. Al primo posto mettete la confessione e poi chiedete una direzione spirituale, se lo ritenete necessario. La realtà dei miei peccati deve venire come prima cosa. Per la maggior parte di noi vi è il pericolo di dimenticare di essere peccatori e che come peccatori dobbiamo andare alla confessione. Dobbiamo sentire il bisogno che il sangue prezioso di Cristo lavi i nostri peccati. Dobbiamo andare davanti a Dio e dirgli che siamo addolorati per tutto quello che abbiamo commesso, che può avergli recato offesa. (Beata Madre Teresa di Calcutta)
 
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San Tommaso d’Aquino

Ultimo Aggiornamento: 30/01/2015 12:17
30/01/2015 11:05

Sia santificato il tuo nome


    E' la prima delle sette domande rivolte al Padre, ed esprime il nostro desiderio di poter conoscere [e far conoscere] in una luce sempre più chiara il nome di Dio.
    Nome meraviglioso, capace di operare meraviglie, fino a mettere in fuga gli spiriti del male (cf. Mc 16, 17).
    Nome amabile, dato che «non esiste nel creato un altro nome dal quale gli uomini possano attendersi la salvezza» (At 4, 12): e salvarsi è desiderio universale. In sant'Ignazio martire (101) trovi uno splendido esempio d'amore per il nome di Cristo. Invitato dall'imperatore Traiano a rinnegarlo, rispose che nessuno sarebbe riuscito nell'intento, neppure se (come l'imperatore minacciava di fare) gli avessero mozzato il capo. «Potresti sigillarmi le labbra, senza togliermi nondimeno Cristo dal cuore; lo porto scolpito in me: quindi l'invocazione al Cristo è incessante». Desiderando di verificare quanto aveva sentito, fattolo decapitare, Traiano comandò che gli strappassero il cuore. E ognuno poté vedere che Ignazio recava davvero in sé, scritto a lettere d'oro, il nome di Cristo.
    Nome degno di venerazione, a tal punto che «ogni ginocchio in cielo, in terra e nell'inferno si dovrà piegare nel sentirlo» (Fil 2, 9-10). In cielo, gli angeli e i beati; qui in terra, dove gli uomini adorano il Cristo mossi dal desiderio di conseguire la beatitudine [eterna] o, quanto meno, dal timore di esser condannati; nell'inferno, i reprobi che vedono nel Cristo giudice l'autore della divina giustizia (102).
    Nome che nessuno potrà mai pienamente interpretare a fondo, neppure gli angeli. Si ricorre perciò a delle metafore. Così viene detto pietra per indicare la stabilità su cui, ad esempio, si sostiene la Chiesa (cf. Mt 16, 18). Oppure lo paragoniamo al fuoco, nel senso che come la fiamma separa le scorie dal metallo, così Dio purifica il cuore dei peccatori. Leggiamo nel Deuteronomio: «Il Signore, tuo Dio, è simile a un fuoco divoratore» (103). A volte è chiamato luce. Il nome divino è infatti capace di rischiarare le tenebre dell'umano intelletto. Toccante l'invocazione [né resterà senza risposta]: «Dio mio, illumina le mie tenebre!» (Sal 17, 29).
    Noi stessi [ripetendo «sia santificato il tuo nome»] chiediamo che il nome di Dio [Padre] sia noto, a tutti e, quindi, tenuto nella venerazione dovuta alle sacre realtà.
    Santo può prendersi secondo vari significati [e tutti convengono al nome di Dio].
  

