

    Perciò è quanto mai opportuno che il cuore umano, devastato dalle conseguenze della colpa, venga rimesso a nuovo dallo Spirito. Anche in senso spirituale vale la considerazione del salmista : «Ridai [alle creature] il tuo alito e le ricrei, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104, 30). Ed è perfettamente convenevole che in tale operazione purificatrice operi lo Spirito, dal momento che i peccati trovano remissione in forza dell'amore. «I suoi numerosi peccati sono stati perdonati - dice Gesù della peccatrice - poiché ha molto amato» (Lc 7, 47). E Pietro: «Abbiate un'ardente carità gli uni verso gli altri, perché la carità copre un gran numero di peccati» (73).

    Lo Spirito Santo illumina la nostra mente; tutto ciò che conosciamo [circa i misteri soprannaturali] proviene dalla rivelazione dello Spirito. «Lo Spirito Santo che il Padre vi manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa e vi farà comprendere tutto ciò che vi ho detto» (Gv 14, 26; cf. 1 Gv 2, 27).

    Ci aiuta a osservare i divini precetti, esercitando su di noi una sorta di [soave] pressione. Nessuno infatti riuscirebbe a osservare i comandamenti se non amasse Dio. «Se qualcuno mi ama, metterà in pratica le mie parole» (Gv 14, 23). E lo Spirito-Amore ci induce a riamare. Egli realizza la promessa antica: «Vi darò un cuore nuovo, in voi porrò un nuovo spirito; toglierò il cuore di pietra dal vostro corpo e lo sostituirò con uno di carne. Porrò in voi lo Spirito mio, facendo si che viviate secondo i miei statuti, mettendo in pratica le mie leggi» (74).

    Ci rafforza nella speranza di poter conseguire la vita eterna, poiché egli ne costituisce quasi il pegno. Dice l'Apostolo: «Avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo, che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità» (Ef I, 13-14). La vita eterna infatti viene promessa all'uomo che [mediante la fede in Cristo] diviene figlio adottivo di Dio, simile cioè al Cristo per opera dello spirito che abita in Gesù, ed è lo Spirito Santo. «Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale possiamo gridare: Abbà, Padre!' Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8, 15-16).

    «La prova che voi siete figli, sta nel fatto che Dio mandò lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori, il quale grida: Abbà!', che vuol dire Padre!» (Gal 4, 6).

    Infine lo Spirito Santo ci consiglia nelle situazioni difficili, mostrandoci quale sia [nel caso concreto] la volontà di Dio. All'invito che leggiamo nell'Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice» (Ap 2, 7), fa eco l'esemplare disponibilità del profeta Isaia: «Lo ascolterò, come [il discepolo ascolta] il maestro» (Is 50, 4).

 

 

[Credo nel]la santa Chiesa cattolica

 

   Simile al nostro organismo, in cui l'anima diffonde la vita nelle varie parti, la Chiesa cattolica è un corpo [mistico], composto di numerosi membri vivificati dallo Spirito Santo. Dobbiamo quindi professare l'atto di fede nella Chiesa, santa e cattolica, menzionata negli articoli del simbolo: 'Credo la Chiesa'.

   Il nome chiesa significa riunione, società, sicché la Chiesa è l'assemblea dei fedeli come, dal canto suo, ciascun cristiano è membro del corpo ecclesiale, cui sembra far cenno il libro dell'Ecclesiastico (cf. Sir 51, 31).

   Quattro sono le note essenziali della Chiesa di Cristo: essa è una, santa, cattolica ( ossia universale) e apostolica [salda, ben fondata].

 

    I. Proprio il fatto che le sette ereticali si siano succedute tanto numerose e in contrasto l'una con l'altra già le esclude dall'appartenere alla Chiesa, armoniosa in se stessa e unica, simile alla «colomba», l'amata dello Sposo (cf. Ct 6, 8).

    L'unità della Chiesa promana dall'unica fede, da un'identica speranza e dalla comunione nella carità.

    Infatti i cristiani, membri di una stessa società, professano le medesime verità rivelate. Raccomanda loro l'apostolo Paolo: «Tra voi non ci siano divisioni ma siate perfettamente uniti, d'uno stesso pensiero, concordi» (I Cor I, 10), sicché mostriate d'avere «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio, Padre di tutti» (Ef 4, 5).

     Ciascun fedele nutre la ferma aspirazione di pervenire alla vita eterna: unica è la speranza verso cui siamo orientati mediante la vocazione cristiana (cf. Ef 4, 4).

    I fedeli si ritrovano uniti anche nell'amore verso Dio e in una vicendevole carità, sì da realizzare il profondo desiderio del Cristo, che tutti i cristiani siano - come il Padre, il Verbo e lo Spirito - una sola realtà.

    Tale amore, quando è autentico, si manifesta attraverso una mutua sollecitudine [nel servizio reciproco] e nella comprensione degli uni per gli altri. Di particolare eloquenza questo passo dell'Apostolo: «Vivendo secondo un' autentica carità, cerchiamo di crescere sotto ogni aspetto, in colui che è il Capo, Cristo, dal quale tutto il corpo [mistico], ben compaginato e connesso, mediante l'apporto d'ogni giuntura e secondo l'energia di ogni membro, riceve forza per crescere, in maniera da edificare se stesso nella carità» (Ef 4, 15-16). D'ogni grazia che Dio ci concede dobbiamo farne partecipe il nostro prossimo.

    Nessuno perciò deve prender alla leggera il meritare d'essere scacciato ed escluso dalla Chiesa [cattolica] dove si trova la salvezza, come non fu possibile salvarsi per quanti rimasero, al tempo del diluvio, fuori dell'arca.

 

    2. Anche gli uomini orientati verso il male costituiscono una specie di congrega, ed è l'alleanza dei malvagi che Dio aborre (cf. Sal 25, 5).

    La società fondata dal Cristo, al contrario, è protesa a realizzare la santificazione dei suoi membri (75). È  la «santa Chiesa».

    I fedeli cristiani vengono santificati in più modi.

    Quando un nuovo tempio vien consacrato, lo si comincia a lavare, materialmente; così i fedeli: entrando a far parte della Chiesa vengono purificati [mediante il battesimo], grazie al sacrificio cruento del Cristo. « [Gesù] ci ha liberati dalle nostre colpe con il suo sangue» (Ap I, 5), egli che «per santificare il popolo col proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13, 12).

    Il rito di consacrazione d'una nuova chiesa prevede poi l'unzione [dell'altare]; e altrettanto i fedeli: essi infatti ricevono l'unzione del crisma, attraverso cui agisce lo Spirito Santo nella sua opera santificatrice. Sono così, potenzialmente, resi simili al Cristo, l'Unto (76) per eccellenza.

    Dovunque Dio inabiti, quello diviene un luogo santificato dalla, sua presenza (cf. Gn 28, 16) ed è conveniente che il cristiano, tempio dello Spirito, si custodisca irreprensibile (cf. Sal 92, 5).

