. Al primo posto mettete la confessione e poi chiedete una direzione spirituale, se lo ritenete necessario. La realtà dei miei peccati deve venire come prima cosa. Per la maggior parte di noi vi è il pericolo di dimenticare di essere peccatori e che come peccatori dobbiamo andare alla confessione. Dobbiamo sentire il bisogno che il sangue prezioso di Cristo lavi i nostri peccati. Dobbiamo andare davanti a Dio e dirgli che siamo addolorati per tutto quello che abbiamo commesso, che può avergli recato offesa. (Beata Madre Teresa di Calcutta)
 
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San Tommaso d’Aquino

Ultimo Aggiornamento: 30/01/2015 12:17
30/01/2015 11:07

E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori


    Vi sono uomini di una viva intelligenza e intrepidi ma eccessivamente sicuri di sé, sicché finiscono per comportarsi in maniera non saggia e non sempre conducono in porto le loro imprese. «I progetti traggono nuovo slancio dai [saggi] consigli» (Prv 20, 18). Ebbene, lo Spirito Santo ci dà, oltre che il dono della fortezza, anche quello del consiglio. Ogni savia determinazione, profittevole all'umana salvezza, proviene da lui. Ne abbiamo bisogno, specie in mezzo alle miserie [dello spirito], come del consulto medico quando cadiamo infermi. Spiritualmente malati a causa del peccato, abbiamo necessità di conoscere come poter riacquistare [e serbare] la buona salute [dell'anima]. [Ecco il consiglio del profeta Daniele al re Nabucodonosor:] «Cancella i tuoi peccati con l'elemosina» (Dn 4, 24).
    In effetti, sono ottimi - tra gli altri rimedi - l'elemosina e le diverse opere di misericordia. Lo Spirito Santo suggerisce ai peccatori di pregare così: «Rimetti a noi i nostri debiti».
    A Dio va restituito ciò che, dei suoi diritti, possiamo avere illegalmente sottratto. E diritto fondamentale del Signore è che si adempia, piuttosto che il nostro, il suo volere. Noi facciamo l'opposto ogni volta che preferiamo agire discordi dalla sua legge. Questo è il peccato, e «nostri debiti» sono precisamente le nostre colpe. Chiedere che ci vengano condonati i debiti è, appunto, chieder perdono d'aver peccato.
    A questo punto faremo alcune considerazioni, indagando sul motivo della petizione in esame, in quale modo essa trovi esaudimento, e a quali condizioni.