  1.  E' santo ciò che è stato sancito, dichiarato inviolabile (104). In tal senso, i beati del cielo, confermati nell'eterna beatitudine son detti per questo motivo santi. Quaggiù, soggetti come siamo all'instabilità terrena, nessuno può esser detto santo. Lo riconosceva Agostino, scrivendo: «Son andato alla deriva, Signore, lontano da te; troppo spesso ho sbagliato strada, sviandomi dalla via maestra che sei tu, ove avrei potuto procedere con passo sicuro».
  1.  Santo può equivalere anche a tutto ciò che non è terreno, e nei santi che sono in cielo manca ogni attaccamento ai beni mondani; fin d'ora chi cerca di santificarsi ­ e Paolo, tra gli altri - si priva di tanti vantaggi e prerogative, e le stima come spazzatura pur di guadagnare Cristo con tutti i suoi beni (105). Al contrario, con il nome «terra» [nella Scrittura] vengono designati i peccatori: difatti, come il terreno non coltivato germinerà soltanto spine e triboli (cfGn 3, 18), l'anima dell'empio - finché non sia lavorata dalla grazia ­ altro non produrrà che tormenti e acuti rimorsi. Di più, come la terra è scura e non si lascia attraversare dalla luce, l'anima in peccato è ottenebrata e resiste all'opera della grazia. E' infine un elemento asciutto, tendente a polverizzarsi se l'umidità dell'acqua non le dia compattezza. Altrettanto può dirsi del peccatore: la sua anima sembra essersi fatta arida e assetata. Ne fece Davide l'esperienza: «Dinanzi a te, l'anima mia è come il deserto che ha sete di pioggia» (Sal 142, 6).
  1.  Una terza etimologia della parola 'santo' la farebbe risalire a: tinto nel sangue (106). Si applica in particolare ai santi che sono in paradiso, dei quali l'Apocalisse dice: «Costoro hanno superato la grande tribolazione [terrena] e han lavato le loro stole, purificandole grazie al sangue dell'Agnello» (Ap 7, 14); di Cristo, cioè, che amando ci «ha operato la liberazione dai nostri peccati, mediante il proprio sangue» (Ap I, 5).
        [Dunque, il tuo nome, Signore, è degno d'essere venerato quanto merita: nome santo e santificante].

 

Venga il tuo regno

     Abbiam detto che lo Spirito Santo ci indirizza [con la preghiera del Pater] ad amare, desiderare e chiedere rettamente, oltre che ispirarci un santo timore, in forza del quale domandiamo che il nome di Dio venga santificato.
    Segue, qui, un altro dono, il dono della pietà: dolce e devoto affetto verso chi ci ha generati, nonché verso chiunque si trovi in condizioni di miseria.
    Essendo Dio il nostro Padre, come si è dimostrato, noi lo dobbiamo non solo riverire e temere, ma verso di lui nutrire una devota tenerezza. È questo sentimento che ci inclina a chiedere la venuta del regno di Dio. Nella lettera a Tito si legge: «Viviamo nel presente con moderazione, giustizia e pietà... in attesa della beata speranza e della gloriosa manifestazione del grande Dio e nostro salvatore, Gesù Cristo» (Tt 2, 12-13).
    Potremmo chiederci: «Ma, dato che il regno di Dio è a lui coeterno, che senso ha chieder che venga?» Invece può avere un triplice significato.