    Infine, anche l'invocare Dio ha un'azione santificante. «Tu sei in noi, Signore, e sopra di noi è stato invocato il nome tuo» (Ger 14, 9).

    Stiamo perciò ben attenti - considerando di quali e quante santificazioni sia stata oggetto la nostra anima - a non offuscare lo splendore di questo tempio di Dio. E grave la minaccia che leggiamo in san Paolo: «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di lui abita in voi? Se uno vìola il suo santuario, Dio lo distruggerà (I Cor 3, 17).

 

    3. Altra nota della Chiesa è la cattolicità. Essa, cioè, è universale, nel senso che va diffondendosi praticamente su tutta la terra, contro la tesi dei donatisti (77). La testimonianza di Paolo nei confronti dei fedeli di Roma («La fama della vostra fede si espande nel mondo» (Rm I, 8)) è una risposta alla missione evangelica affidata da Cristo agli apostoli: «Andate per tutto il mondo, predicate il vangelo a ogni creatura» (Mc 16, 15). Mentre in passato il vero Dio era noto solo entro i confini della Giudea, adesso la sua rivelazione ha raggiunto le più lontane regioni della terra (78).

    A ciò s'aggiunga l'universalità che dilata ulteriormente la Chiesa: essa infatti comprende, oltre alla terra, il purgatorio e il paradiso.

  È universale, poi, quanto alle diverse condizioni sociali delle persone chiamate a fame parte. Nessuno ne è pregiudizialmente escluso, né il servo né il padrone, né l'uomo né la donna.

    Universale anche riguardo al tempo. Certuni dissero che la Chiesa avrebbe avuto soltanto una sua durata temporale, il che è falso. Essa durerà, dal tempo di Abele (79), sino al concludersi della fase terrena, assistita dal Cristo (cf. Mt 28, 20), per trasformarsi alfine nell'unica Chiesa trionfante in eterno.

 

    4. Possiede la dote della stabilità. Un edificio può esser detto solido se innanzi tutto poggia su buone fondamenta. Ebbene, la Chiesa è sorretta dal Cristo. «Nessuno può porvi un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Cristo Gesù» (I Cor 3, 11).

    Poggia inoltre sugli apostoli e sulla loro dottrina. La celeste Gerusalemme descrittaci dall'Apocalisse aveva dodici strati per fondamenta, e su ognuno v'era il nome dei dodici apostoli dell'Agnello (cf. Ap 21, 14). La Chiesa è detta perciò apostolica, e Pietro viene indicato espressamente quale pietra di base, onde sottolinearne la solidità (80).

    Ancora. Una costruzione merita d'essere giudicata stabile se regge quando sia soggetta a violente scosse. Ebbene, la Chiesa non è stata mai demolita: non vi riuscirono i persecutori, anzi fu sotto il loro imperversare che essa si accrebbe ulteriormente; i persecutori invece e gli avversari d'ogni sorta scomparvero uno dopo l'altro. «Chi cadrà su questa pietra andrà in pezzi; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà» (Mt 21, 44).

    Le eresie produssero un effetto analogo: col loro moltiplicarsi, offrirono occasioni per un ulteriore chiarimento della verità. «[Gli eretici] si oppongono alla verità essendo uomini dissennati nel modo di giudicare, che hanno perduto la fede. Costoro però non andranno molto innanzi perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti» (2 Tm 3, 8).

    Gli stessi assalti diabolici non raggiungono miglior risultato: simile a una torre, la Chiesa costituisce anzi un solido baluardo entro cui trova riparo chiunque si opponga all'avversario. Il giusto vi si rifugia ed è al sicuro (cf. Prv 18, 10).

    Perciò il diavolo raddoppia i propri assalti contro la Chiesa; ma non potrà prevalere, avendo il Signore assicurato che «le porte degli inferi non riusciranno a riportare la vittoria su di essa» (Mt 16, 18). Quasi dica: la battaglia infurierà contro di lei, ma a vincere non saranno i tuoi nemici.

    Comprendiamo meglio adesso come la sola Chiesa di Pietro (al quale toccò l'Italia quando i discepoli si misero a predicare il vangelo) restò sempre salda nella [vera] fede. Altrove, o la dottrina di Cristo è sconosciuta, oppure è inquinata da errori. Non deve stupirci. A Pietro il Signore ha promesso: «Io ho pregato per te, che la tua fede non venga meno» (Lc 22, 32).

 

 

[Credo nel]la comunione dei santi e [nel]la remissione dei peccati

 

    Come in un organismo vivente l'attività di un membro torna a vantaggio dell'insieme, qualcosa di simile accade nel corpo mistico che è la Chiesa. Il bene compiuto da uno, si comunica agli altri fedeli; infatti «pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12, 5). Sicché, tra le altre verità di fede, gli apostoli ci hanno tramandato questa, della «comunione dei santi», ossia la comunanza nei beni spirituali.

    Cristo è il capo; la Chiesa ne costituisce il mistico organismo, secondo l'espressione paolina: «[Egli] è il capo di tutta la Chiesa, la quale è il suo corpo» (Ef I, 22-23) e quanto di bene c'è in lui, si diffonde nei cristiani mediante i sacramenti. Agisce in essi l'efficacia del sacrificio di Gesù, la grazia in remissione dei peccati.

    Come sappiamo, i sacramenti sono sette.

        

    I. Il battesimo equivale a una rinascita spirituale. Un uomo inizia la sua esistenza terrena con la propria nascita e così pure la vita spirituale comincia in lui mediante la rinascita operata dal battesimo. «Se uno non rinasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5).

    Si nasce una sola volta, e una sola volta si riceve il sacramento del battesimo. «Credo - perciò - in un solo battesimo».

    La sua funzione consiste nel purificare l'uomo da qualunque peccato, sia riguardo alla colpa e sia alla [relativa] pena. Tant'è vero che ai neo-battezzati non viene imposta alcuna penitenza riparatrice, si fosse pure trattato dei peggiori uomini del mondo. Morendo subito dopo il battesimo, un uomo entrerebbe direttamente in paradiso. Questa è la ragione per cui, sebbene spetti d'ufficio soltanto al sacerdote amministrare il battesimo, in caso di necessità può fare altrettanto chiunque; basterà osservare la formula sacramentale: «Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».

    La virtù del primo sacramento promana dalla passione di Cristo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte?» (81). La triplice immersione vuole simboleggiare i tre giorni durante i quali Gesù rimase entro il sepolcro.

 

     2. Cresima o confermazione. A ogni essere che nasce sono necessarie le forze per poter agire; così l'uomo che rinasce spiritualmente ha bisogno di essere corroborato dallo Spirito Santo. Gli apostoli stessi, affinché la loro azione risultasse vigorosa, ricevettero lo Spirito, dopo l'ascensione di Cristo (cf. Lc 24, 49).

    A noi, tale aiuto viene conferito nel sacramento della confermazione. Perciò, chi ha cura dei fanciulli dev'essere molto diligente affinché vengano cresimati, trattandosi di una grazia assai importante. Il cristiano che muore col sacramento della cresima - e quindi dopo aver ricevuto un aumento di grazia - riceve un maggior grado di gloria.