  1.  Bisogna sapere che risultano utilissime all'uomo viatore le virtù del timor di Dio, dell'umiltà [e della speranza] (123).
        Non è mancato chi sostenesse che l'uomo può vivere, nella sua condizione di creatura decaduta, evitando il peccato senza l'appoggio della grazia. Ma questo si è verificato esclusivamente nel Cristo, il quale ebbe in sé lo Spirito [connaturale al Verbo] (124), e nella Vergine Maria - la piena di grazia - immune dalla minima colpa. Usava dire sant'Agostino che in materia di peccato egli non ammetteva neppure che si facesse il nome di Maria.
        Un simile privilegio, di evitare perfino i peccati veniali, non fu concesso neanche ai più grandi tra i santi. Lo stesso Giovanni [il discepolo prediletto da Cristo] confessava umilmente: «Se dicessimo - me compreso - d'essere immuni da colpa, inganniamo noi stessi; non parliamo secondo verità» (I Gv I, 8).
        La petizione di cui trattiamo ne è una riprova. Tutti, si sa, non esclusi gli uomini di santa vita, ripetono la preghiera del Pater, con il suo «rimetti a noi i nostri debiti». Dunque, ognuno si riconosce fallibile, debitore almeno nei riguardi di Dio. E allora, se sai d'essere tale, devi temere la divina giustizia.
        Eppoi [occorre] vivere nella speranza. È vero, siamo peccatori, ma non dobbiamo lasciarci abbattere da questa verità, col rischio di abbandonarci poi ad altre e forse più gravi colpe. È quanto [descrivendo le miserevoli condizioni dei pagani] scrive san Paolo: «Privi di speranza (125), si sono abbandonati all'impudicizia, facendo a gara ogni sorta di azioni infami» (Ef 4, 19).
        Quindi è assai utile non rinunciare mai a nutrire fiducia che Dio, vedendo contrito il peccatore e sinceramente disposto alla conversione, gli conceda il perdono. La speranza si ravviva con le parole: «rimetti a noi i nostri debiti».
        Mortificarono tale speranza i novaziani (126), insegnando che le colpe commesse dopo il battesimo erano destinate a restare senza condono. È falso, in quanto la loro dottrina contrasta con le parole di Gesù [verità per essenza, nella parabola dei servi debitori]: «Io ti ho condonato il debito per intero» (Mt 18, 32).
        Qualunque sia il tuo peccato, se sarai sinceramente pentito, troverai misericordia da parte di Dio (127). Timore, quindi, e speranza; contriti e fidenti, tutti gli uomini saranno accolti dalla misericordia divina.
        Non poteva mancare nella preghiera del Signore questo invito a sperare.
  1.  Nel peccato vi sono due componenti: la colpa, come offesa di Dio, e la pena che ne deriva. Ora, la colpa è perdonata per effetto della contrizione dell'uomo che stabilisca di confessarsi nonché di riparare debitamente. Davide propose, tra sé: «Riconoscerò la mia iniquità, senza aver riguardo a me stesso» (Sal 31, 5), e il Signore gli accordò il perdono.
         Nessun motivo, quindi, di lasciarsi prender dallo sconforto, sapendo che per la remissione della colpa bastano un dolore perfetto [unito al proponimento di non ricadere] (128), e l'intenzione ferma di ricorrere quanto prima al sacramento della penitenza.
        Qualcuno potrà obiettare: «Ma se la contrizione è tanto essenziale da ottenerci il perdono, allora a che serve il confessore?».
        Rispondiamo che Dio, apprezzando il pentimento di chi lo aveva offeso, gli perdona la colpa, commutando del pari la pena eterna in un'altra, temporanea. Ed a quest'ultima, da soddisfare, che resta obbligato il peccatore [assolto]. Se egli morisse prima d'aver potuto far ricorso al sacramento della penitenza (purché non vi sia disprezzo della medesima, ma solo un'imprevista mancanza di tempo), la sua anima andrebbe in purgatorio. Le cui pene, avverte sant'Agostino, son tutt'altro che trascurabili.
        Allorché invece ti confessi, in virtù del potere delle chiavi (129) il sacerdote ti assolve dalla [residua] pena. Ha detto agli apostoli il Signore: «Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi li riterrete saranno ritenuti» (Gv 20, 22-23). Di conseguenza, confessandoci, la pena ci vien rimessa un po' ogni volta; e potrebbe darsi che essa risulti estinta per intero, nel corso di susseguenti confessioni (130).
        I successori degli apostoli hanno ideato altri modi ancora per facilitare l'estinzione della pena [temporale]: il beneficio [ad esempio] delle indulgenze che, per un'anima già rientrata nel rapporto di grazia, hanno quel determinato valore indicato caso per caso, e nella misura in cui saranno adempite le relative condizioni.
        Che ciò rientri nelle facoltà pontificie è abbastanza chiaro. Di molti santi sappiamo che vissero evitando la colpa grave e - compiendo anzi opere altamente meritorie. Il profitto eccedente torna in favore del corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa, assommandosi ai meriti del Cristo e della beata Vergine, in un unico tesoro [di grazie]. Quindi il sommo Pontefice, e quelli a cui egli conceda la facoltà, possono distribuire i suddetti meriti secondo i nostri bisogni.
        Resta così appurato che i peccati trovano remissione non solo quanto alla colpa, bensì riguardo alla pena: mediante il sacramento della penitenza e le indulgenze.
  1.  Noi, da parte nostra, dobbiamo perdonare al prossimo le offese che ci avesse fatto. S'arricchisce il significato del «rimetti a noi i nostri debiti». Diversamente Dio non condonerebbe i nostri. «Un uomo serba rancore verso un proprio simile e chiede a Dio che lo guarisca [nell'anima]?» (Sir 28, 3). «Perdonate - piuttosto -, e sarete perdonati» (Lc 6, 37). A questa sola domanda del Pater è posta accanto una condizione: chiedendo d'essere assolti dalle nostre mancanze come noi [cioè se noi] perdoneremo al prossimo, condizioniamo da noi medesimi l'esaudimento che ci sta a cuore.
        Potresti tentare, forse, una scappatoia. Pensare cioè: «Dirò [al Padre]: 'Rimetti i nostri debiti', evitando però di pronunziare la frase successiva».
        E tu credi di riuscire a ingannare il Cristo? Stai tranquillo che non ti riuscirà. Egli sa a mente la preghiera che ha composto per noi... E allora, se la dici, dilla [per intero], col cuore e coi propositi più concreti.
        Altra questione. Ammesso che taluno decida nel suo intimo di negare il perdono a un altro, deve, costui, o no, aggiungere: «Come noi li rimettiamo ai nostri debitori?» Sembrerebbe meglio di no, altrimenti dirà una menzogna.
        Ma il suo è uno scrupolo fuori luogo, dato che [pur astenendosi dall'aderirvi personalmente] egli continua la preghiera [del «Padre nostro»] quale membro della Chiesa, che non sarà delusa [nei suoi desideri]. Vi era una buona ragione, dunque, per esprimere anche questa petizione al plurale.
        Infine, va tenuto presente che il perdono si può concedere in due maniere: quella preferita dai migliori che, divenendo oggetto d'offesa, cercano di promuovere essi stessi la riconciliazione con l'offensore, seguendo il suggerimento: «Cerca la pace e restale assiduamente vicino» (Sal 33, 15). L'altro modo, più comune impone l'obbligo a ciascuno di noi di non negare il perdono a chiunque lo chieda. «Perdona al tuo prossimo che ti ha fatto un torto: e allorché pregherai, ti saranno rimessi i peccati» (Sir 28, 2).
        Ne proviene la beatitudine della misericordia: «Beati i misericordiosi» (Mt 5, 7). Troveremo misericordia, in cambio della misericordia [che] ci dispone ad aver pietà delle altrui miserie e debolezze