  1.  Innanzi tutto può accadere che un re abbia l'autorità sovrana, la facoltà cioè di dominare senza che in effetti il suo dominio si eserciti compiutamente, perché non tutti gli si sono assoggettati. In tal caso il suo regno potrà dirsi realizzato appieno solo allorché i sudditi ne sosterranno la sovranità.
        Per sua natura Dio è il Signore universale, come pure lo è Cristo per l'unione ipostatica. Di lui ha scritto Daniele: «Gli venne conferito il potere, la maestà e il regno, sì che tutti i popoli, le nazioni e le genti di ogni lingua lo servivano» (Dn 7, 14).
        Quindi è giusto che ogni cosa stia sotto il dominio di colui che è il Signore; siccome però non si tratta d'una realtà attuale, lo diverrà [pienamente] al dissolversi di questo mondo. Ce lo conferma san Paolo: «E' necessario che Cristo governi [la Chiesa] 'fino a che non abbia debellato tutti i nemici'» (107).
        Perciò glielo chiediamo, dicendo «venga il tuo regno», con tre intenti : [che] la conversione dei giusti si rinnovi incessantemente, [che] i peccatori ricevano il castigo (108) e la morte sia annientata. Volenti o nolenti, gli uomini debbono sottomettersi al Cristo. Poiché la volontà divina è di tale efficacia da conseguire un completo successo - ed essendo stabilito che tutto ceda il passo alla sovranità del Messia -, i casi sono due: o l'uomo farà la volontà di Dio spontaneamente, sottomettendosi ai suoi voleri - ed è quanto fanno i giusti; oppure Dio compirà lo stesso i propri disegni a dispetto dei suoi nemici, punendo gli ostinati peccatori alla fine dei tempi. Dice profeticamente il salmo 108: «Siedi alla mia destra, mentre che io pongo gli oppositori come sgabello sotto i tuoi piedi» (Sal 108, 1).
        Per i giusti, chiedere che venga il regno di Dio, ossia disporsi nel modo più perfetto a compiere la divina volontà, è cosa gradita. Ma ai peccatori una simile richiesta incute spavento, coincidendo con 1'esecuzione inflessibile della sentenzacondannatoria. Amos li avverte: «Guai a voi che state in attesa del giorno di Dio! A che potrà giovarvi, quel giorno? Sarà giorno di tenebre, non di luce... Giorno d'oscurità, senza splendore!» (Am 5, 18).
        E nel medesimo istante verrà annientata la morte, questa nemica della vita. Nella prima lettera ai Corinti è detto: «L'ultimo avversario a essere distrutto sarà la morte» (I Cor 15, 26), e ciò accadrà nel momento della risurrezione finale; l'istante in cui, secondo l'espressione dell'Apostolo: «Gesù Cristo trasformerà il nostro miserevole corpo rendendolo simile al suo corpo glorioso, per mezzo della potenza che egli ha di assoggettarsi ogni cosa» (Fil 3, 21).
  1.  Regno dei cieli, poi, è lo stesso che dire gloria del paradiso, e non deve far meraviglia dal momento che l'idea del regno sottintende quella di governo. Ora il miglior regime si ha dove non esistono motivi d'opposizione contro chi governa. Principale intento di Dio è di procurare agli uomini la salvezza; egli desidera che tutti si salvino; e ciò sarà vero soprattutto in paradiso, dove non può trovarsi alcunché di avverso al bene dell'uomo. Accadrà quanto dice l'evangelista: «Gli angeli elimineranno dal suo regno tutti gli scandali e quelli che avranno compiuto iniquità» (Mt 13, 41).
        Quaggiù, invece, sono tante le cose che minacciano la salvezza dell'uomo. Perciò, quando chiediamo «venga il tuo regno», stiamo pregando d'essere fatti partecipi del regno celeste e della gloria del paradiso.
        Tre caratteristiche [del regno celeste] ci devono spingere a desiderarlo intensamente:
        Per la somma giustizia che vi regna. Ne sottolinea la portata Isaia: «Il tuo popolo sarà un popolo di giusti» (Is 60, 21). Quaggiù infatti i cattivi sono frammisti ai buoni, mentre lassù non si troverà un solo malvagio, un solo peccatore;
        Per la libertà autentica [che vi si gode]. In terra non c'è una vera libertà, sebbene tutti vi aspirino istintivamente; là, invece, la liberazione da ogni forma di condizione servile sarà assoluta, secondo la promessa di Paolo: «Il mondo [soggetto fino a quel momento alle leggi della disgregazione] ne verrà affrancato» (Rm 8, 21). E ciascuno non soltanto diverrà libero, ma somiglierà a un re; attesta l'Apocalisse: «Ci hai fatti, per il nostro Dio, re e sacerdoti; e regneremo sopra la terra [rinnovata]» (Ap 5, 10). E questa è la ragione: che ognuno sarà concorde col divino volere: Dio vuole ciò che vogliono i santi, e i santi ciò che a lui piace. Sicché nel compiere la volontà di Dio si adempirà il volere dei singoli, e Dio sarà come il diadema che cingerà la fronte del giusto: la «splendida corona, il serto magnifico» di cui parla Isaia (Is 28, 5).
        Infine, [il regno celeste è oggetto di desiderio] per la sua meravigliosa ricchezza; una ricchezza tale da far dire al profeta: «Nessun orecchio ha mai sentito, nessun occhio ha veduto mai un altro Dio far tanto per coloro che in lui han riposto la propria speranza» (Is 64, 4); e il salmo 102 rassicura che «Egli sazierà di beni i tuoi giorni e tu rinnoverai, come l'aquila, la tua giovinezza» (Sal 102, 5).
        Nota inoltre che l'uomo troverà in Dio, esclusivamente, e nella misura più eccellente e perfetta, ciò che quaggiù ora va elemosinando.
        Tu cerchi la gioia? Ne troverai, in Dio, una insuperabile. Brami le ricchezze? In lui le avrai da soddisfarti, ché son ricchezze divine.
        Nelle Confessioni, Agostino ha scritto: «Finché s'intorbida staccandosi da te, Signore, l'anima cercherà, ma non in te, cose limpide e pure, che non riuscirà a trovare se non quando ti si sarà riaccostata».
  1.  L'avvento del regno [di Dio] va implorato inoltre perché, sia pure temporaneamente, tra gli uomini regna il peccato ogni volta che uno di noi segue, acconsentendo, i suoi istinti sregolati. Nel vostro essere mortale - ci raccomanda san Paolo - non lasciate che regni la concupiscenza (cfRm 6, 12); deve regnare Dio, nel tuo cuore (cfIs 52, 7). E questo sarà vero se ti mostrerai pronto a ubbidire a Dio, mettendo in pratica. i suoi precetti: dunque, quando chiediamo che venga il suo regno, esprimiamo il desiderio che su di noi non regni il peccato, ma Dio stesso.
        Attraverso questa petizione attingiamo [anche] quella beatitudine che il Signore riserva ai miti (109).
        Secondo la prima interpretazione del passo, infatti, desiderando che Dio sia il Signore universale, l'uomo non provvederà da sé a vendicarsi delle offese che avesse ricevuto, ma ne lascia a Dio il compito. Se ti facessi giustizia da te medesimo, non sarebbe segno che tu brami davvero l'avvento del regno di Dio.
        In base poi alla seconda interpretazione [che abbiamo segnalato], se tu attendi la venuta del regno - cioè la gloria del paradiso -, non ti devi dolere per la perdita di un qualche bene terreno. Paolo poteva lodare i cristiani della Giudea, per aver accettato con gioia la confisca dei beni da parte delle autorità civili (110).
        Nel terzo significato su esposto, se chiedi che in te regni Dio, assieme al Cristo che fu mitissimo, anche tu devi essere mansueto, prendendo esempio da lui (cf. Mt 11, 29).

Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra

    Il terzo dono [connesso con le invocazioni del Pater] è il dono della scienza. L'azione dello Spirito Santo non soltanto rende l'uomo riverente e affezionato nei confronti di Dio, ma lo fa diventare saggio. Era quanto desiderava Davide: «Insegnami la bontà, una condotta disciplinata e il discernimento [per agire nel migliore dei modi]» (Sal 118, 66). Si tratta dunque della sapienza che insegna a ben vivere.
    Tra le cose che concorrono a renderci sapienti, questa superiore saggezza fa sì che l'uomo non confidi troppo nel proprio parere. Anche il libro dei Proverbi ammonisce: «Non appoggiarti [oltre il ragionevole] alla tua intelligenza» (111). Quelli, infatti, che presumono eccessivamente di sé al punto da non far conto dei consigli altrui, comportandosi da stolti, sono giudicati come tali. «Hai visto di quelli che si credono persone sagge? Uno stolto può più di loro nutrire speranza [di rinsavire]» (Prv 26, 12). Che invece l'uomo non faccia credito [esclusivamente] a se stesso, è segno di umiltà, e quindi di sapienza (112). I superbi, al contrario, san pieni di sé.
    Mediante il dono della scienza, lo Spirito ci insegna dunque a preferire la volontà di Dio alla nostra. Perciò chiediamo che ogni divina intenzione si realizzi, appieno, nel cielo e sulla terra. Ecco il dono della scienza. Diciamo: «Sia fatta la tua volontà» allo stesso modo in cui un malato, rivolgendosi al medico senza una precisa idea [di quale sia il rimedio opportuno], semplicemente si rimette al parere dell'esperto. Volersi imporre a quest'ultimo sarebbe una sciocchezza.
    Così, da Dio non dobbiamo chiedere altro che questo: che - in qualunque situazione ci troviamo implicati ­ abbia il sopravvento il suo volere; che la sua volontà si compia per intero.
    L'animo umano è in regola quando si accorda con la divina volontà. Cristo fece a questo modo: «Io son disceso dal cielo per eseguire non la mia, ma la volontà di chi mi ha inviato» (Gv 6, 38).
    In quanto Dio egli stesso, la sua volontà coincideva con quella del Padre; distinta invece la facoltà volitiva del Verbo da quella dell'uomo Gesù (113). Ed è di quest'ultima, che egli parla allorché afferma che intende conformarsi alla volontà del Padre. Di conseguenza insegna, anche a noi, a pregare: «Sia fatta, o Padre, la tua volontà».
    Leggendo però in un salmo (cfSal 134, 6) che il Signore compie tutto ciò che vuole, viene spontaneo chiederci: se ogni cosa, in cielo e sulla terra, si compie conforme a quanto egli ha stabilito, che senso può avere il nostro fiat?
    Bisogna sapere in proposito che Dio desidera, per il bene degli uomini, tre cose; quelle appunto di cui, nel Pater, noi chiediamo il compimento.