 

     3. Eucarestia. Nato che sia e raggiunto un certo sviluppo, un essere umano ha necessità di assumere regolarmente cibo; per la vita spirituale esso è costituito dal corpo di Cristo, in base alle sue stesse parole: «Se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita soprannaturale» (Gv 6, 54). Quindi, secondo le norme stabilite dalla Chiesa, ogni cristiano riceverà almeno una volta all'anno l'eucarestia, dopo essersi debitamente preparato e purificato: chi infatti «mangia il pane o beve il calice del Signore in modo indegno» (I Cor II, 27) - ossia con la coscienza d'esser in colpa grave, di cui non si sia confessato né si proponga di evitare in futuro - «mangia e beve la propria condanna» (82).

 

    4. Confessione o penitenza. Succede anche al nostro organismo di ammalarsi e - qualora non intervenga a tempo un rimedio efficace -, di morire. Nell'ordine spirituale è il peccato che produce le infermità [spesso gravissime, come nel caso del peccato mortale] (83). Sicché, per recuperare la salute, è indispensabile una medicina: la grazia contenuta nel sacramento della penitenza. «Egli perdona tutte le tue colpe e ti risana dalle infermità» (Sal 102, 3).

I requisiti di una buona confessione sono tre: il dolore perfetto dell'animo per aver offeso Dio, un'accusa integrale dei peccati e la riparazione mediante opere penitenziali.

 

    5. Estrema unzione (84). Sono tante le cause che impediscono all'uomo di purificarsi in maniera completa dalle conseguenze [punitive] del peccato; e siccome nessuno può partecipare della vita eterna se prima non sia perfettamente mondato, si rese opportuna la istituzione di un altro sacramento in forza del quale l'uomo gravemente ammalato sia purificato dalle colpe e, a Dio piacendo, riottenga la sanità del corpo. Il sacramento della estrema unzione prepara l'uomo all'ingresso nel regno celeste.

    (Quando non si verifichi l'effetto di una guarigione fisica, ciò dipende dal fatto che un prolungamento della vita terrena non sarebbe giovevole alla salute spirituale). Ne parla diffusamente l'apostolo Giacomo: «Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con l'olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà, e se ha commesso peccati gli saranno perdonati» (Gc 5, 14-15).

 

    6. Ordine. Dovrebbe risultare evidente, ormai, che facendo ricorso ai cinque sacramenti fin qui esaminati, il cristiano può condurre una soddisfacente vita spirituale.

    Occorrono ovviamente degli uomini che li amministrino. Ecco il sacramento dell'ordine sacro, che abilita all'esercizio della consacrazione e amministrazione sacramentaria.

    Se la loro vita [personale] non appare esemplare, dobbiamo fermare l'attenzione sulla virtù del Cristo, da cui i sacramenti traggono efficacia. Quanti hanno ricevuto l'ordine sacro diventano «ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio» (I Cor 4, 1).

 

    7. Matrimonio. Grazie al settimo sacramento, i coniugi che lo vivano onestamente possono non soltanto salvarsi ma acquistare dei meriti. Difficile per loro evitare quei peccati veniali causati dalla stessa concupiscenza; che se poi non rispettassero i fini del matrimonio la loro colpa diverrebbe grave (85).

    I sette sacramenti perfezionano la remissione dei peccati, cui fa riferimento il Credo.

    Furono gli apostoli a ricevere la facoltà di concedere il perdono delle colpe morali e da essi, come a loro volta essi medesimi dal Cristo, uguale potestà viene conferita ai ministri della Chiesa. La nostra fede ci insegna che appartiene al Papa il pieno potere «di sciogliere e di legare» e, secondo una gradualità, agli altri prelati.

    I cristiani partecipano non solo all' efficacia del sacrificio di Cristo, ma ai suoi meriti, e addirittura partecipano dei meriti dei santi; tali meriti si propagano in tutti coloro che vivono nella grazia, dal momento che formiamo assieme il corpo mistico di Cristo.

    Ne deriva che, vivendo nella carità, ciascuno di noi partecipa della sia pur minima opera virtuosa che si compia nel mondo. Ne godranno però in modo particolare quelle persone che siano presenti nelle intenzioni di chi fa il bene. Uno potrà pagare al posto di un altro, e lo si vede ad esempio nel caso delle congregazioni religiose che ammettono altri a valersi dei meriti di una data famiglia spirituale (86).

    In forza della comunione tra i santi, i meriti di Gesù sono distribuiti a ciascun fedele, e così i nostri meriti personali. Gli scomunicati, trovandosi a essere estromessi dalla società ecclesiale, perdono gran parte del tesoro dei meriti comuni. E questo è un danno tutt'altro che trascurabile, giacché supera qualunque altro fallimento nei beni temporali.

    Inoltre, mentre il diavolo si trova ostacolato nella sua opera malefica proprio dai suffragi cui accenniamo, chi se ne priva facilita l'azione deleteria del Tentatore [per tutto il tempo che uno vive separato dalla Chiesa].

    Accadeva spesso così, nella Chiesa primitiva, che non appena qualcuno era scomunicato, immediatamente diveniva preda del diavolo, anche fisicamente.

 

 

Aspetto la risurrezione dei morti

 

   Lo Spirito santifica la Chiesa non solo riguardo alle anime: in virtù del suo intervento infatti i nostri corpi risorgeranno. Egli «ha risuscitato dai morti Gesù Cristo, nostro Signore» (Rom 4, 24) e «in virtù di un uomo [che è appunto Gesù Cristo] c'è una risurrezione dei morti» (I Cor 15, 21).

    Perciò, sorretti dalla fede cattolica noi crediamo che un giorno avverrà la risurrezione [dell'intero genere umano]. Il che ci suggerisce alcune considerazioni: l'utilità derivante dal credere nella risurrezione stessa; le prerogative dei corpi risorti, in generale; le qualità dei giusti resuscitati, e

quelle dei reprobi.

    I. La fede e la speranza nella risurrezione ci offrono diversi vantaggi, e prima di tutto la liberazione dalla tristezza derivante dal pensiero dei morti. Infatti, pur essendo impossibile non dolersi per la morte dei propri cari, tuttavia la speranza d'incontrarli nuovamente il giorno della risurrezione tempera notevolmente il dolore causatoci dalla separazione. Ci esorta l'Apostolo:

  «Non vogliamo poi lasciarvi nell'ignoranza, o fratelli, circa i defunti, affinché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4, 1 3).

    Cessa il timore per la morte [che ci attende]. Se nel morire l'uomo non sperasse in una vita migliore dell'attuale, senza dubbio la morte risulterebbe tremendamente assurda; e l'uomo si sentirebbe autorizzato a compiere ogni sorta di iniquità, nel tentativo di sfuggire alla morte. Ma poiché siamo certi che esiste una vita migliore di questa, una vita cui approderemo attraverso la morte, è chiaro che nessuno ha più motivi di temere, come pure, per timor della morte, di compiere scelte immorali; Cristo infatti prese un corpo [umano] «per ridurre all'impotenza mediante la morte colui che ha il potere della morte, cioè il diavolo» (Eb 2, 14-15).