E non c'indurre in tentazione

    C'è della gente che desidera ricevere il perdono dei peccati di cui si confessa, senza fare peraltro un proposito sufficientemente fermo d'evitar nuove cadute. Il che non è bello: che cioè da una parte si pianga nel chiedere venia e nondimeno, dall'altra, si accumuli materia di rinnovate lacrime. Rivolto a tal genere di persone, Isaia diceva: «Lavatevi, mondatevi, togliete dagli occhi miei le vostre malvagie intenzioni: smettetela di agire male» (Is I, 16).
    Tenendo presente questo contegno errato, dopo averci insegnato a chieder la remissione delle colpe, Cristo ci indica qui come dobbiamo domandare che ci venga concesso d'evitarle. «Non c'indurre in tentazione», che potrebbe significare una premessa di peccato.
    Vediamo subito cosa sia la tentazione in se stessa; in quanti modi - e da parte di chi - l'uomo sia oggetto di tentazione; come possa esserne liberato.
    Tentare altro non è che saggiare, mettere alla prova il valore [morale] di un individuo. La virtù, infatti, ha come fine il retto operare e la fuga dal disordine. È il concetto espresso in sintesi dal salmista: «Evita il male e fai ciò che è bene» (Sal 33, 15). Così, l'uomo è sottoposto a verifica, in entrambi i sensi.
    Messo alla prova, si vedrà se un uomo è incline ad astenersi da determinati beni (131). Puoi considerarti virtuoso se con la debita prontezza fai quel che è giusto fare. Con questo intento Dio mette alla prova la virtù di taluni giusti: non certo nel senso che egli ignori le loro qualità, quanto piuttosto per renderle note agli altri uomini, additando i primi quale esempio. Mise così alla prova [la fede di] Abramo e [la pazienza di] Giobbe.
    Questa ancora è la finalità in vista della quale permette che i giusti siano tentati: affinché, sopportando essi virtuosamente le tribolazioni, servano da modello, ed essi stessi crescano ulteriormente in virtù. «Il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova affinché si veda se lo amate, o no, con tutto il cuore» (Dt 13, 3).
    Inoltre, l'umana virtù subisce il suo collaudo dal contatto con il male. Se l'uomo resiste egregiamente, rifiutandosi di accordare la propria adesione, si può dire che la sua virtù è stata grande; in caso contrario, se egli cede, essa è inesistente.
    Dio non tenta mai nessuno nella seconda maniera: «Dio non cerca di sedurre nessuno al male» (Gc 1, 13).
    Tuttavia l'uomo trova un simile incentivo nella propria carne, oltre che da parte del diavolo e del mondo.