  1.  La vita eterna. Chiunque tenda verso un qualsiasi fine, dispone anche i mezzi adatti a conseguirlo. E così Dio, creando l'uomo, non poteva avviarlo verso il nulla. « È possibile che tu, Signore, abbia creato l'umanità senza uno scopo?» (Sal 88, 48). Ma nostro fine [specifico] non potranno mai essere i piaceri sensibili, che anche i bruti appetiscono; bensì una vita [felice] che non abbia termine. Ecco cosa vuole Dio, per l'uomo: che giunga a godere la vita eterna.
        Quando un essere raggiunge lo scopo al quale era destinato, diciamo che è riuscito a salvarsi (114); mentre all'opposto, di qualunque realtà che non arrivi a buon fine, dobbiamo concludere che sia andata in rovina; la consideriamo perduta. Avendoci Dio creati in ordine alla vita eterna, chiunque di noi che la raggiunga ha conseguito la salvezza. Ed è quanto il Padre desidera, sulla parola di Gesù: «Questa è la volontà del Padre mio che mi ha mandato: che qualunque persona giunga a conoscere il Figlio e accetti di credere in lui, abbia la vita eterna» (Gv 6, 40).
        Tale suo desiderio si è di già realizzato negli angeli e nei santi, in cielo, i quali vedono Dio, lo conoscono e vi trovano la loro beatitudine. Noi, chiedendo che sia fatta la sua volontà, desideriamo che essa ci trovi disponibili ad attuarla, come accade negli spiriti beati.
  1.  Poi, Dio desidera da noi l'osservanza dei suoi comandamenti. Chi si prefigge un fine, vuole anche i relativi mezzi. Simile al medico che, in ordine alla salute da riacquistare prescrive la dieta, le medicine e altre necessità del caso, Dio chiede che osserviamo i suoi precetti se ci sta a cuore la vita eterna (cf. Mt 19, 17). In un testo paolino, la volontà del Padre è definita «buona, gradevole e perfetta» (Rm 12, 2).
        Volontà buona, ossia tutta indirizzata a nostro vantaggio, come si rileva da diversi passi della Scrittura (115). Volontàaccettevole, che ad altri apparirà ripugnante, non però a colui che ama [il Signore]: luce, cioè, per il giusto, letizia per chi possiede un animo retto (cfSal 96, 11). Volontà perfettiva, che rendendo perfetto l'uomo, gli conferisce bellezza interiore. «Cercate d'essere perfetti, come perfetto è il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48).
        Dicendo: «Sia fatta la tua volontà» chiediamo di saper compiere quanto Dio si attende da noi. I giusti s'ingegnano di farlo, non altrettanto i peccatori; e i primi richiamano alla mente l'idea del cielo, i secondi quella della terra [pesante e oscura] (116). Vogliamo quindi che la volontà di Dio sia realizzata «in terra», ossia dai peccatori, come lo è «nei cieli», grazie al retto agire dei giusti.
        C'è per noi - sotteso alla formula di cui parliamo - un insegnamento. Infatti non dice fai [tu, Padre], e neppure noi [uomini] faremo, ma «sia fatta». Per meritare la vita eterna sono necessarie due cose: grazia di Dio e buon volere da parte dell'uomo. Sebbene abbia saputo crearlo senza che l'uomo [inesistente] vi cooperasse, Dio non ti salverà se non collabori alla tua propria salvezza (117). Esplicita, nelle parole del profeta, la condizione: «Convertitevi a me! ... Così io mi volgerò a voi» (Zc I, 3). E altrettanto chiaro il pensiero dell'apostolo Paolo: «Son quel che sono per misericordia di Dio; e una tale grazia io non l'ho ricevuta invano» (1 Cor 15, 10).
        Perciò non esser presuntuoso, ma fai assegnamento sull'aiuto della grazia; d'altra parte non mostrarti negligente ma sollecito [nel metterla a frutto].
        Non usa, intenzionalmente, la formula faremo, noi [uomini] perché non si pensi che l'azione della grazia sia affatto superflua; e neanche [Padre] fai tu, interamente da te, quasi che la nostra volontà, il nostro sacrificio non conti per nulla.
