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GIOVANNI PAOLO II

Ultimo Aggiornamento: 04/05/2012 19:31
04/05/2012 19:27

DONO E MISTERO

GIOVANNI PAOLO II

DONO E MISTERO
Nel 50° del mio sacerdozio

 

LIBRERIA EDITRICE VATICANA

Ho vivo nella memoria il gioioso incontro che, su iniziativa della Congregazione per il Clero, si svolse in Vaticano nell'autunno dello scorso anno (27 ottobre 1995), per celebrare il 30° anniversario del Decreto conciliare Presbyterorum ordinis. Nel clima festoso di quell'assemblea diversi sacerdoti parlarono della loro vocazione, ed anch'io offersi la mia testimonianza. Mi sembrò infatti bello e fruttuoso che tra sacerdoti, al cospetto del popolo di Dio, ci si rendesse questo servizio di reciproca edificazione.

Le parole da me dette in quella circostanza ebbero un'eco piuttosto vasta. La conseguenza fu che da varie parti mi si chiese con insistenza di tornare ancora, e più ampiamente, in occasione del Giubileo sacerdotale, sul tema della mia vocazione.

Confesso che la proposta, sulle prime, suscitò in me qualche comprensibile resistenza. Ma successivamente ritenni doveroso accogliere l'invito, vedendo in ciò un aspetto del servizio proprio del ministero petrino. Stimolato da alcune domande del Dr. Gian Franco Svidercoschi, che hanno fatto da filo conduttore, mi sono abbandonato con libertà all'onda dei ricordi, senza alcun intento strettamente documentario.

Quanto qui dico, al di là degli eventi esteriori, appartiene alle mie radici profonde, alla mia esperienza più intima. Lo ricordo innanzitutto per rendere grazie al Signore. «Misericordias Domini in aeternum cantabo!». Lo offro ai sacerdoti e al popolo di Dio come testimonianza di amore.


I

AGLI INIZI .... IL MISTERO!

La storia della mia vocazione sacerdotale? La conosce soprattutto Dio. Nel suo strato più profondo, ogni vocazione sacerdotale è un grande mistero, è un dono che supera infinitamente l'uomo. Ognuno di noi sacerdoti lo sperimenta chiaramente in tutta la sua vita. Di fronte alla grandezza di questo dono sentiamo quanto siamo ad esso inadeguati.

La vocazione è il mistero dell'elezione divina: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15, 16). «E nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio, come Aronne» (Eb 5, 4). «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo; prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1, 5). Queste parole ispirate non possono non scuotere con un profondo tremore ogni anima sacerdotale.

Per questo, quando nelle più diverse circostanze — per esempio, in occasione dei Giubilei sacerdotali — parliamo del sacerdozio e ne diamo testimonianza, dobbiamo farlo con grande umiltà, consapevoli che Dio «ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua grazia» (2 Tm 1, 9). Contemporaneamente ci rendiamo conto che le parole umane non sono in grado di reggere il peso del mistero che il sacerdozio porta in sé.

Questa premessa mi è sembrata indispensabile, perché si possa comprendere in modo giusto quello che dirò del mio cammino verso il sacerdozio.

I primi segni della vocazione

L'Arcivescovo Metropolita di Cracovia, Principe Adam Stefan Sapieha, visitò la parrocchia di Wadowice quando ero studente di ginnasio. Il mio insegnante di religione, P. Edward Zacher, mi affidò il compito di porgergli il benvenuto. Ebbi allora per la prima volta l'occasione di trovarmi di fronte a quell'uomo molto venerato da tutti. So che, dopo il mio discorso, l'Arcivescovo domandò all'insegnante di religione quale facoltà avrei scelto dopo la maturità. P. Zacher rispose: «Studierà Filologia polacca». Il Presule avrebbe risposto: «Peccato che non sia la teologia».