  1.  La carne ci sollecita al male nella sua ricerca insaziabile di soddisfare i sensi, e spesso qui si annida il peccato. Se non altro chi indugia nei godimenti del corpo trascura necessariamente le esigenze dello spirito. Così «ognuno è adescato dalla concupiscenza che reca in sé» (Gc l, 14).
        Quasi non bastasse, le tentazioni della carne ci stornano dal bene che, per innata tendenza, l'anima cercherebbe diletto nei beni spirituali; appesantendola, la sensualità ne raffrena gli slanci. «Il corpo corruttibile - leggiamo nella Scrittura - aggrava lo spirito» (Sap 9, 15), e san Paolo, pur desiderando di restar sottomesso alla legge di Dio, sperimentava un'attrazione da parte degli istinti corrotti, che cercavano in tutti i modi di renderlo schiavo del peccato (cfRm 7, 22-23).
        Questo tipo di tentazione proveniente dalle nostre membra è quanto mai pericoloso, trattandosi di un'insidia che cova dentro di noi. Boezio osserva in proposito che non esiste peggior flagello di un nemico che si nasconda tra le pareti domestiche (132). Bisognerà vigilare e pregare assiduamente (cf. Mt 26, 41).
  1.  Il diavolo poi è peritissimo nell'arte del tentare. Se un uomo ha saputo respingere gli assalti della carne, ecco farsi avanti un altro nemico - il Tentatore - contro cui il conflitto si fa ancor più drammatico. La lotta coinvolge i «dominatori di questo mondo pieno di tenebre [intellettuali e morali]» (133). Satana è indicato come «il tentatore» per antonomasia (134).
        Egli è, ripeto, astutissimo. Ricorre alla tattica d'un consumato condottiero che, cinto d'assedio un castello, studia quali siano i punti più vulnerabili delle mura. Così fa Satana, che porta la tentazione dove sa che l'uomo è particolarmente indifeso. Nel caso di individui che, ad esempio, abbiano acquistato l'autocontrollo sopra gli impulsi della sensualità, li smuove mediante altre passioni, come l'ira, l'intemperanza nel parlare e altri vizi che più da vicino interessano lo spirito, verso i quali sono maggiormente proni.
        Nel tentarci, il diavolo - che san Pietro paragona a un leone avido di preda (cf. 1 Pt 5, 8) - agisce in modo accorto: innanzitutto provvede a celare sotto una qualche apparenza di bene il fine cattivo cui vorrebbe piegarci. In tal modo ottiene di smuovere quasi impercettibilmente la volontà; dopo di che la seduce, ormai senza riparo. Satana ha saputo, una volta di più, trasfigurarsi «in angelo di luce» (2 Cor 11, 14).
        Quando la colpa è stata commessa, allora egli afferra saldamente il peccatore impedendogli in tutte le maniere di rialzarsi. Dapprima ci piega con l'inganno, quindi rinsalda la schiavitù del peccato    
        
  2.  Anche il mondo possiede svariati sistemi di seduzione: da un eccessivo, smodato desiderio di beni temporali «Radice di tutti i mali è l'amore al denaro» (I Tm 6, 10), al terrore esercitato da tiranni e persecutori («Quelli che vogliono vivere secondo la dottrina di Gesù Cristo, conosceranno la persecuzione») (2 Tm 3, 12). Ma non dobbiamo temere coloro che sono in grado di far del male unicamente al corpo (cf. Mt 10, 28).
        Finora abbiamo esaminato in che consista la tentazione [e da quali e quanti nemici essa ci provenga]. Resta da sapere in che modo l'uomo può superarla.
        Cristo - si badi - non ci esorta a pregare di non esser tentati, bensì di [aiutarci a] non soccombere alla prova. Difatti, se l'uomo vince, è proprio in forza della tentazione superata che egli merita d'esser premiato. «Stimate un motivo di gioia, fratelli miei - scrive l'apostolo Giacomo -, l'imbattervi in prove d'ogni genere, ben sapendo che ciò che mette alla prova la vostra fede contribuisce a rendere più ferma [e meritoria] la vostra pazienza» (Gc I, 2). Già nelle pagine dell'antico Testamento, il savio ammoniva: «Figlio, se ti impegni nel servizio del Signore, disponi la tua anima alla prova» (Sir 2, 1), cui fa eco la beatitudine enunciata da Giacomo: «Beato l'uomo che sopporta pazientemente una prova perché, una volta collaudato, riceverà la corona della vita, che il Signore promise a quelli che lo amano» (135).
        La preghiera del Pater ci insegna a chiedere d'esser assistiti, nel corso della prova, affinché non acconsentiamo agli allettamenti del male.
        Esser tentati - e Dio non permetterà che lo siamo al di sopra di quanto un uomo [con in più il soccorso della grazia) possa reggere (cf. 1 Cor 10, 13) -, esser tentati è conforme alla umana natura. Diabolico è l'aderire ostinatamente all'errore.
        Ma è mai possibile che Dio, stando alle parole che diciamo («Non indurci in tentazione»), induca al male?
        Si dice che Dio induce al male volendo intendere che lo permette. Ciò risalta meglio nel caso di chiunque abbia abbondantemente peccato. Dio sottrae la grazia [preveniente] e l'uomo cade ancor più in basso. Possiamo adattare le parole del salmi sta: «Quando verranno meno le mie forze, tu non mi abbandonare, Signore» (136).
        Poi [Dio] sostiene l'uomo mediante il fervore della carità: per quanto piccola, la carità può opporsi al peccato (137). E lo sorregge col lume della retta ragione, per cui discerniamo il male dal bene. Anche per Aristotele, infatti, chiunque erra, agisce con la mente in qualche modo offuscata. Davide faceva bene perciò a implorare: «Dai luce ai miei occhi, perché non mi addormenti nella morte e il mio nemico possa dire: 'L'ho sopraffatto'» (Sal 12, 3-5).
        Siamo esauditi grazie al dono dell'intelletto. E non acconsentendo alla tentazione, serbiamo integro il cuore, meritando perciò la visione di Dio. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5, 8).