        «Sia fatta», invece, mette bene in luce la cooperazione tra grazia divina e libero arbitrio nel realizzarsi della volontà del Padre.
  1.  Dio vuole che l'uomo sia reintegrato in quella dignità in cui fu creato il capostipite del genere umano. Un dominio tale da far sì che lo spirito, l'anima, non subisse violenza alcuna da parte della sensualità (118).
        Finché l'anima si tenne a Dio sottomessa, la carne restò soggetta allo spirito da non sentire la minima corruzione - inizio di morte -, nessuna infermità o passione. Quando invece lo spirito, (medio tra Dio e la carne) insorse peccando contro il Creatore, anche il corpo si ribellò allo spirito: e l'uomo sperimentò malattie, morte, e la continua rivolta dei sensi contro lo spirito (119). «Vedo - ammetteva san Paolo - un'altra legge nelle mie membra che fa guerra alla legge della mia mente» (Rm 7, 23), poiché «la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito li ha contrari alla carne» (Gal 5, 17). Diuturno conflitto, tra la carne e lo spirito; e l'uomo si logora progressivamente nel peccato.
         Pertanto è volontà di Dio che l'uomo riconquisti lo stato originario, in maniera che nulla, da parte della carne, si opponga alle esigenze dello spirito. «La volontà di Dio è questa: la vostra santificazione» (1 Ts 4, 3).
        Un restauro del genere non può trovare piena realizzazione durante questa vita terrena, bensì con la risurrezione dei santi, quando cioè i corpi glorificati cominceranno a esistere incorruttibili e nobilissimi (cf. 1 Cor 15, 43).
        Tuttavia [fin d'ora] il volere santificante di Dio si attua nei giusti mediante una vita saggia, informata ai dettami della giustizia. Nel Pater così, preghiamo affinché la sua volontà si adempia anche adesso, nella nostra condizione mortale.
        Lo spirito umano è quasi un riflesso del cielo, come la carne richiama il pensiero della terra [da cui trasse origine]. La tua volontà, dunque, Signore, si compia in terra, ossia nel nostro corpo, come in cielo, nello spirito che - come è giusto - a te si sottomette.
        Facendo la volontà del Padre sperimentiamo, in mezzo alle afflizioni, la beatitudine di cui parla Matteo: «Beati gli afflitti, poiché saranno consolati» (Mt 5, 5). Infatti: se davvero desideriamo la vita eterna, l'attesa dovrebbe risultare così pungente da indurci al pianto. Non esclamava il salmista: «Ahimé, perché il mio peregrinare si prolunga tanto?» (Sal 119, 5). Nei santi questo desiderio è tanto intenso da spingerli [talvolta] a bramare quella morte che, di per sé, anch'essi dovrebbero aborrire. «Sapendo che mentre siamo nel corpo, siamo come esiliati e lontani dal Signore... pieni di fiducia vorremmo dipartirci dal corpo e abitare accanto al Signore!» (2 Cor 5, 8).
        Conoscono l'afflizione anche quanti osservano la legge di Dio, nel senso che, cara allo spirito, questa costituisce però una continua macerazione per la carne. Si applica benissimo il versetto del salmo: «Andavano camminando e piangevano - mortificando le passioni dei sensi -; ma tornando, verranno con allegrezza per la gioia che l'anima ne ricava» (Sal 125, 6).
        Infine, un altro motivo di sofferenza deriva dalla lotta continua tra la carne e lo spirito: è impossibile che, nel combattimento, l'anima non rimanga in qualche modo scalfita [per così dire] dal peccato veniale; e tutto ciò si risana nella compunzione. Le parole di Davide: «Ogni notte bagnerò di pianto il mio giaciglio» (Sal 6, 7) sono vere: la «notte» rappresenta l'oscurità prodotta dai peccati e il «giaciglio» corrisponde alla coscienza.
        Chi coltiva questo senso di compunzione giungerà in patria. Che Dio voglia accompagnarci, lassù.