In quel periodo della mia vita la vocazione sacerdotale non era ancora matura, anche se intorno a me non pochi erano del parere che dovessi entrare in seminario. E forse qualcuno avrà supposto che, se un giovane con così chiare inclinazioni religiose non entrava in seminario, era segno che in gioco v'erano altri amori o predilezioni. Di fatto, a scuola avevo molte colleghe e, impegnato com'ero nel circolo teatrale scolastico, avevo svariate possibilità di incontri con ragazzi e ragazze. Il problema tuttavia non era questo. In quel periodo ero preso soprattutto dalla passione per la letteratura, in particolare per quella drammatica, e per il teatro. A quest'ultimo m'aveva iniziato Mieczyslaw Kotlarczyk, insegnante di lingua polacca, più avanti di me negli anni. Egli era un vero pioniere del teatro dilettantistico e coltivava grandi ambizioni di un repertorio impegnato.

Gli studi all'Università Jaghellonica

Nel maggio 1938, superato l'esame di maturità, mi iscrissi all'Università per seguire i corsi di Filologia polacca. Per questo motivo mi trasferii insieme con mio padre da Wadowice a Cracovia. Ci sistemammo a via Tyniecka 10, nel quartiere di Debniki. La casa apparteneva ai parenti di mia madre. Intrapresi gli studi alla Facoltà di Filosofia dell'Università Jaghellonica, seguendo i corsi di Filologia polacca, ma riuscii a finire soltanto il primo anno, perché il 1° settembre 1939 scoppiò la seconda guerra mondiale.

A proposito degli studi, desidero sottolineare che la mia scelta della Filologia polacca era motivata da una chiara predisposizione verso la letteratura. Tuttavia, già durante il primo anno, attirò la mia attenzione lo studio della lingua stessa. Studiavamo la grammatica descrittiva del polacco moderno ed insieme l'evoluzione storica della lingua, con un particolare interesse per il vecchio ceppo slavo. Questo mi introdusse in orizzonti completamente nuovi, per non dire nel mistero stesso della parola.

La parola, prima di essere pronunciata sul palcoscenico, vive nella storia dell'uomo come dimensione fondamentale della sua esperienza spirituale. In ultima analisi, essa rimanda all'imperscrutabile mistero di Dio stesso. Riscoprendo la parola attraverso gli studi letterari e linguistici, non potevo non avvicinarmi al mistero della Parola, di quella Parola a cui ci riferiamo ogni giorno nella preghiera dell'Angelus: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Capii più tardi che gli studi di Filologia polacca preparavano in me il terreno per un altro genere di interessi e di studi. Predisponevano il mio animo ad accostarsi alla filosofia e alla teologia.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale

Ma torniamo al 1° settembre 1939. Lo scoppio della guerra cambiò in modo piuttosto radicale l'andamento della mia vita. In verità i professori dell'Università Jaghellonica tentarono di avviare ugualmente il nuovo anno accademico, ma le lezioni durarono soltanto fino al 6 novembre 1939. In quel giorno le autorità tedesche convocarono tutti i professori in un'assemblea che si concluse con la deportazione di quei rispettabili uomini di scienza nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Finiva così nella mia vita il periodo degli studi di Filologia polacca e cominciava la fase dell'occupazione tedesca, durante la quale inizialmente tentai di leggere e di scrivere molto. Proprio a quell'epoca risalgono i miei primi lavori letterari.

Per evitare la deportazione ai lavori forzati in Germania, nell'autunno del 1940 cominciai a lavorare come operaio in una cava di pietra collegata con la fabbrica chimica Solvay. Si trovava a Zakrzówek, a circa mezz'ora dalla mia casa di Debniki, ed ogni giorno vi andavo a piedi. Su quella cava scrissi poi una poesia. Rileggendola dopo tanti anni, la trovo ancora particolarmente espressiva di quella singolare esperienza:

«Ascolta, il ritmo uguale dei martelli, così noto,
io lo proietto negli uomini, per saggiare la forza d'ogni colpo.
Ascolta, una scarica elettrica taglia il fiume di pietra,
e in me cresce un pensiero, di giorno in giorno:
tutta la grandezza del lavoro è dentro l'uomo...».
(La cava di pietra: I, Materia, 1)