Ma liberaci dal male

Il Signore - dopo averci sollecitati a chiedere la remissione dei peccati e indicato in qual modo si possano vincere le tentazioni -, c'insegna a chiedere d'essere salvati dal male. Petizione di carattere quanto mai vasto, contro qualsiasi tipo di male: contro il peccato [e le sue cause], le infermità [fisiche], le avversità e le afflizioni [dello spirito], per citare Agostino.
    Avendo già parlato delle prime due categorie, adesso tratteremo delle contrarietà e delle altre cause di tormento, che l'uomo sperimenta nel mondo. Dio ce ne può liberare in una di queste quattro maniere.

  1.  Impedendo che [avversità e tribolazioni] si verifichino. Un caso assai raro, dato che quaggiù han da portare la loro croce perfino i santi. «Quanti vogliono vivere fedelmente al seguito di Cristo Gesù, saranno perseguitati» (2 Tm 3, 12). Talvolta - simile al medico che non prescrive rimedi troppo violenti a un infermo eccessivamente debilitato -, Dio concede la cessazione o il lenimento della prova, quando giudica un soggetto incapace di resistere oltre. È il Padre che, come il Figlio di cui parla l'apostolo Giovanni, può ripetere a ciascuno di noi: «So che le tue forze non sono molte» (Ap 3, 8).
        Un simile ristoro ci sarà per tutti gli eletti, poiché in cielo il dolore è sconosciuto. «Egli ti salverà da sei tribolazioni, e alla settima il male non ti toccherà» (Gb 5, 19). Le sei tribolazioni possono prendersi quale simbolo delle sei età in cui può dividersi la vita terrena (138). La settima età è l'esistenza eterna. Gli eletti «non soffriranno più la fame né la sete» (Ap 7, 14). 
  1.  Consolando [interiormente] nel mezzo delle stesse afflizioni, altrimenti l'uomo finirebbe per soccombere. Anche san Paolo narra d'essere stato oppresso oltre misura [nell'Asia proconsolare], al di sopra delle sue forze, al punto da disperare perfino di salvare la vita (139); e tuttavia, aggiunge: «Dio, che infonde coraggio ai miseri, ci consolò» (2 Cor 7, 6). Prima di lui era accaduto all'autore del salmo 93: «Quando son molte le mie ansie interiori, le tue consolazioni rallegrano l'anima» (Sal 93, 19).