Dacci oggi il nostro pane quotidiano

    Non di rado si dà il caso di uomini che restano come impacciati [davanti alla realtà concreta], a causa della grande cultura e della sapienza [entro la quale sono immersi]. Affinché non crollino nel confronto con certe difficoltà, è loro necessaria quella forza d'animo che è dono dello Spirito Santo. Il dono precisamente della fortezza, che «dà energie allo stanco, e a quelli che vengono meno accresce resistenza e vigore» (Is 40, 29). Anche il profeta Ezechiele sperimentò «una forza che - egli scrive - mi rimise in piedi» (Ez 2, 2).
    Grazie a quest'altro dono, il cuore dell'uomo non si sgomenta nel timore di non riuscire a procurarsi le tante cose necessarie a noi mortali. Egli riacquisterà fiducia, nel convincimento che quanto è indispensabile gli verrà assicurato dalla provvidenza divina. Lo Spirito Santo perciò ci induce a chiedere, al Padre: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Così c'insegna lo Spirito che rinvigorisce [l'uomo, nel corpo e nell'animo].
    Fin qui abbiamo preso in esame le tre petizioni spirituali che quaggiù vengono soddisfatte parzialmente, mentre troveranno pieno esito nella vita eterna. Chiedendo, difatti, che sia «santificato il nome di Dio, desideriamo che ne venga manifestata a chiunque la santità; quando preghiamo che venga il suo regno, mostriamo di bramare d'essere annoverati tra gli eletti che avranno parte alla vita beata; e allorché desideriamo che sia fatta la volontà divina, ci disponiamo noi stessi a eseguirla. Nobili desideri, ma realizzabili pienamente solo nella vita futura.
    Era giusto perciò che un'orazione perfetta [qual'è questa, rivolta al Padre] considerasse in pari tempo alcune naturali esigenze, appagabili quaggiù per intero. Lo Spirito Santo così ci esorta a chiedere certe cose d'ordine temporale, di cui non possiamo fare a meno. Dio provvederà anche a questo.
    Mediante le parole con cui chiediamo il pane quotidiano il Signore ci ammaestra come evitare i cinque errori più comuni, derivanti dall'appetito delle cose transitorie.

   