Ero presente quando, durante lo scoppio d'una carica di dinamite, le pietre colpirono un operaio e lo uccisero. Ne rimasi profondamente sconvolto:

«Sollevarono il corpo. Sfilarono in silenzio.
Da lui ancora emanava fatica ed un senso d'ingiustizia»...
( La cava di pietra: IV, In memoria di un compagno di lavoro, 2-3)

I responsabili della cava, che erano polacchi, cercavano di risparmiare a noi studenti i lavori più pesanti. A me, per esempio, assegnarono il compito di aiutante del cosiddetto brillatore: si chiamava Franciszek Labus. Lo ricordo perché, qualche volta, si rivolgeva a me con parole di questo genere: «Karol, tu dovresti fare il prete. Canterai bene, perché hai una bella voce e starai bene...». Lo diceva con tutta semplicità, esprimendo così una convinzione abbastanza diffusa nella società circa la condizione del sacerdote. Le parole del vecchio operaio mi si sono impresse nella memoria.

Il teatro della parola viva

In quel periodo rimasi in contatto con il teatro della parola viva, che Mieczyslaw Kotlarczyk aveva fondato e continuava ad animare nella clandestinità. L'impegno nel teatro fu all'inizio favorito dall'avere ospiti in casa mia Kotlarczyk e sua moglie Sofia, che erano riusciti a passare da Wadowice a Cracovia entro il territorio del «Governatorato Generale». Abitavamo insieme. Io lavoravo come operaio, lui inizialmente come tramviere e, in seguito, come impiegato in un ufficio. Condividendo la stessa casa, potevamo non solo continuare i nostri discorsi sul teatro, ma anche tentarne attuazioni concrete, che assumevano appunto il carattere di teatro della parola. Era un teatro molto semplice. La parte scenica e decorativa era ridotta al minimo; l'impegno si concentrava essenzialmente nella recitazione del testo poetico.

Le recite avvenivano davanti ad un ristretto gruppo di conoscenti e di invitati, i quali avevano uno specifico interesse per la letteratura ed erano, in qualche modo, degli «iniziati». Mantenere il segreto intorno a questi incontri teatrali era indispensabile; si rischiavano altrimenti gravi punizioni da parte delle autorità d'occupazione, non esclusa la deportazione nei campi di concentramento. Devo ammettere che tutta quella esperienza teatrale mi si è impressa profondamente nell'animo, anche se ad un certo momento mi resi conto che in realtà non era questa la mia vocazione.


II

LA DECISIONE DI ENTRARE IN SEMINARIO

Nell'autunno del 1942 presi la decisione definitiva di entrare nel seminario di Cracovia, che funzionava clandestinamente. Mi accolse il Rettore, P. Jan Piwowarczyk. La cosa doveva rimanere nel più stretto riserbo, anche nei confronti delle persone care. Iniziai gli studi presso la Facoltà teologica dell'Università Jaghellonica, anch'essa clandestina, continuando intanto a lavorare come operaio alla Solvay.

Durante il periodo dell'occupazione l'Arcivescovo Metropolita sistemò il seminario, sempre in forma clandestina, presso la sua residenza. Ciò poteva provocare in ogni momento, sia per i superiori che per i seminaristi, severe repressioni da parte delle autorità tedesche. Soggiornai in questo singolare seminario, presso l'amato Principe Metropolita, dal settembre 1944 e lì potei restare insieme ai miei colleghi fino al 18 gennaio 1945, il giorno — o meglio la notte — della liberazione. Fu infatti di notte che l'Armata Rossa raggiunse i dintorni di Cracovia. I tedeschi in ritirata fecero esplodere il ponte Debnicki. Ricordo quella terribile detonazione: lo spostamento d'aria infranse tutti i vetri delle finestre della residenza arcivescovile. In quel momento ci trovavamo in cappella per una funzione alla quale partecipava l'Arcivescovo. Il giorno seguente ci affrettammo a riparare i danni.