    Un tale pensiero, ci rende solleciti e diligenti nel compiere il bene; se infatti l'uomo dovesse vivere solo questa vita temporale, non troverebbe in ciò un efficace incentivo a ben fare: qualunque cosa gli sembrerebbe inadeguata dal momento che il desiderio umano non è vincolato ad alcuno dei beni particolari e per un tempo determinato, bensì è rivolto alle realtà eterne e senza limitazioni di sorta.

    Ora, siccome noi crediamo che tutto ciò che andiamo compiendo sulla terra riceverà un'eterna ricompensa alla risurrezione finale, ci ingegniamo d'agire rettamente. «Se riponessimo la nostra speranza nel Cristo soltanto in questa vita - scrive san Paolo - siamo da compiangere più di tutti gli uomini» (I Cor 15, 19).

    Infine ci ritrae dal male. Difatti, come induce al bene la speranza del premio, così il timore delle pene che sappiamo essere riservate ai reprobi ci tien lontani dal peccato. Vedi il Vangelo: «Quelli che hanno operato il bene usciranno dai sepolcri per la risurrezione di vita; quelli invece che fecero il male, per una condanna» (Gv 5, 29).

 

    2. Riguardo poi alle prerogative dei corpi risorti, bisogna sapere che talune note interesseranno tutti indistintamente.

    L'identità dei corpi risuscitati: riavrà il soffio vitale lo stesso corpo che abbiamo ora (stessa carne, stesse ossa ecc.), sebbene tal'uno sostenga il contrario; ma è tesi che si allontana dall'insegnamento dell'Apostolo. Egli dichiara infatti: «E' necessario che questo corpo corruttibile si rivesta d'incorruttibilità e che il nostro corpo mortale si rivesta d'immortalità» (1 Cor 15, 53).

    Anche altrove la sacra Scrittura afferma che, per virtù divina, riprenderà a vivere lo stesso e medesimo corpo; vedi Giobbe: «Nuovamente rivestito della mia pelle, attraverso questi sensi vedrò Dio!» (Gb 19, 26).

    La condizione dei corpi che riprenderanno a vivere sarà però differente dalla condizione terrena: beati e reprobi riceveranno corpi incorruttibili, senonché i primi vivranno immersi nella gloria, i secondi per sempre nelle pene [infernali]. Abbiamo già citato l'espressione della lettera ai Corinti (1 Cor 15, 53). Trattandosi di corpo incorruttibile e immortale, non ha senso parlare più di cibo né di piaceri sessuali. Secondo l'evangelista «dopo la risurrezione non si ammoglieranno né si mariteranno, ma saranno simili agli angeli di Dio in cielo» (87).

    Questa è una verità [rivelata], contro le credenze dei sadducei e dei saraceni. «Chi scende nello sheol più non ne risale; non ritorna nella propria casa» (Gb 7, 9-10).

    Tutti, buoni e cattivi, risorgeranno con quella integrità corporale che attiene all'individuo. Non vi saranno più ciechi, zoppi o menomati in altra maniera. L'Apostolo scrisse ai Corinti: «I morti risorgeranno incorrotti» (I Cor 15, 52), ossia immutabili, rispetto alle presenti imperfezioni.

    Riguardo all'età, tutti risorgeranno in un'età congrua, sui trentadue-trentatré anni; e la ragione è questa; chi morì prima d'esservi giunto, non conobbe l'età che esprime il vigore ideale dell'uomo, mentre i vecchi riavranno la perfezione della giovinezza (88). Sulla parola dell'Apostolo «tutti arriveremo allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4, 13).

 

    3. Circa la risurrezione dei buoni in particolare bisogna sapere che li attende una gloria specifica: i santi riceveranno dei corpi glorificati, con quattro specifiche qualità: lo splendore cui accenna Matteo: «I giusti splenderanno come il sole, nel regno del loro Padre» (Mt 13, 43). La liberazione dal dolore o impassibilità, secondo che afferma san Paolo: «[Il corpo] seminato spregevole, risorge glorioso; si semina debole e risorge vigoroso» (I Cor 15, 43). E nell'Apocalisse: «Egli tergerà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno» (Ap 21, 4). E l'agilità: «Nel giorno della loro ricompensa risplenderanno e scorreranno leggeri, simili a scintille nella stoppia» (Sap 3, 7). Infine la sottigliezza: «Si semina corpo materiale, risorge spirituale» (I Cor 15, 44). Non nel senso di puro spirito, bensì di corpo materiale ma totalmente assoggettato allo spirito.

 

    4. A proposito della condizione dei dannati, essa sarà l'opposto della condizione beata: in essi si avrà pena eterna, con le seguenti caratteristiche. Riceveranno corpi tenebrosi. Vi accenna Isaia: «I loro visi saranno visi riarsi» (Is 13, 8). Corpi sensibilissimi [a ogni sofferenza], che tuttavia mai potranno ridursi in cenere, e pur ardendo eternamente non ne risulteranno consunti; è il concetto di Isaia: «Il loro fuoco non sarà mai estinto» (Is 46, 24). Saranno inoltre, i loro, dei corpi estremamente materiati: difatti l'anima rimarrà come reclusa in un carcere angusto. «I re - dice un salmo - saranno avvinti in catene» (Sal 149, 8).

    E infine quell'anima diverrà, come il corpo, in certo modo incarnita. Si rammentino le parole di Gioele: «I giumenti finirono per marcire tra i loro stessi rifiuti» (89).

 

 

E [aspetto] la vita eterna. Amen.

 

    Queste parole concludono il Simbolo della fede, alludendo al coronamento di ogni desiderio del cuore umano, e cioè la vita eterna.

    E' una proposizione che contraddice quanti opìnano una morte dell'anima, assieme a quella che la separa dal corpo. Se ciò fosse vero, la condizione umana non sarebbe diversa da quella degli animali bruti, che morendo ritornano nel nulla (cf. Sal 48, 21).

    La nostra anima invece è quasi un riflesso della immortalità di Dio, e può essere paragonata alle bestie solo per gli eccessi della concupiscenza. Sostenendo che essa muoia assieme al corpo, ci si allinea con quelli [abbrutiti dal peccato] di cui sta scritto: «Non conoscono i segreti di Dio; non sperano ricompensa per il retto vivere né credono a un premio destinato alle anime pure. Sì, Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno [la più amara] esperienza (90) coloro che gli appartengono» (Sap 2, 22-23).

    Cos'è la vita eterna?

    Essa è innanzi tutto la comunione [perfetta e interminabile] dell'anima con Dio, che diviene così premio e coronamento di ogni nostra fatica. Nel significato più ampio sarà vera la sua promessa: «Io sono il tuo protettore e la tua ricompensa infinitamente grande» (Gn 15, 1).