   

  1.  Concedendo agli afflitti una tale abbondanza di beni, da far dimenticare loro le tribolazioni appena trascorse. «Tu, Signore, dopo la tempesta fai tornare il sereno» (Tb 3, 22). Quand'è così, le disgrazie e i patimenti terreni non sono tali da giudicarsi intollerabili, se Dio ci dà, insieme, consolazioni di spirito; eppoi saranno sempre temporanee. «La nostra tribolazione, momentanea e tollerabile [con l'aiuto della grazia], ci procura un premio di gloria eterna al di sopra d'ogni misura» (2 Cor 4, 17).
  1.  Le tentazioni e gli affanni possono tramutarsi in occasioni di un bene [maggiore]. Non diciamo [nel Pater] d'essere esentati dalla tribolazione [cosa del resto impossibile], bensì: «liberaci dal male». Le croci sono via che conduce alla gloria, e i santi, considerando che esse potranno procurare loro la corona, si rallegrano al tempo delle tribolazioni. E non solo producono un collaudo della virtù (cfRm 5, 3; Tb 3, 13) ma ci ottengono la remissione delle colpe [precedentemente commesse] e delle pene.
        In questi diversi modi, Dio libera l'uomo dal male e dalle afflizioni; così facendo egli manifesta la sua sapienza giacché è prerogativa del sapiente ordinare il male all'edificazione del bene. La pazienza nelle prove realizza questo prodigio; infatti mentre le altre virtù si esercitano sopra determinati beni (140), la pazienza aumenta nel [positivo] confronto con il male. Quindi è tanto necessaria. «Dalla pazienza si conosce il valore di un uomo» (Prv 19, 11).
        Lo Spirito Santo, mediante il dono della sapienza, ci induce a chiedere: «Liberaci dal male». Affrontando saviamente le prove della vita arriveremo alla beatitudine, che qui incomincia [a gustarsi] con la pace dell'anima. Grazie alla virtù della pazienza conosceremo la quiete interiore sia nei momenti tranquilli, sia nei periodi dell'avversità.
        Nella beatitudine evangelica i pacifici sono detti «figli di Dio» (Mt 5, 9), in quanto rassomigliano a lui, conservandosi imperturbabili tra le bufere dell'esistenza. «Beati i pacifici - dunque -, perché saranno chiamati figli di Dio ».
        L'amen (141), infine, sigilla - una per una - le petizioni del Pater.

Riassunto del Padre nostro

    Volendo esporre in sintesi la preghiera del Pater, basterà osservare che in essa sono elencate tanto le cose che l'uomo deve desiderare, quanto quelle che dovremo e vorremmo evitare.
    Tra le prime ci sono ovviamente quelle che risultano più amabili per l'animo umano, e Dio al primo posto. Perciò trovi, in apertura, la petizione riguardante la gloria di Dio: «Sia santificato il tuo nome».
    Ti deve star a cuore che Dio esaudisca tre [dei tuoi molti] desideri:
    che ti conduca alla vita eterna (e tu, per questo, dici: «Venga [anche in me] il tuo regno»).
    Che - in ordine a quanto ora detto - tu sappia compiere la volontà divina; che è una vita ispirata alla giustizia: «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra ».
    Che non venga a mancarti quanto è necessario per sostentare la tua esistenza terrena: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».
    Gesù stesso riassume tutto ciò nell'espressione: «Cercate prima di tutto il regno di Dio (e ti richiama alla mente la prima domanda rivolta al Padre); [praticate] la sua giustizia, (è la seconda) e tutte queste cose vi saranno date per giunta» (Mt 6, 33), (ed ecco la terza).
    Occorre poi fuggire da tutto ciò che non realizza il bene che, innanzi tutto, è rappresentato:
    dalla gloria di Dio, che nulla e nessuno potranno impedire. Disse Elihùd a Giobbe, in proposito: «Se tu pecchi, che cosa fai contro di lui? Se moltiplichi i tuoi delitti, gli rechi forse un danno? E se ti comporti da giusto, che gli dai? cosa riceve, lui, dalla tua mano?» (142). Ed è vero, nel senso che - sia che punisca, sia che premi - il male e il bene tornano sempre a gloria di Dio (143).
    Dalla vita eterna cui si oppone il peccato, giacché ogni diritto a goderne si perde con la colpa [grave]. Per esserne liberati, diciamo allora: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori».
    Dalla giustizia e dalle opere buone. Le tentazioni infatti ci vorrebbero allontanare dal retto agire. Contro questo pericolo, diciamo: «E non ci indurre in tentazione ».
    Infine, abbiamo bisogno di altri beni (144), che invece vengono a esserci sottratti dalle avversità e dalle tribolazioni. Chiediamo così di esserne scampati, ripetendo le parole: «[ma] liberaci dal male». Amen.



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