Debbo però tornare ai lunghi mesi che precedettero la liberazione. Come ho detto, vivevo con gli altri giovani nella residenza dell'Arcivescovo. Egli ci aveva presentato fin dall'inizio un giovane sacerdote, che sarebbe stato il nostro Padre spirituale. Si trattava del P. Stanislaw Smolenski, laureato a Roma, uomo di grande spiritualità: egli è oggi Vescovo ausiliare emerito di Cracovia. Padre Smolenski intraprese con noi un lavoro regolare di preparazione al sacerdozio. Prima avevamo come superiore soltanto un prefetto nella persona di P. Kazimierz Klósak, che aveva compiuto gli studi a Lovanio ed era professore di filosofia: per la sua ascesi e bontà egli suscitava in noi grande stima e ammirazione. Rispondeva del suo operato direttamente all'Arcivescovo, dal quale dipendeva, del resto, in modo diretto pure lo stesso nostro seminario clandestino. Dopo le vacanze estive del 1945 P. Karol Kozlowski, proveniente da Wadowice, già Padre spirituale del seminario nel periodo precedente la guerra, fu chiamato a sostituire il P. Jan Piwowarczyk come Rettore del seminario nel quale aveva trascorso quasi tutta la vita.

Venivano così completandosi gli anni della formazione seminaristica. I primi due, quelli che nel curriculum degli studi sono dedicati alla filosofia, li avevo fatti in modo clandestino, lavorando come operaio. I successivi 1944 e 1945 avevano visto il mio crescente impegno presso l'Università Jaghellonica, anche se il primo anno dopo la guerra fu ancora molto incompleto. Normale fu l'anno accademico 1945/46. Alla Facoltà Teologica ebbi la fortuna di incontrare alcuni eminenti professori, come P. Wladyslaw Wicher, professore di teologia morale, e P. Ignacy Rózycki, professore di teologia dogmatica, che mi introdusse alla metodologia scientifica in teologia. Oggi abbraccio con un pensiero pieno di gratitudine tutti i miei Superiori, Padri spirituali e Professori, che nel periodo del seminario contribuirono alla mia formazione. Il Signore ricompensi i loro sforzi e il loro sacrificio!

All'inizio del quinto anno l'Arcivescovo decise che avrei dovuto trasferirmi a Roma per completare gli studi. Fu così che, in anticipo sui miei compagni, fui ordinato sacerdote il 1° novembre 1946. Quell'anno il nostro gruppo era, naturalmente, poco numeroso: eravamo in tutto sette. Oggi siamo ancora vivi soltanto in tre. Il fatto di essere in pochi aveva i suoi vantaggi: permetteva di allacciare legami profondi di reciproca conoscenza ed amicizia. Questo valeva anche, in qualche modo, per i rapporti con i Superiori ed i Professori, sia nel periodo della clandestinità che nel breve periodo degli studi ufficiali all'Università.

Le vacanze da seminarista

Dal momento in cui presi contatto col seminario s'inaugurò per me un nuovo modo di trascorrere le vacanze. Fui mandato dall'Arcivescovo presso la parrocchia di Raciborowice, nei dintorni di Cracovia. Non posso non esprimere profonda gratitudine al parroco, P. Józef Jamróz, e ai vicari di quella parrocchia, che divennero compagni di vita di un giovane seminarista clandestino. Ricordo in particolare P. Franciszek Szymonek, che più tardi, nel periodo del terrore staliniano, fu accusato e posto sotto processo con intenzioni dimostrative nei confronti della Curia arcivescovile di Cracovia: fu condannato a morte. Fortunatamente, dopo un po' di tempo venne graziato. Ricordo anche P. Adam Biela, un mio collega più grande del ginnasio di Wadowice. Grazie a questi giovani sacerdoti, ebbi modo di conoscere la vita cristiana di tutta la parrocchia.