    Questa fusione tra l'anima e Dio si attua attraverso la perfetta visione della divina essenza. «Adesso [infatti] vediamo [Dio] come in uno specchio, in maniera confusa, allora invece a faccia a faccia» (I Cor 13, 12). La nostra lode diverrà anch'essa un cantico perfetto, poiché per usare le parole di Agostino «vedremo, ameremo, loderemo» e nella visione beatifica troveremo gaudio e allegrezza, e l'anima sarà tutta un inno di ringraziamento e di lode (cf. Is 51, 3).

    Perfetta la sazietà dei nostri desideri: nella vita eterna infatti ogni beato avrà ben più di quanto possa desiderare e sperare; e la ragione è evidente: quaggiù è impossibile soddisfare l'umana brama di felicità; quaggiù non c'è alcun bene creato [neppure l'intero universo] che sia capace di placare appieno gli aneliti dell'uomo. Dio soltanto vi riesce, anzi supera qualunque nostro desiderio, all'infinito. Agostino ha scritto con ragione: «Ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro cuore non troverà quiete fin quando non riposi in te».

    Ora, i santi possedendo Dio perfettamente nella gloria beatifica, sono saziati in ogni loro desiderio. La ricchezza della gloria celeste sarà sempre superiore a ogni nostra aspettativa. Il servo buono e fedele prenderà parte alla gioia del suo Signore (cf. Mt 25, 21) e, secondo che osserva Agostino, non sarà tanto il gaudio divino a entrare nel cuore umano quanto piuttosto l'uomo e ogni sua facoltà a immergersi interamente nella stessa beatitudine di Dio. Contempleremo il suo volto, ci sazieremo della sua presenza (cf. Sal 16, 15), in una giovinezza eternamente rinnovata (cf. Sal 102, 5).

    Tutto ciò che di piacevole possiamo immaginare lo troveremo con la visione beatifica, in maniera sovrabbondante. L'uomo trova in Dio - sommo bene - il massimo diletto: nell'Onnipotente avremo ogni delizia (cf. Gb 22, 26), gioia piena alla sua presenza, dolcezza senza fine derivante dal trovarci, tra gli eletti, alla sua destra (cf. Sal 15, l1).

    Vi troveremo il più alto grado di onore. Gli uomini laici considerano il massimo degli onori diventare re, i chierici ambiscono alla dignità episcopale; ebbene, nella gloria celeste, sarà piena la nobiltà regia e sacerdotale dei figli di Dio (cf. Ap 5, 10; cf. Sap 5, 5).

    La sete di sapere riceverà completa soddisfazione: i segreti della natura e qualunque verità che vorremmo investigare, tutto quello che può essere oggetto dell'umana conoscenza l'avremo assieme alla vita eterna (cf. Prv 10, 24).

    Essa poi porterà con sé quella perfetta sicurezza che invano cerchiamo qui in terra. Quanto più possediamo di beni materiali o siamo insigniti di alte cariche, tanto più temiamo di perdere gli uni o le altre, e dobbiamo far ricorso a mille accorgimenti per difenderne il possesso. Nella vita eterna, al contrario, è sconosciuta la minima tristezza, la minima angustia, il minimo timore. Vi sarà piena tranquillità e sicurezza da qualunque apprensione (cf. Prv I, 33).

    Infine, la vita eterna consiste nella beatificante convivenza tra i beati: la più amabile delle società, essendovi la piena comunione dei beni. Là, veramente, ognuno ama il prossimo suo come se stesso, e godrà del bene posseduto da altri quanto del proprio. Ne deriva che il gaudio generale accrescerà la letizia del singolo, in un vicendevole apporto di felicità (cf. Sal 86, 7).

    I santi godranno, in patria, di questi beni accennati e di molti altri che non riusciamo a descrivere.

    I reprobi, invece, cominceranno a vivere la morte eterna, soffrendo nell'anima e nei sensi non meno di quanto gli eletti godranno nella gloria.

    Il loro tormento sarà accresciuto:

    - dalla separazione da Dio e da qualsiasi altro bene. E' la cosiddetta pena del danno, correlativa all'avversione [da essi nutrita durante la vita terrena riguardo a Dio], e supera quella dei sensi. Quaggiù il peccatore visse nelle tenebre dello spirito, ma dopo il giudizio finale anche i suoi occhi conosceranno la totale privazione della luce: verrà gettato nelle tenebre, tra il pianto e lo stridere dei denti (cf. Mt 25, 30);

    - dai rimorsi della coscienza, che [in nome di Dio] gli ripeterà: «Ti rimprovero: ti pongo innanzi i tuoi peccati» (Sal 49, 21). Gemerà senza sosta il loro spirito tormentato (cf. Sap 5, 3). Ma un simile pentimento e i gemiti più accorati saranno del tutto inutili non traendo ormai più origine dalla compunzione di aver peccato, bensì dalle insostenibili pene;

    - vi si aggiunga la pena riservata ai sensi, il fuoco infernale, capace di tormentare e il corpo e l'anima. Sarà una delle sofferenze peggiori, e si troveranno nella condizione di chi stia sempre sul punto di morire e invece non muore mai. Ecco perché la loro condanna si usa chiamarla morte eterna. «Come pecore sono avviati agli inferi, loro pastore sarà la morte (...). L'inferno sarà la loro dimora» (91).

    E li avvinghierà la disperazione nel sapersi irrimediabilmente perduti. Se infatti restasse in loro appena un barlume di speranza d'essere liberati dalle pene, già questo costituirebbe un lenimento del loro [eterno] soffrire. Venendo meno qualunque ragionevole speranza, tutto diviene più atroce.

    Resta chiarita la radicale differenza tra il bene e il mal'operare: l'uno conduce alla vita, l'altro alla morte [eterna]. Gli uomini perciò dovrebbero ricordarsi spesso di queste verità atte a stimolare al bene e a frenarli dinanzi al male.

    Efficace la chiusa del Credo, col suo richiamo alla vita eterna, affinché si imprima a fondo nella memoria l'anelito verso la vita immortale, cui voglia condurci il Signore, Gesù Cristo, Dio benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

 

 



30/01/2015 12:15

(35) Celebre l'espressione assiomatica di san Paolo: «Chi si accosta a Dio deve credere nella sua esistenza, e che egli premia quelli che lo cercano» (Eb 11, 6). Estranee al contesto del brano citato, ma ugualmente fondamentali, sono altre verità rivelate, quali la fede nella Trinità e nella incarnazione del Verbo.

(36) Ossia, il complesso delle realtà di «questo mondo ove trascorre la nostra vita fuggevole» (Paolo VI, Professione di fede) - beni temporali, appetiti e sregolatezze - che costituisce un mondo in frequente opposizione col retto vivere. Da queste tre radici hanno origine tutte le infrazioni al codice divino.