  1.  Primo eccesso in materia è una voglia smodata di beni temporali, che sorpassa le giuste esigenze della propria condizione sociale. Il soldato sogna di poter indossare la divisa d'ufficiale; il chierico non si contenta della [disadorna] talare e invidia i paludamenti del vescovo. Tale avidità distoglie gli uomini dagl'interessi dello spirito, invischiandoci nella pània dei beni effimeri.
        Il Signore ci aiuta a evitare un simile sbaglio insegnando a chiedere il «pane», che simboleggia i beni sostanziali, necessari alla condizione terrena di chiunque. Non cose delicate, non la loro varietà e ricercatezza, ma semplicemente il pane. L'essenziale per poter sopravvivere, l'unico bene che ci accomuna. «Le prime necessità della vita umana sono l'acqua e il pane» (Sir 29, 28); e scrivendo a Timoteo, san Paolo aggiunge: «Quando abbiamo vitto e vestito, possiamo dirci contenti» (I Tm 6, 8).
  1.  Altra abitudine riprovevole: pur di accumulare beni temporali, vi son molti che non esitano a toglierli, con la violenza o con la frode, al prossimo. È una maniera d'agire assai pericolosa, dal momento che è poi difficile restituirli (120). Questa colpa - della sottrazione indebita - non può trovare assoluzione se, come insegna Agostino, non si restituisca il maltolto.
        «Dacci - perciò - il pane nostro», non già quello che appartiene ad altri. Chi ruba o commette rapina, non mangia di certo un pane che possa dirsi suo, avendo lo sottratto al prossimo.
  1.  Altro errore sta nell'avere il culto del superfluo: c'è infatti chi non è mai contento di ciò che possiede e vorrebbe avere sempre di più. Questa sollecitudine è eccessiva, dato che i desideri vanno commisurati alle necessità. Un savio dice al Signore: «Non concedermi grandi fortune e scampami [nel medesimo tempo] dalla mendicità: dammi quel che è necessario per vivere» (Prv 30, 8). Pane «quotidiano» è quello del giorno corrente, quello proporzionato ai bisogni dell'oggi.
  1.  L'immoderata voracità spinge altri a consumare in un giorno ciò che potrebbe bastare a lungo: neppure costoro cercano il pane quotidiano ma quello di... dieci giorni consecutivi (121). Con delle spese pazze, sciupano i patrimoni. «Chi passa la vita a sbevazzare e organizzando banchetti finirà in rovina» (Prv 23, 21); «Un operaio ubriacone non diverrà mai ricco» (Qo 19, 1).
  1.  L'ingratitudine, infine. Quando qualcuno si sente importante per via delle ricchezze che possiede e non riconosce di averle ricevute da Dio in usufrutto, fa qualcosa di assai scorretto. Ciò che possiamo avere - materiale o spirituale che sia - è tutta roba che appartiene al Signore (cf. I Cr 29, 14). Giustamente ci fa ripetere «dacci» e «il pane nostro», affinché ci ricordiamo che tutto il «nostro» è, in ultima analisi, suo.
        Del resto è un fatto sperimentabile, appena vediamo qualcuno che, proprietario di grandi ricchezze, non ricava da esse un vero vantaggio ma solo danni e spirituali e materiali. Più d'uno è morto proprio per colpa delle sue fortune. Documenta una simile verità la lunga esperienza del Qoèlet. «C'è un altro guaio che ho riscontrato sotto il sole, ed è frequente tra gli uomini. A un tale, Dio ha permesso ricchezze e sostanze e onori; nulla gli manca di tutto ciò che il suo cuore desidera. Ma Dio non gli permette di goderne, per cui un estraneo gli divora ogni cosa, Una delusione, una vera disdetta» (Qo 6, 1-2). E a questo mondo non di rado accade che i beni, gelosamente custoditi dal padrone, d'un tratto si sciupano [impiegati in un cattivo affare].
       Dobbiamo chiedere perciò [la grazia] che il benessere, se capita, concorra al nostro [spirituale o comunque onesto] profitto. Favorisce tale disposizione d'animo il ripetere: «Dacci [oggi] il nostro pane [quotidiano]», nel senso di: rendi giovevoli i beni di cui potrò disporre. Che non debba dirsi anche di noi quanto ha scritto Giobbe, dell'empio infelice: «Egli vomiterà le ricchezze che ha divorato... Porterà le conseguenze del male che ha fatto... in proporzione alla totalità dei suoi [disonesti] guadagni egli dovrà soffrire. Perché egli oppresse e spogliò i poveri, e rapì la casa che non aveva edificato. E il suo ventre non ne fu sazio; e quando avesse tutto quello che bramava, non potrà tenerlo» (Gb 20, 15; 18-20).
        Non sarà inutile tornare sul difetto della sollecitudine eccessiva (122). C'è di quelli che si preoccupano, oggi, di affanni che saranno reali soltanto di qui a un anno. Vivono nell'inquietudine. Ma Gesù ci ricorda: «Non state a preoccuparvi, dicendo: 'Cosa mangeremo?', oppure: 'Avremo da bere?' o 'Di che ci vestiremo?'» (Mt 6, 31). Egli vuole cioè che si chieda, oggi, il pane dell'oggi, quello che fa bisogno al presente.
        Ma vi sono altre due specie di pane, oltre a quello [puramente] materiale: l'eucaristia e la parola di Dio. «Io sono il pane venuto dal cielo» (Gv 6, 51).
        Chiediamo dunque questo pane sacramentale, che ogni giorno è approntato sugli altari, e riceviamolo debitamente, come esige un bene [sacro] ordinato alla salute dello spirito. Diversamente «chi ne mangia... senza discernere [dal pane comune] il corpo del Signore, mangia... la sua propria condanna» (I Cor 11, 29).
        L'altro pane [di cui ha fame il nostro spirito] è la parola di Dio. «L'uomo non vive di solo pane, ma d'ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 4). Nel «Padre nostro» chiediamo che ci venga somministrato anch'esso.
        Ne deriverà la beatitudine che risponde alla fame di [un'esistenza ispirata alla] giustizia. «Beati gli affamati e gli assetati di giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5, 6). I beni spirituali infatti più si hanno e più sono bramati: una fame che è nobile desiderio, cui seguirà il più completo appagamento nella vita eterna.

 



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