Poco dopo, sul territorio del paese di Bienczyce, che apparteneva alla parrocchia di Raciborowice, sorse un grande quartiere col nome di Nowa Huta. Trascorsi lì molti giorni durante le vacanze, sia nel 1944 che nel 1945, a guerra finita. Facevo soste prolungate nella vecchia chiesa di Raciborowice, che risaliva ancora ai tempi di Jan Dlugosz. Molte ore le dedicavo alla meditazione passeggiando nel cimitero. Avevo portato a Raciborowice i miei strumenti di studio: i volumi di San Tommaso con i commenti. Imparavo la teologia, per così dire, dal «centro» di una grande tradizione teologica. Cominciai allora a scrivere un lavoro su San Giovanni della Croce che continuai poi sotto la direzione del P. Prof. Ignacy Rózycki, docente presso l'Università di Cracovia, non appena questa fu riaperta. Completai lo studio in seguito all'Angelicum, sotto la guida del P. Prof. Garrigou Lagrange.

Il Cardinale Adam Stefan Sapieha

Su tutto il nostro itinerario formativo verso il sacerdozio esercitò un influsso rilevante la grande figura del Principe Metropolita, futuro Cardinale Adam Stefan Sapieha, cui va il mio ricordo commosso e grato. Il suo ascendente era accresciuto dal fatto che, nel periodo di transizione prima della riapertura del seminario, abitavamo nella sua residenza e lo incontravamo ogni giorno. Il Metropolita di Cracovia fu elevato alla dignità cardinalizia subito dopo la fine della guerra, in età piuttosto avanzata. Tutta la popolazione accolse questa nomina come un giusto riconoscimento dei meriti di quel grande uomo, che durante l'occupazione tedesca aveva saputo tenere alto l'onore della Nazione, manifestando la propria dignità in modo chiaro per tutti.

Ricordo quella giornata di marzo — si era in Quaresima — quando l'Arcivescovo tornò da Roma dopo aver ricevuto il cappello cardinalizio. Gli studenti sollevarono a braccia la sua macchina e la portarono per un buon tratto, fin presso la Basilica dell'Assunzione in Piazza del Mercato, esprimendo in tal modo l'entusiasmo religioso e patriottico che quella nomina cardinalizia aveva suscitato nella popolazione.


III

INFLUSSI SULLA MIA VOCAZIONE

Ho parlato ampiamente dell'ambiente seminaristico, perché esso fu certamente quello che ebbe maggior rilievo nella mia formazione sacerdotale. Allargando tuttavia lo sguardo su un orizzonte più ampio, vedo con chiarezza che da tanti altri ambienti e persone mi sono venuti influssi positivi, attraverso i quali Dio mi ha fatto giungere la sua voce.

La famiglia

La preparazione al sacerdozio, ricevuta in seminario, era stata in qualche modo preceduta da quella offertami con la vita e l'esempio dai genitori in famiglia. La mia riconoscenza va soprattutto a mio padre, rimasto precocemente vedovo. Non avevo ancora fatto la Prima Comunione quando perdetti la mamma: avevo appena nove anni. Non ho perciò chiara consapevolezza del contributo, sicuramente grande, che ella dette alla mia educazione religiosa. Dopo la sua morte e, in seguito, dopo la scomparsa del mio fratello maggiore, rimasi solo con mio padre, uomo profondamente religioso. Potevo quotidianamente osservare la sua vita, che era austera. Di professione era militare e, quando restò vedovo, la sua divenne una vita di preghiera costante. Mi capitava di svegliarmi di notte e di trovare mio padre in ginocchio, così come in ginocchio lo vedevo sempre nella chiesa parrocchiale. Tra noi non si parlava di vocazione al sacerdozio, ma il suo esempio fu per me in qualche modo il primo seminario, una sorta di seminario domestico.

La fabbrica Solvay

In seguito, dopo gli anni della prima giovinezza, seminario per me divennero la cava di pietra e il depuratore dell'acqua nella fabbrica di bicarbonato a Borek Falecki. E non si trattava più soltanto di pre-seminario, come a Wadowice. La fabbrica fu per me, in quella fase della vita, un vero seminario, anche se clandestino. Avevo cominciato a lavorare nella cava dal settembre 1940; dopo un anno passai al depuratore dell'acqua nella fabbrica. Furono quelli gli anni in cui maturò la mia decisione definitiva. Nell'autunno del 1942 intrapresi gli studi nel seminario clandestino come ex studente di Filologia polacca, al momento operaio alla Solvay. Non mi rendevo conto allora dell'importanza che ciò avrebbe avuto per me. Soltanto più tardi, da sacerdote, durante gli studi a Roma, imbattendomi attraverso i miei compagni del Collegio Belga nel problema dei preti-operai e nel movimento della Gioventù Operaia Cattolica (JOC), compresi che quanto era diventato così importante per la Chiesa e per il sacerdozio in Occidente — il contatto con il mondo del lavoro — io l'avevo già iscritto nella mia esperienza di vita.