(37) cf. Sir 3, 25. «Questi due nomi 'Essere' e 'Amore' esprimono ineffabilmente la stessa realtà di Colui che ha voluto darsi a conoscere a noi e che 'abitando in una luce inaccessibile' (1 Tm 6, 16) è in sé stesso al di sopra di ogni nome, di tutte le cose e di ogni intelligenza creata. Dio solo può darci la conoscenza giusta e piena di sé stesso, rivelandosi come Padre, Figlio e Spirito Santo» (dalla Professione di fede, di Paolo VI).

(38) cf. 2 Tm l, 12; cf. Sir 2, 8. L'«Ecclesiastico», uno dei sapienziali dell'A.T. ha come autore uno scriba di Gerusalemme vissuto intorno all'anno 200 a.c. e chiamato Ben Sirac. Si è preferito perciò indicare la sua opera come «Libro del Siracide» o semplicemente Siracide, meno equivoco, per la mentalità moderna, del titolo latino, che; italianizzato, era divenuto il «Libro dell'Ecclesiastico».

(39) Con il termine sancti, preso nella sua accezione maggiormente estensiva, san Tommaso intende prima di tutto gli scrittori divinamente ispirati dell'A. T., sino agli evangelisti, al collegio apostolico, a Paolo e agli altri autori delle «lettere cattoliche», senza escludere i successivi dottori della Chiesa, i quali rifulsero per santità di vita oltre che per ortodossia.

(40) Sap 14, 21. Per gli orientali il nome definiva l'essenza del portatore, quasi parte integrante della persona. Identità, dunque, tra il nome e la persona divina. Nome, il suo, non imponibile ad alcuna creatura, unico come è unico Dio. Cf. Is 42, 8: «Io sono il Signore: questo è il mio nome; non darò ad altri la mia gloria, né ai simulacri l'onore che mi è dovuto».

(41) Antichi strumenti portatili, quasi sempre di rame o d'ottone, coi quali gli astronomi e gli astrologi seguivano i moti delle stelle. Qui evidentemente sono oggetto di condanna in quanto potevano essere usati per scopi cultuali o magici.

(42) Da vero sapiente, Tommaso alterna alle subtiles rationes della teologia speculativa qualche esempio elementare (quodam rudi exemplo), come nel caso del paragone di cui si serve per rendere accessibile ai fedeli raccolti intorno al pulpito la famosa quanto ardua quarta via, sui gradi di perfezione dell'ente.

(43) cf. Gn I, 1; cf. Gv I, 3. Sui manichei, vedi nota n. 51.

(44) Vescovo eretico, di Sirmio; fu condannato dal concilio di Antiochia (345), ed esiliato.

(45) Eretico del III sec., sostenitore di una dottrina antitrinitaria. I suoi seguaci erano detti anche patripassiani, sostenendo che, data la identità tra il Padre e il Verbo, nella persona di Gesù avrebbe patito il Padre.

(46) Teologo africano nato alla fine del secolo III; sostenitore di Origene, finì per ridurre il cristianesimo a un sistema di elementi razionali, svuotandolo di ogni contenuto religioso

(47) Unione ipostatica è quella delle due nature, umana e divina, nella persona del Cristo.

(48) Il concilio che nel 325 venne indetto per difendere l'ortodossia dagli attacchi dell'arianesimo - che tra l'altro negava la consostanzialità del Figlio al Padre -, mediante un simbolo conclusivo, o «fede di Nicea».

(49) Origene (185 circa - 254 circa) è tra i maggiori eruditi e tra i primi e più geniali apologeti del cristianesimo antico. Tuttavia alcuni punti del suo sistema teologico si sono prestati a sviluppi inesatti, tra cui ricorderemo una certa subordinazione del Logos (o Verbo) al Padre, la creazione ab aeterno, la preesistenza delle anime.

(50) Vescovo eretico, di Sirmio; fu condannato dal concilio di Antiochia (345), ed esiliato.

(51) Si riallacciavano a Mani, e professavano una visione dualistica del mondo, predicando la coesistenza e il conflitto dei due opposti principi, il bene e il male. Il più celebre convertito da questa suggestiva teoria resta sant'Agostino.

(52) Forse il nome di Ebione deve essere considerato nome comune (quindi dovremmo leggere: «un ebreo, della setta ebionita»). Oltre però al movimento ereticale, vi erano degli ebioniti giudeo-cristiani nei limiti dell'ortodossia.

(53) Per Valentino, filosofo gnostico del II secolo, dall'accentuata concezione mistico-visionaria della realtà, lo stesso Cristo sarebbe stato uno - e certo il più alto - degli «eoni» (ossia delle emanazioni divine, intermedie tra Dio e l'uomo), cui fu riservato il compito di presentare la rivelazione.

(54) Teologo africano nato alla fine del secolo III; sostenitore di Origene, finì per ridurre il cristianesimo a un sistema di elementi razionali, svuotandolo di ogni contenuto religioso.

(55) Apollinare il Giovane, vescovo di Laodicea, vissuto al tempo di Agostino neo-convertito. Fu condannato ripetutamente per la sua errata dottrina sull'incarnazione.

(56) Archimandrita di un monastero greco (348-454 circa), avversario delle tesi nestoriane, cadde nell'errore opposto, negando l'esistenza di una vera natura umana nel Cristo.

(57) Patriarca di Costantinopoli, morto intorno al 451, è famoso tra l'altro per la controversia sul termine di theotòkos (madre di Dio), che egli negava alla Vergine Maria.

(58) Nel concludere il racconto delle visioni dell'Apocalisse (22, 8-9), Giovanni cade in ginocchio con l'intento di prostrarsi ai piedi dello spirito celeste che gli ha mostrato la nuova Gerusalemme. Ma l'angelo gliel'impedisce.

(59) «Tutto quanto il popolo rispose [a Pilato]: 'Il sangue di costui [ricada] su di noi e sui nostri figli'» (Mt 27, 25). Ai commentatori che fanno notare come neppure quarant'anni dopo la splendida capitale sarà distrutta e i pochi scampati alla morte verranno dispersi - quasi come indubitabile castigo per l'indubitabile tentato deicidio -, altri fanno notare che la folla, osannante il «giorno delle palme», poté mutare il proprio atteggiamento nei confronti di Gesù in maniera radicale solo a seguito della infuocata campagna denigratoria svolta dai sommi sacerdoti e dagli anziani. Nelle ultime ore infatti essi hanno diffuso tra quella gente fanaticamente religiosa la frase di Gesù contro il tempio e l'accusa di bestemmia (Mc 15, 29). «La folla, gelosa dell'onore di Dio e del suo santuario, ne è profondamente colpita e reagisce contro il Maestro, reclamando la sua crocifissione» (F. URICCHIO - G. STANO in: Vangelo sec. s. Marco, Marietti 1966, pp. 618-619).
Assai di recente l'episcopato francese ha precisato, in un testo di orientamento pastorale, che «è errore teologico, storico e giuridico ritenere il popolo ebraico indistintamente colpevole della passione e morte di Cristo, e definitivamente spogliato della sua elezione». (cf. Concilio Vaticano II, NA, n. 4).