In verità, la mia non fu esperienza di «prete operaio» ma di «seminarista operaio». Lavorando manualmente, sapevo bene che cosa significasse la fatica fisica. Mi incontravo ogni giorno con gente che lavorava pesantemente. Conobbi l'ambiente di queste persone, le loro famiglie, i loro interessi, il loro valore umano e la loro dignità. Personalmente sperimentavo molta cordialità da parte loro. Sapevano che ero studente e sapevano anche che, appena lo avrebbero permesso le circostanze, sarei tornato agli studi. Non incontrai mai ostilità per questa ragione. Non dava loro fastidio che portassi al lavoro i libri. Dicevano: «Noi staremo attenti: tu leggi pure». Questo capitava soprattutto durante i turni di notte. Dicevano spesso: «Riposati, staremo di guardia noi».

Feci amicizia con molti operai. A volte mi invitavano a casa loro. In seguito, come sacerdote e vescovo, battezzai i loro figli e nipoti, benedissi i matrimoni e officiai i funerali di molti di loro. Ebbi anche occasione di notare quanti sentimenti religiosi si nascondessero in loro e quanta saggezza di vita. Questi contatti, come ho accennato, restarono molto stretti anche quando terminò l'occupazione tedesca e poi in seguito, praticamente fino alla mia elezione a Vescovo di Roma. Alcuni di essi durano tuttora in forma di corrispondenza.

La parrocchia di Debniki: i Salesiani

Debbo ancora fare un salto indietro, al periodo che precedette l'entrata in seminario. Non posso, infatti, omettere di ricordare un ambiente e, in esso, un personaggio da cui in quel periodo ricevetti veramente molto. L'ambiente era quello della mia parrocchia, intitolata a San Stanislao Kostka, a Debniki in Cracovia. La parrocchia era diretta dai Padri Salesiani, che un giorno furono deportati dai nazisti nel campo di concentramento. Rimasero soltanto un vecchio parroco e l'ispettore della provincia, tutti gli altri furono internati a Dachau. Credo che nel processo di formazione della mia vocazione l'ambiente salesiano abbia svolto un ruolo importante.

Nell'ambito della parrocchia c'era una persona che si distingueva tra le altre: parlo di Jan Tyranowski. Di professione era impiegato, anche se aveva scelto di lavorare nella sartoria di suo padre. Affermava che il lavoro di sarto gli rendeva più facile la vita interiore. Era un uomo di una spiritualità particolarmente profonda. I Padri Salesiani, che in quel difficile periodo avevano ripreso con coraggio ad animare la pastorale giovanile, gli avevano affidato il compito di intessere contatti con i giovani nell'ambito del cosiddetto «Rosario vivo». Jan Tyranowski assolse questo incarico non limitandosi all'aspetto organizzativo, ma preoccupandosi anche della formazione spirituale dei giovani che entravano in rapporto con lui. Imparai così i metodi elementari di autoformazione che avrebbero poi trovato conferma e sviluppo nell'itinerario educativo del seminario. Tyranowski, che era venuto formandosi sugli scritti di San Giovanni della Croce e di Santa Teresa d'Avila, mi introdusse nella lettura, straordinaria per la mia età, delle loro opere.

I Padri Carmelitani

Ciò accrebbe in me l'interesse per la spiritualità carmelitana. A Cracovia, in via Rakowicka, c'era un monastero di Padri Carmelitani Scalzi. Li frequentavo e una volta feci presso di loro i miei Esercizi Spirituali valendomi dell'aiuto di P. Leonardo dell'Addolorata.