(60) Commentando questo passo di Mt 26, 54 san Tommaso ci insegna che Dio conosce le cose in se stesse sia prevedendo eventi futuri, sia stabilendoli egli stesso (salva sempre la libertà umana). Si dice che le profezie «dicono che una cosa dovrà accadere» nel senso che i profeti, vedendo l'evento futuro sul libro della prescienza divina, hanno percepito un riflesso, un barlume della prescienza medesima. E Gesù, perfettamente conscio dei disegni provvidenziali attraverso cui si realizza la salvezza dell'uomo, ne accetta ogni dettaglio, confermando così l'onniscienza di Dio e la credibilità dei profeti. (cf. Comm. in Matthaeum 26, 54; cf. Sum. theol. II-II q. 173, a. I; ib. q. 174, a.I).

(61) cf. Sal 87, 4. Solo con la rivelazione del N.T. si è fatta sufficiente luce circa la retribuzione ultraterrena, potendosi ormai discernere nell'oltretomba (sheol) il limbo, il purgatorio e l'inferno, di contro al regno dei cieli (seno di Abramo).

(62) La circoncisione indicava a un tempo separazione dagli idolatri, appartenenza al popolo eletto discendente da Abramo, e costituiva il simbolo profetico del battesimo purificatore.
Riconsiderando i problemi connessi con la tradizionale dottrina sul limbo dei bambini, alcuni teologi si orientano oggi verso nuove soluzioni. Il cristianesimo - religione che estende al massimo le possibilità di conseguire la salvezza e la fruizione della visione beatifica -, come fa notare J. GALOT non è unicamente «una religione di adulti». Egli pone in rilievo che «il battesimo è principalmente un atto della comunità, e il voto del battesimo [come, analogamente, quello della circoncisione, Ndt] è sempre comunitario prima d'essere individuale: la Chiesa è sempre la prima a desiderare il battesimo e questo desiderio concerne tutti gli esseri umani. Nel caso dei bambini è la comunità ecclesiale che supplisce all'assenza di volontà personale». L'estensione della salvezza concessa ai piccoli, morti senza battesimo, [o senza circoncisione, Ndt] si accorderebbe meglio con la paterna bontà di Dio (cf. Civiltà Cattolica 1971, II, pp. 345-346).

(63) Per san Tommaso quel grido vorrebbe mettere in risalto le energie latenti, rimaste intatte anche dopo il supplizio della croce in quello straordinario soggetto dell'unione ipostatica.

(64) Is 14, 13. «Il versetto contiene la somma espressione dell'orgoglio anti divino. E per 'monte dell'assemblea o dell'adunanza' Isaia si rifà a una concezione mitologica fenicia, secondo la quale un'altissima montagna del settentrione era la dimora degli dèi» (Nuovissima versione della Bibbia, Isaia, Roma 1968).

(65) Col 3, I. «La vita soprannaturale a cui siete risuscitati è nascosta in Dio, perché è una partecipazione della vita gloriosa del Cristo, la quale è sottratta agli occhi del mondo. Mentre voi infatti siete figli di Dio, il mondo non vede in voi che figli di Adamo afflitti, deboli, perseguitati, ecc. Ma non sarà sempre così, poiché quando Cristo comparirà alla fine dei tempi in tutto lo splendore della sua gloria, allora anche in voi la vita soprannaturale si manifesterà pienamente nella gloria non solo dell'anima, ma ancora del corpo» (M. SALES, Nuovo Testamento, vol. II, Torino 1914).

(66) cf. Qo II, 9; cf. Sir 12, 6. Il nome ebraico Qohélet è ormai subentrato all'uso antico, per indicare uno dei libri sapienziali più discussi e suggestivi dell'A.T. l'Ecclesiaste.

(67) Forse per la loro collocazione nella cavità addominale e su una linea mediana che idealmente attraversi il corpo umano, i reni venivano considerati simbolo dell'intimo da cui procedono desideri e passioni e in cui si ripercuotono i sentimenti di gioia, odio e tristezza.

(68) cf. Prv 6, 34. «Andranno alla vita eterna coloro che hanno risposto all'amore e alla misericordia di Dio, e andranno nel fuoco inestinguibile coloro che fino all'ultimo vi hanno opposto il loro rifiuto» (Paolo VI, Professione di fede).

(69) Le espressioni «collera di Jahvè» (2 Sam 24, I), l'«ira che deve venire» predicata dal Battista (Mt 3, 7), il «calice dell'ira» che dovrà spandersi sui peccatori (Ap 14, 10), lo sdegno di Dio che si scatenerà nel giorno del giudizio universale hanno ispirato la sequenza del Dies irae, allorché sarà operata una equa discriminazione retributiva tra giusti e peccatori.

(70) Concetto infatti dice idea concepita dalla mente, così come verbo è, innanzitutto, la parola - espressa o inespressa - dell'intelligenza.

(71) 2 Pt I, 21. Alla citazione di Pietro, san Tommaso ne fa seguire una seconda. Il testo masoretico ha: «Il Signore Dio e il suo Spirito mi hanno mandato», il che esprime una verità indubitabile e ampiamente dimostrabile nel caso di ciascun profeta; ma nel contesto di Isaia (48, 16) non essendo chiaro se sia ancora Jahvè che paria oppure il profeta o, cosa inverosimile, Ciro quale esecutore del volere di Dio, si è preferito far ricorso a una annotazione in calce.

(72) Montàno, dopo la sua conversione al cristianesimo, sostenne di esser la voce del Paraclito (Spirito Santo) e di aver avuto visioni preannunzianti il non lontano ritorno di Cristo. Predicava fantasie pseudoreligiose accompagnato da due profetesse, Priscilla e Massimilla (e secondo taluni da una certa Quintilla).

(73) 1 Pt 4, 8. Sopraggiungendo come un valido intercessore che, interpostosi figuratamente tra le nostre colpe e Dio, lo induce al perdono.

(74) Ez 36, 26. Il cuore che s'indurisce, nella letteratura ebraica, denota la volontà ribelle dell'uomo; perciò con la metafora del cuore di pietra che torna a essere sensibile e vibrante si vuole esprimere, ed è il caso della citazione di Ezechiele, il ritorno a Dio, la conversione.

(75) cf. 1 Cor 3, 17. « Essa - secondo la meditata formula di Paolo VI - 'è santa pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini che impediscono l'irradiazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il sangue di Cristo e il dono dello Spirito Santo'. Questo inestricabile intreccio di grazia e di peccato, questa orditura di fedeltà e di tradimenti, dalla trama della vita secolare affiora sul tessuto della stessa Chiesa; la quale, santa in se stessa e per l'apporto dei figli migliori, si deve pur riconoscere peccatrice in tanti di noi che la realizziamo» (R. SORGIA, Ma lo conosci davvero il Papa?, Cantagalli, Siena, 1971, p. 213).

(76) Sinonimo di Messia, Perciò il servo di Jahvè, come ogni uomo consacrato al servizio di Dio, è sacro e inviolabile.

(77) Seguaci dello scismatico vescovo africano Donato, contemporaneo di sant' Agostino.

(78) «Erede delle promesse divine e figlia di Abramo secondo lo spirito, per mezzo di quell'Israele di cui custodisce con amore le Scritture e venera i patriarchi e i profeti; fondata sugli apostoli e trasmettitrice, di secolo in secolo, della loro parola sempre viva e dei loro poteri di pastori nel successore di Pietro e nei vescovi in comunione con lui; costantemente assistita dallo Spirito Santo, la Chiesa ha la missione di custodire, insegnare, spiegare e diffondere la verità che Dio ha manifestata in una maniera ancora velata per mezzo dei profeti e pienamente per mezzo del Signore Gesù» (Paolo VI, Professione di fede).

(79) L'interiore religiosità, la sua morte - tipo del sacrificio di Cristo innocente - e primizia dei martiri per la causa della giustizia lo accomunano idealmente al popolo di Dio che è la Chiesa santa.

(80) Scrive san Leone il Grande, commentando la ricorrenza liturgica della cattedra di Pietro: «Il diritto di questo potere passò senza dubbio anche agli altri apostoli e la costituzione di questo decreto pervenne a tutti i principi della Chiesa; ma non senza un motivo viene affidato a uno solo, quello che a tutti viene imposto. Perciò il potere è concesso in modo particolare a Pietro perché la figura di Pietro viene preposta a tutti i reggitori della Chiesa».

(81) Rm 6, 3. La forma battesimale cui fa cenno subito dopo prevalse fino al secolo XII.

(82) I Cor II, 29. «Noi crediamo che la Chiesa è necessaria alla salvezza, perché Cristo, che è il solo mediatore e la sola via di salvezza, si rende presente per noi nel suo corpo [mistico] che è la Chiesa. Ma il disegno divino della salvezza abbraccia tutti gli uomini: e coloro che, senza propria colpa ignorano il vangelo di Cristo e la sua Chiesa ma cercano sinceramente Dio e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere la sua volontà riconosciuta nei dettami della loro coscienza, anch'essi, in un numero che solo Dio conosce, possono conseguire la salvezza» (Paolo VI, Professione di fede).

(83) L'infusione della carità in un'anima è paragonabile al sole nell'atto di illuminare l'aria. Perciò come cessa la luce nell'aria non appena si frapponga un ostacolo all'azione illuminante dei raggi solari, così la carità cessa di pervenire nell'anima non appena [come nel caso della colpa grave] qualcosa ne impedisca l'afflusso. Il fatto che un uomo preferisca finalizzarsi su un bene contingente piuttosto che restare fedele al proprio Dio, ha come conseguenza la perdita dell'abito della carità. Anche per un solo peccato mortale. (cf. Sum. theol. II-II q. 24, a. 12).

(84) Oggi è indicata più opportunamente col nome di unzione degli infermi.

(85) L'Aquinate non ha affatto una visione manichea del matrimonio cui, anche se qui si limita a un breve cenno, nella Somma teologica dedica le questioni 41-68 del «Supplemento».
Per san Tommaso, il matrimonio in quanto è ordinato alla procreazione della prole, fu istituito prima del peccato originale; in quanto invece è un rimedio alle ferite del peccato stesso (rendendo onesta la concupiscenza) entrò in vigore al tempo della legge di natura (cf. q. 42, a. 2).
«Più l'amicizia è grande, più dev'essere salda e durevole. Tra marito e moglie dev'esserci logicamente la più grande amicizia dato che essi si uniscono... per condividere tutti i momenti e le fasi della vita domestica» (Sum. contra gent. lib. 3, c. 123).
Beni del matrimonio sono la prole (che i coniugi cristiani intendono generare e educare, in una specie di esistenziale culto di Dio), la fedeltà reciproca, e la sacralità che lo rende indissolubile e meritorio.
Oltre che un dovere sociale, il matrimonio è sacramento della nuova alleanza, cui si offre a modello l'unione del Cristo con la Chiesa: del Cristo che «accettò la passione per unire a sé la Chiesa» (q. 42, a. I, ad 3um).
San Tommaso dunque considera nella giusta luce il settimo sacramento, intuendo tra l'altro i due significati essenziali - «unitivo e procreativo» - dell'atto coniugale ribadito nell'enciclica Humanae vitae di cui riportiamo un passaggio significativo: «Usare di questo dono divino distruggendo, anche soltanto parzialmente, il suo significato e la sua finalità è contraddire alla natura dell'uomo come a quella della donna e del loro più intimo rapporto, e perciò è contraddire anche al piano di Dio e alla sua volontà. Usufruire invece del dono dell'amore coniugale rispettando le leggi del processo generativo significa riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri nel disegno stabilito dal Creatore» (Humanae vitae, n. 13).

(86) Intendi, ad esempio, terziari e benefattori.

(87) Mt 22, 30. Nella religione biblica è l'analogo soggiorno dei morti chiamato ade dai greci e inferi dai latini. (Vedi anche nota I, a pag. 72). Lo stesso termine inferno designava il sotterraneo paese delle ombre, la casa dei morti, compresi i giusti in attesa del Messia redentore e liberatore.

(88) Nell'esporre il pensiero escatologico della teologia medievale e suo proprio, san Tommaso dà prova d'una discrezione ancor più accentuata del solito, e basandosi sulle rare indicazioni scritturistiche passa in rassegna le qualità dei risorti traendone congetture o conclusioni di razionale convenienza (cf. Sum. theol. Supplem. qq. 79-86).

(89) Gl I, 17. Oggi viene offerta come probabile la lettura: «Sono marciti i semi sotto le zolle», quantunque gli esegeti aggiungano che tre o quattro dei vocaboli ebraici presenti in questa frase non appaiono altrove nella Bibbia (hàpax legòmena).

(90) Si allude qui non alla morte corporale cui farà séguito la risurrezione, bensì alla condizione di estrema amarezza e di definitiva esclusione dei reprobi dalla vita eterna.

(91) Sal 48, 15. Con il termine fuoco, nota altrove san Tommaso, innanzitutto «viene designato qualsiasi tormento, quando è gagliardo» (Sum. theol., Supplem. q. 97, a. I), e quindi può indicare l'insieme delle pene infernali. Come entità fisica, tuttavia non illuminerà l'ambiente (tra le tenebre, il riverbero d'una fiamma apporterebbe di già un qualche sollievo); ma se vi sarà un minimo di chiarore, esso dovrebbe attenuare l'oscurità «quel tanto che basta per lasciar vedere le cose capaci di tormentare [ulteriormente] l'anima» (ib., a. 4). Potrebbe somigliare a quel fuoco torbido che, appiccato allo zolfo, brucia lentamente producendo un fumo denso (cf. ib., a. 6). Nondimeno, ricordiamo che - misteriosamente alimentato - esso non consumerà il corpo dei dannati.

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