Per un certo periodo presi anche in considerazione la possibilità di entrare nel Carmelo. I dubbi furono risolti dall'Arcivescovo Cardinale Sapieha, il quale — secondo lo stile che gli era proprio — disse brevemente: «Bisogna prima finire quello che si è cominciato». E così avvenne.

Il P. Kazimierz Figlewicz

Nel corso di quegli anni mio confessore e guida spirituale fu P. Kazimierz Figlewicz. Lo avevo incontrato per la prima volta quando frequentavo la prima ginnasiale a Wadowice. Padre Figlewicz, che era vicario della parrocchia, ci insegnava religione. Grazie a lui mi avvicinai alla parrocchia, diventai chierichetto e in qualche modo organizzai il gruppo dei chierichetti. Quando egli lasciò Wadowice per la cattedrale del Wawel, continuai a mantenere i contatti con lui. Ricordo che, durante la quinta ginnasiale, mi invitò a Cracovia per partecipare al Triduum Sacrum, che cominciava col cosiddetto «Ufficio delle Tenebre», nel pomeriggio del Mercoledì Santo. Fu un'esperienza che lasciò in me una traccia profonda.

Quando, dopo la maturità, mi trasferii con mio padre a Cracovia, intensificai i miei rapporti col P. Figlewicz, che svolgeva la funzione di sottocustode della cattedrale. Andavo a confessarmi da lui e, durante l'occupazione tedesca, spesse volte gli facevo visita.

Quel 1° settembre 1939 non si cancellerà mai più dalla mia memoria: era il primo venerdì del mese. Mi ero recato al Wawel per confessarmi. La cattedrale era vuota. Fu, forse, l'ultima volta in cui potei liberamente entrare nel tempio. Esso fu poi chiuso e il castello reale del Wawel diventò la sede del governatore generale Hans Frank. Padre Figlewicz era l'unico sacerdote che poteva celebrare la Santa Messa, due volte alla settimana, nella cattedrale chiusa e sotto la vigilanza di poliziotti tedeschi. In quei tempi difficili diventò ancora più chiaro che cosa significassero per lui la cattedrale, le tombe reali, l'altare di San Stanislao Vescovo e Martire. Fino alla morte P. Figlewicz rimase fedele custode di quel particolare santuario della Chiesa e della Nazione, inculcandomi un grande amore per il tempio del Wawel, che un giorno doveva diventare la mia cattedrale vescovile.

Il 1° novembre 1946 fui ordinato sacerdote. Il giorno dopo, per la «prima Santa Messa», celebrata in cattedrale nella cripta di San Leonardo, P. Figlewicz era accanto a me e mi faceva da guida. Il pio sacerdote è ormai morto da alcuni anni. Soltanto il Signore può ricambiargli tutto il bene che ho da lui ricevuto.

Il «filo mariano»

Naturalmente, parlando delle origini della mia vocazione sacerdotale, non posso dimenticare il filo mariano. La venerazione alla Madre di Dio nella sua forma tradizionale mi viene dalla famiglia e dalla parrocchia di Wadowice. Ricordo, nella chiesa parrocchiale, una cappella laterale dedicata alla Madre del Perpetuo Soccorso, dove di mattina, prima dell'inizio delle lezioni, si recavano gli studenti del ginnasio. Anche a lezioni concluse, nelle ore pomeridiane, vi andavano molti studenti per pregare la Vergine.

Inoltre, a Wadowice, c'era sulla collina un monastero carmelitano, la cui fondazione risaliva ai tempi di San Raffaele Kalinowski. Gli abitanti di Wadowice lo frequentavano in gran numero, e ciò non mancava di riflettersi in una diffusa devozione per lo scapolare della Madonna del Carmine. Anch'io lo ricevetti, credo all'età di dieci anni, e lo porto tuttora. Si andava dai Carmelitani anche per confessarsi. Fu così che, tanto nella chiesa parrocchiale quanto in quella del Carmelo, si formò la mia devozione mariana durante gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza fino al conseguimento della maturità classica.


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